Leggere insieme, imparare insieme. Nota sul «male di vivere», la «divina Indifferenza» e la libertà
Premessa
A volte, nel nostro lavoro di insegnanti, rischiamo di smarrire il senso di quello che facciamo: presi da incombenze burocratiche di ogni tipo, persi in griglie, programmazioni, adempimenti, può capitarci di dimenticare che leggere un brano letterario insieme agli studenti significa rispondere a una sfida, trovare ciò che esso ha di importante da dire, farlo parlare e tradurlo in modo che possa portare qualcosa di nuovo nelle vite di chi lo legge, in termini di rispecchiamento, di emozione, di associazioni mentali inedite, di apertura di spazi imprevisti di pensiero.
Ma se un testo non ci piace e lo facciamo leggere senza convinzione, oppure se noi stessi non lo abbiamo ben compreso in ciò che davvero ha da dire? Non a caso, finché non è arrivata l’ubriacatura di discorsi astratti sul come insegnare, che prescindono dal che cosa e dal perché, da ciò che davvero passain classe attraverso le parole, era considerato ovvio che l’aggiornamento degli insegnanti dovesse riguardare prima di tutto un continuo approfondimento e aggiornamento dei contenuti disciplinari.
Il «male di vivere» e la «divina Indifferenza»
Confesso che, pur avendo un lungo passato da montalista, a me la poesia “Spesso il male di vivere ho incontrato”, celebre lirica degli Ossi di seppia (la cui composizione risale probabilmente al 1924), ha sempre fatto poco effetto, con quelle immagini del «male di vivere» e della «divina Indifferenza» che mi sembravano nient’altro che gelide astrazioni; soprattutto, non capivo il senso delle tre immagini della seconda strofa (la statua, la nuvola, il falco), che mi lasciavano — tanto per rimanere in tema — del tutto indifferente, finché…
Un giorno, diversi anni fa, ci interrogavamo in classe su questa poesia; la prima quartina, a dire il vero, non presenta particolari problemi interpretativi:
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Come è stato notato molto presto dalla critica, il male di vivere e il senso di morte si manifestano qui in un climax ascendente, che va dall’inorganico (il fiume che non riesce a scorrere), al vegetale (la foglia secca), all’animale (il cavallo morto o morente): le tre immagini sono l’equivalente sensibile — già quasi un correlativo oggettivo — di un incremento della capacità di soffrire man mano che aumenta il grado di consapevolezza.
I problemi di interpretazione arrivano con la seconda quartina:
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
A parte le cruces interpretative più semplici, che riguardano il piano grammaticale e sintattico («bene» è avverbio o, com’è quasi ovvio, nome, “ciò che è bene”? È chiaro che è la «divina Indifferenza» a schiudere il prodigio e non viceversa… ma è davvero così chiaro?), i commentatori si interrogano da decenni sulla «divina Indifferenza»: l’indifferenza di Dio? un’indifferenza crudele che ha qualcosa di divino? e questa indifferenza è da intendere in un’accezione positiva o negativa? Se la prima strofa mostra immagini del «male di vivere» la seconda dovrebbe essere quella del positivo, del «bene». O no? E le tre immagini giustapposte (la statua, la nuvola, il falco) in che rapporto sono tra loro? Perché sono accostate? Si tratta di un accostamento casuale, magari volto a suggerire la contingenza di tutto ciò che esiste?
Da quanto ho potuto leggere, i commenti e le interpretazioni di questa poesia, anche i più validi e stimolanti, su questi punti — la natura della divina Indifferenza, il suo rapporto con la successione di immagini statua-nuvola-falco e il senso di questa successione — sembrano davvero contingenti, sembrano cioè scontare una mancanza di intima necessità. La responsabilità, certo, non è dei commentatori, ma probabilmente del testo stesso, che sembra rimanere chiuso in un ostico e immotivato mistero.
Per mostrare rapidamente qualche esempio di interpretazione di questi versi, possiamo ricordare come già in un saggio del 19331 Gianfranco Contini parlasse di «quella disposizione recettiva, anteriore a ogni decisione, che nella sonnolenza del meriggio il poeta ha chiamato il “prodigio” della “divina Indifferenza”». Così, in un’ottima edizione commentata degli Ossi,2 nel cappello introduttivo alla poesia, si legge: «Non casuale la selezione degli exempla: dall’inanimato al vegetale all’animale, nella prima serie; con replicazione, nella seconda, della prima e terza categoria (la statua e il falco), mentre la nuvola potrebbe suggerire un contrasto se non un rimedio all’aridità della foglia». E nelle note: «falco alto levato: minimo ma rilevante esito vitale conclusivo (con l’apparizione di un rapace), anche in forza dell’evasione dalla gabbia metrica e dal sistema delle rime, nonché dalla concentrata allitterazione dei gruppi al e to, in presenza di tre a toniche di seguito». Come si vede, una spiegazione approfondita ma che sembra presupporre una certa arbitrarietà nella scelta delle immagini.
Lo stesso accade nel commento al testo presente nel manuale scolastico La letteratura ieri, oggi, domani3: «Ai tre emblemi del male si contrappongono così nella seconda strofa, con studiato parallelismo, tre emblemi di questa specie di “bene”: la statua, la nuvola, il falco. A segnare la contrapposizione tra le due terne di immagini, la rima “levato” del verso 8, che indica un movimento dal basso verso l’alto, è antitetica rispetto a quella dell’ultimo verso della strofa precedente, “stramazzato”, che presupponeva un movimento inverso…». Una spiegazione interessante anche questa, che sembra però dare ancora per scontata una parziale arbitrarietà delle immagini utilizzate dal poeta.
Sarà possibile ipotizzare l’esistenza di una logica più stringente in questi versi tanto sfuggenti, una logica poetica che «finalmente ci metta/ nel mezzo di una verità»? O dovremo rassegnarci — magari senza dirlo ad alta voce — a trovarli francamente brutti, come tutto ciò che non riesce ad essere abbastanza significante, nemmeno per via di suggestione?
La classe, le parole, l’interpretazione
Ecco che, in questa foresta di dubbi, mentre leggiamo insieme in classe, cade l’osservazione illuminante di Giuseppe: «Certo, la statua ha i piedi attaccati a terra, non si può muovere… ». «Vai avanti, e la nuvola?». «La nuvola sì, si può muovere…». «Beh, non allo stesso modo del falco». «No, la nuvola è portata dal vento, non è libera…». «E il falco?». «Il falco sì, decide lui dove andare, va dove vuole lui…». Ah, ecco cosa potrebbe esserci nel cuore di questa seconda quartina, improvvisamente lo capisco anch’io: un altro climax con al centro la libertà, quella del movimento, che diventa emblema della Libertà, in senso metafisico, cioè — tenendo a mente le immagini della prima quartina — la continua ricreazione delle possibilità dell’esistenza, il cui equivalente fonosimbolico è l’armoniosa allitterazione nuVOLA-fALcO-ALtO-LeVATO. La successione statua-nuvola-falco potrebbe rappresentare un’ascensione sulla scala della libertà, identificata con la possibilità del movimento, l’equivalente per immagini di un progressivo scioglimento dalle catene di ciò che è morto e inanimato; ed ecco allora che la «divina Indifferenza» potrebbe rappresentare la forza vitale e creatrice che ci spinge avanti e fa sì che ci lasciamo alle spalle il peso di ciò che è già stato: «Indifferenza» come possibilità di ri-creare il futuro attraverso la scelta (la libertà d’altronde è sempre prerogativa «divina»), a partire da un passato che non imprigioni.
Letta in questa prospettiva, la poesia, nella successione delle sue immagini (anche senza che si conosca il milieu culturale in cui si muove Montale, il contingentismo filosofico, Boutroux, Bergson4), riesce a trasmettere il senso di una liberazione, a farci sentire un alleggerimento del «male di vivere». Ne abbiamo una conferma intertestuale se torniamo alla poesia che introduce gli Ossi, “In limine“, il cui argomento è proprio “La Libertà” (non a caso titolo originale del componimento):
Godi se il vento ch’entra nel pomario
vi rimena l’ondata della vita:
qui dove affonda un morto
viluppo di memorie,
orto non era, ma reliquario.
Il frullo che tu senti non è un volo,
ma il commuoversi dell’eterno grembo;
vedi che si trasforma questo lembo
di terra solitario in un crogiuolo.
[…]
si compongono qui le storie, gli atti
scancellati pel giuoco del futuro […].
Certo, c’è una crudeltà in quel «giuoco del futuro» che scancella di continuo «le storie, gli atti» sotto il segno di una temporalità che impedisce qualunque permanenza («ma una storia non dura che nella cenere/ e permanenza è solo l’estinzione» dirà Montale tanti anni dopo, nello straordinario “Piccolo testamento” de La Bufera e altro). Eppure la temporalità inesorabile lascia forse esistere un’altra possibilità, la rottura della catena dell’immanenza attraverso una «maglia rotta nella rete» che consenta, almeno al «tu» cui Montale si rivolge, accesso a una dimensione diversa dell’esistenza, quella della Libertà («Cerca una maglia rotta nella rete/ che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!»).
Che non sia anche «il falco» di “Spesso il male di vivere…” il segno tangibile di questa dimensione?
Conclusione
Ho poi riproposto questa poesia a diverse classi, nel corso del tempo, e devo dire che l’interpretazione di cui qui si è dato conto si riaffaccia abbastanza facilmente ogni volta che si chieda agli studenti qual è la caratteristica che può porre in un climax ascendente la statua, la nuvola, il falco: è raro che in una classe, dopo che in molti hanno notato che la statua è a terra, in basso, mentre nuvola e falco sono in cielo, in alto, qualcuno non dica (specie se si precisa che la statua non solo è a terra, ma è inchiodata a terra) che nuvola e falco si muovono. E se si chiede di spiegare la differenza tra i due movimenti, torniamo quasi sempre all’idea di Giuseppe. Ormai con gli studenti ci siamo convinti a vicenda; anche perché di libertà, di libertà di pensare, in questi anni sentiamo tutti un grande bisogno.
E Montale, in questo senso, ha ancora moltissimo da insegnarci.
1 Gianfranco Contini, “Introduzione a Ossi di seppia”, in Una lunga fedeltà, Torino, Einaudi, 1974, p.16.
2 Eugenio Montale, Ossi di seppia, a cura di Pietro Cataldi e Floriana D’Amely, Oscar poesia del Novecento, Milano, Mondadori, 2003, pp.75-76.
3 La letteratura ieri, oggi, domani, a cura di Baldi, Giusso, Razetti, Zaccaria, Pearson Paravia, 2016, vol. 3.2, p.266.
4 Senza dimenticare Giuseppe Rensi, il filosofo de La filosofia dell’assurdo e delle Lettere spirituali, di cui Montale era stato sicuramente un attento lettore e a cui probabilmente si è ispirato anche per l’immagine di “Piccolo testamento” richiamata oltre. Scrive Rensi: «Se tu soffi sulla fiamma d’una candela, la fiamma si estingue, ma la candela resta» (Giuseppe Rensi, Lettere spirituali, Milano, Adelphi, 1987 [1943], p.125). Qualche anno fa, quando avevo cominciato una ricerca sui rapporti tra Rensi e Montale poi interrotta, la questione era ancora tutta da approfondire: tra le poche indicazioni, non esaustive, quelle del saggio di C. Scarpati, Montale e Rensi («Sigma», XIII, 1, gennaio-giugno 1980, pp. 77-108), e quelle di Roberto Orlando in Il ‘razionalismo’ di Montale fra Bergson e Šestov (1994) ora in Applicazioni montaliane, Lucca, Pacini Fazzi, 2001.
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Davvero!! Anch’io ho fatto
to un’ esperienza analoga con i miei alunni, proprio durante la lettura di questo testo. Statua, nuvola e falco forse da intendersi come un in un climax, un progressivo slancio verso l’ alto nel desiderio di l’Assoluto..nonostante la Divina Indifferenza.
Io, ogni volta che leggo la poesia in esame, non do mai per scontato che la Divina Indifferenza schiuda il prodigio, ma che sia un miracolo a produrre lo stato di Divina Indifferenza, in accordo con la convinzione che un evento determini uno stato più che uno stato un evento. E a quel punto penso sempre al finale, per me altrettanto chiuso e denso, de L’étranger di Camus. E risolvo dicendo che l’indifferenza è l’unica risposta possibile al mondo indifferente. Nulla ho mai meditato sui tre esempi di positività in movimento. Grazie dello spunto.
Naturalmente questa spiegazione è già nel commento di Cataldi e d’Amely agli “Ossi di seppia” e chissà in quanti prima di loro. Ci vorrebbe una vita di letture per verificarlo.
La banalità del bene
Aveva qualche ragione Piero Bigongiari in uno dei suoi ultimi scritti a contrapporre un “correlativo soggettivo” al canonico “correlativo oggettivo” attribuito, pur con qualche questione sulla priorità, a Eliot e Montale?
In questo caso il termine “correlativo oggettivo” non fa riferimento alla “coppia dialettica” oggetto /soggetto, ma indica semplicemente l’espressione nella poesia non di un pensiero soggettivo, autobiografico, ma che il suo significato è trasmesso tramite un “oggetto”, nel senso di un semplice oggetto o una espansione di esso. E’ chiaro che il tutto è sempre scelto e filtrato attraverso il soggetto del poeta, in riferimento a una sua situazione vissuta o immaginaria, ma qui il rapporto fra soggetto e oggetto è appunto mediato da una serie di fattori che vanno ricostruiti per arrivare a un significato o a possibili altri significati.
L’oggetto insomma non è in ultima istanza una creazione del soggetto, ma conserva una sua natura propria inabolibile appunto di oggetto del mondo e la presenza del soggetto in esso non può abolire il suo residuo noumenico. Allora come arriva Bigongiari a ridurlo a “soggetto”? E’ inevitabile che ciò possa avvenire solo attraverso una abolizione idealistica, quindi mistica, di esso e questo deriva dal fondo religioso della sua ideologia, e che percosse tutta la sua vicenda poetica e teorica. Bigongiari era e rimane un poeta religioso, uno che si è bevuto il “sillogismo paolino” (Se credi che Gesù è risorto, anche tu risorgerai). Che cosa ci ha potuto insegnare o trasmettere la sua autoproliferante produzione poetica?
Sappiamo come il concetto di “correlativo oggettivo” derivi in Montale dai filosofi contingentisti che aveva conosciuto tramite la sorella che studiava filosofia, e ne era rimasto affascinato, e da loro trasse gli stimoli verso la sua espressione poetica. In Eliot il concetto di “correlativo oggettivo” derivava da tutt’altre premesse filosofiche, anche se il fondo religioso e mistico rimase insuperabile anche per lui.
La concezione religiosa cristiana ha il suo fondamento nell’”incarnazione”. L’oggetto è creato dal soggetto e ritorna soggetto, di per sé eterno. Da Parmenide a Severino. L’idealismo, perlomeno quello hegeliano, inserisce in questo processo tutto il lavorio della vicenda umana pur mantenendo in definitiva l’impianto religioso di fondo: ciò che è reale è razionale. Il mondo è una manifestazione di Dio, ma le sue vicende non sono predeterminate, perché l’uomo vi agisce come soggetto libero di scelte e ne risponde. Il grande affresco della Comedìa dantesca. L’ebraismo, da cui il cristianesimo è scaturito, ha finito per porre nel concetto di Mashiah, con tutta la sua problematica cangiante, il nesso fra soggetto e oggetto. Le varie filosofie non sono mai uscite da questo ambito. Quello che è importante nella genesi dell’opera poetica di Montale è appunto lo sviluppo che tutto questo ha avuto, dal contingentismo degli Ossi allo stilnovismo di Occasioni e Bufera con la donna angelo messaggera del suo Dio (e sarebbe un grave colpo alla sua vicenda umana e alla sua produzione poetica se lo fosse stato del disegno sionista), al dissolversi nella chiacchiera degli ultimi libri, fino però al compimento del suo funerale religioso, che io ho definito “banale” officiato da un “banale”, il cardinale Martini così elogiato in questo caso. Che cosa ci ha trasmesso Montale con la sua opera così affascinante se non questa vicenda umana, troppo umana, oltre a un certo grettismo borghese ben denunciato da Pasolini che viaggiava per tutt’altri liti seppure nel fondo molto simile: un credente che non riesce a veramente non credere.
Bigongiari ha ruotato nella sua debordante produzione poetica e critica intorno a questi temi, avendo in Montale il faro poetico della sua epoca, con minore fortuna di un Luzi che riuscì a farsi credere più sociale, più a sinistra, ma che anche lui non uscì mai da quel solco dei minores succubi del “sillogismo paolino”.
E’ esilarante quanto il correttore automatico, o l’occhio rovesciato della Silicon Valley, corregga quanto scriviamo sempre verso la lectio facilior: percorse > percosse, lidi > liti.
Quando questo lo fanno i “poeti” è elogiato come il culmine della loro vocazione. Famoso già l’esempio del libro della mia adolescenza: Die Struktur der modernen Lyrik.
Dovremmo parlare maggiormente di ciò che facciamo in classe. E di come, nonostante l’opera meritoria di molti di noi, ci sentiamo poco liberi nel valutare gli studenti a causa del condizionamento dei dirigenti e la vigliaccheria di molti colleghi (spesso preparati, ma vigliacchi silenziosi dinanzi alle storture).
Inoltre dovremmo proporci per tenere dei corsi ai pedagogisti, in modo da aggiornarli sui contenuti culturali e permettere loro di parlare del nostro lavoro con maggiore cognizione di causa
Assolutamente d’accordo
A me viene suggerita l’idea che il possibie riscatto di fronte all’inevitabile morte di tutte le cose della natura sia l’accettazione.”l’indifferenza”.La natura sola rimane come unica realtà ,sia essa inanimata come la statua vaga come la nuvola o vivente come il corvo .Caduca nelle sue espressioni particolari ma eterna nella sua essenza.
Naturalmente è il “pensiero speculativo” nella prospettiva hegeliana che fissa l’opposizione e in essa sé stesso.
Anche in una indagine semiotica della poesia di Montale che cosa dobbiamo notare? Che ad esempio in Mediterraneo le isotopie che soggiacciono al poemetto in 9 parti presuppongono piani molto diversi e con relazioni molto lontane. Per rimanere nel campo della tecnica musicale, così presente in Montale se già nelle sue prime poesie c’è l’accostamento alla poetica impressionistica di Debussy (vedi Minstrels), si potrebbe dire che la grammatica non è più tonale, ma presuppone modulazioni lontane, sovrapposizioni di tonalità o multitonalismo come stava facendo in quegli anni Strawinski.
Il piano terra/mare significa inizialmente vita/morte, morte per affogamento o inevitabile morte finale del finito nell’infinito. Ne è emblema la resistenza dell’uomo che come l’agave si abbarbica allo scoglio ma in questo lento precipitare verso il suo destino consapevole l’uomo trova la sua ragione di esistere e di resistere. Questa era l’interpretazione di Romano Luperini nelle conferenze nella Pontedera del 1965 alla vecchia Biblioteca comunale.
Sull’altra isotopia bambino/padre questo significa che il bambino resiste al suo destino di diventare “padre”, di abbandonare l’infanzia, di crescere, di trasformare il piano della inconsapevolezza infantile ed eterna (eternità d’istante) verso la consapevolezza dell’essere per la morte. La madre non appare, è “forchiusa”, è la “lacuna”, perché in realtà è ormai la “poesia”, quindi è presente in persona. E quando Montale scriverà la sua splendida A MIA MADRE, la immagina ormai sepolta nel cimitero della terra della sua infanzia e delle origini con il coro delle coturnici di passo che inconsapevoli e lontane adempiono il loro compito di viventi presi nel ciclo della vita. Cosa si aspetta Montale dalla madre ora? Di non cedere come un’ombra la spoglia, di non negare la traccia di sé che è la vita terrena e in definitiva il suo surrogato che è la poesia.
Questo è il Montale grande, il Montale che viene dopo Leopardi (ma Foscolo non era da meno). Ma può bastare questo “surrogato”, anche se lo porterà al riconoscimento più alto, il Premio Nobel? E’ la poesia una verità per sé, o ha ragione Hegel nel dire che il compito più alto è la comprensione della verità secondo ragione?
Naturalmente non intendo snobbare o sottovalutare l’importanza che l’iniziazione alla letteratura ha nella scuola a qualsiasi livello e anche l’approccio dialogico con gli alunni avendo anch’io fatto l’insegnante per quarant’anni, anche se tale iniziazione può avvenire in numerose occasioni, anche al di fuori di un’aula scolastica, una conferenza, un ascolto casuale alla radio, etc. Io stesso, come ho ricordato sopra, ho avuto la fortuna di conoscere Montale, che certamente non ignoravo prima, da questa conferenza tenuta da un giovane appena laureato che si chiamava Romano Luperini, e proprio “A mia madre” si contrapponeva alla versione spiritualistica dell’opponente Ungaretti. Volevo solo intendere che questo approccio è il primo passo, perché in un sistema borghese capitalistico anche l’interpretazione è una proprietà individuale sulla quale si costruiscono le carriere e i copyrights, e la strada delle interpretazioni può diventare la via da percorrere. Perché nella poesia suddetta, abbastanza chiara nel suo significato, e interpretabile a vari livelli, a un certo punto il poeta colloca uno svolto, un umschlag, un centromero come nel nostro DNA, che in fondo è l’enigma della poesia: “La strada sgombra / non è una via”? Questo propriamente non è un “oggetto” come base di un correlativo oggettivo, ma funziona come tale. Certamente una ricognizione di tutti gli elementi intertestuali può aiutare nella comprensione come la famosa analisi di D’arco Silvio Avalle sugli “Orecchini di Montale”, e i richiami sono numerosi, ma in sostanza significa che niente è dato in partenza ma va costruito passo passo, anche la poesia futura prima di essere creata. Così come il cammino della vita o il volo istintivo delle coturnici o il nuoto dell’anguilla, sempre soggette ai pericoli e agli imprevisti. Il tema non è molto lontano da una poesia che ho già ricordato di un grande poeta considerato ancorato al simbolismo, “Salut” di Stephane Mallarmé. Non mi dilungo qui sul perché Eugenio Montale vede la madre “come era in vita” attraverso il suo corp morcelé.
E’ molto importante la testimonianza della nipote Bianca Montale che Eugenio parlava sempre in dialetto genovese quando si trovava con i familiari: E’ quindi naturale che tale dialetto/lingua fosse sempre il sottofondo della lingua italiana che aveva appreso e nella quale ha scritto la sua opera. Ora se il passaggio, ad esempio, dal dialetto pisano in cui sono cresciuto, seppure abbastanza puro data la mia origine contadina, alla lingua non è lontanissimo, il passaggio dal dialetto genovese alla lingua italiana è un passaggio più che da dialetto a lingua da lingua a lingua. Quindi ogni indagine che voglia indagare la genesi dell’inconscio montaliano sulla sua poesia dovrebbe sempre tenere presente la lingua genovese come generatrice primaria.
Naturalmente tutte le altre lingue frequentate da Montale a livello culturale dovrebbero essere considerate. Sul legame fra poesia e corpo della madre vedere il legame fra la “spoglia” di “A mia madre” e il “guscio” di cicala di “Non recidere, forbice, quel volto,” (p. 150). Sul corps morcelé il legame nella lingua francese fra morceaux choisis (vedi “Il vate” p. 810) nel senso di poesie scelte.
Gli indizi di tutto questo vanno cercati nei punti di minore resistenza come lapsus, atti mancati, etc. e anche le possibili zeppe come ho messo in luce nei miei scritti su Carducci, ma Montale era molto sorvegliato eccetto che nel famoso “tirso” per “tizzo” o i diospori/diospiri. Allora è molto importante indagare le poesie escluse come “Il vate”, oltre naturalmente alle varianti.
Il famoso episodio dell’incontro fallimentare con Clizia in un albergo di Venezia sembra dovuto a un non tentativo più che a un tentativo fallito se vogliamo prendere per buono quanto lui narra in “Due prose veneziane I” (p. 391), ma la poesia dispersa “Precauzioni” (p. 792), e il titolo è molto esplicito, sembrerebbe alludere a una sua presunta inadeguatezza, almeno percepita, e anche qui rimando a quanto ho scritto su Carducci.
Mi scuso con Luca Malgioglio per avere postato queste mie osservazioni qui, le quali hanno molto a che fare con Montale, ma vanno molto al di là della specifica problematica sollevata, cioè l’importanza dell’insegnamento della letteratura nei vari stadi del percorso scolastico. Ma questo è anche il problema da risolvere da parte di chi scrive manuali, cioè cerca di calare la sterminata questione di ogni disciplina nel processo di apprendimento. Qui naturalmente sarebbe necessario un lungo discorso che non si può fare qui, e anche dividere tutto questo in stadi progressivi per quanto riguarda i contenuti e i metodi non solo non è facile, ma forse non è neanche la soluzione. Da qui la necessità posta da Luperini di ridurre il canone, pensando che sia possibile concentrarsi su pochi autori e avere quindi lo spazio e il tempo (had we but world enough and time) per rendere l’importanza del loro apprendimento, ma questo sposterebbe sempre il problema, perché ridurrebbe i dati grezzi ma moltiplicherebbe la difficoltà e la quantità delle conoscenze necessarie e non risolverebbe il problema del fatto che questo è sempre più lontano dall’interesse degli alunni.
Se a questo si somma il problema della diversità nel livello delle conoscenze, degli interessi, degli scopi degli stessi insegnanti, il problema diventa insolubile. E’ lo stesso problema che ognuno di noi ha avuto anche nel suo percorso universitario: la profondità e spesso le idiosincrasie dei baroni universitari che erano arrivati alla cattedra, quindi avevano raggiunto il potere e, nel migliore dei casi, la possibilità di esercitarlo al fine della “conoscenza”, e le esigenze dello studente di essere instradato verso un lavoro di insegnante, in questo caso di scuola media, inferiore o superiore. Sempre più oggi quando, con il calo della popolazione (sciagurato e per varie cause), le possibilità di sbocco sono molto limitate in ambiente universitario e solo in alcune discipline ancora possibile in quello delle scuole superiori.
Capisco che questo è il problema che professori sensibili come Luperini cercano di risolvere, ma qui ci vorrebbe una nuova “Fenomenologia dello spirito” e un nuovo Hegel.
Notazione finale per gli happy few: vedere, a proposito di quanto ho scritto sopra su Montale, ciò che Benjamin scrive in “Angelus novus. Saggi e frammenti” sulla poesia “Le soleil” di Baudelaire (pp. 98-99).
Si può discutere se concordare con la posizione che ha assunto Valerio Magrelli contro il premio Nobel per la letteratura conferito a Bob Dylan e se la canzone, anche d’autore, è totalmente estranea alla poesia, ma è innegabile che certe canzoni hanno caratterizzato epoche della nostra vita e che sia a livello di versi che di musica non c’è una inconciliabilità fra i due piani, certamente per gli alunni in età scolare la canzone è spesso il primo approccio, e condiviso, sia alla poesia che alla musica. Casomai anche qui le epoche si evolvono velocemente e anche gli insegnanti, invecchiando, rischiano di non avere più con i loro alunni un punto possibile di contatto. Io stesso fui deluso quando cercai di presentare un testo e una canzone come “Farfallina” di Luca Carboni e meno che mai della Carmen Consoli di allora. Ho scritto anche recentemente a due amiche sulla canzone “Rimmel” di Francesco De Gregori, che ancora riesce ad emozionarmi, e il testo non è per niente banale, anzi usa molti procedimenti della poesia colta, ma forse anch’essa è matusa per i giovani attuali.
Certo molte canzoni in inglese della nostra gioventù, risentite ora che ne possiamo capire il testo, sono perlopiù estremamente banali e inconsistenti. Anche la musica ha una sua creatività che non è più percepibile negli esperimenti della musica colta, forse sulla strada che già Hegel aveva previsto della “morte dell’arte” proprio per lo sviluppo ed esaurimento delle sue risorse tecniche. Poi, in certi momenti, solo un’opera di Verdi o di Musorgskij o il Quintetto op. 57 di Shostakovich li sentiamo all’altezza, ma per questo è stato necessario un lungo percorso, e anche il fatto che le trame e i versi della gran parte delle opere siano ormai fuffa per noi non ne abolisce la natura indelebile di capolavori.
Lo stesso Eugenio Montale ha scritto a proposito di Clizia e lui in quell’albergo veneziano: “Lei che amava solo / Gesualdo Bach e Mozart e io l’orrido / repertorio operistico con qualche preferenza/ per il peggiore”.
Per dare un paragone con un’altra canzone per spiegare meglio quanto ho detto sopra, si prenda “Innamorarsi” di Ornella Vanoni. Il testo è suo, e proprio perché spiattella tutto quello che Francesco De Gregori ha alluso, il testo sembra a me meno accattivante, più usuale. La musica di Gianni Bella ha indovinato quella frase di 5 note ascendenti e in progressione che non sarebbe dispiaciuta a uno Schubert o a un Čajkovskij, ma poi lo sviluppo è anch’esso più usuale, e la canzone, che pure ha una sua bellezza, proprio per le ragioni che ho detto a proposito del testo, mi sembra meno magica. Tutto qui, ma questo dimostra che anche compositori di canzoni possono trovare un loro accesso a ciò che consideriamo arte, e che è accessibile anche a un grande pubblico, ma non per questo privo di ciò che noi consideriamo “immortalmente umano”, ma anzi è la base per un cammino ulteriore al quale la scuola potrebbe contribuire.
Non si ama leggere Alessandro Manzoni da parte degli alunni. Luperini ne ha mostrato l’importanza e anche l’interesse per una lettura più attualizzata anche per i suoi legami complessi con una letteratura tutt’altro che edificante come le opere dello stesso De Sade, e non stupisce certo me che Valerio Magrelli abbia definito i Promessi Sposi superiore anche ai coevi decantati romanzi francesi lui francesista, inferiore solo all’altro pianeta della letteratura russa. Non abbasserei così tanto la sua poesia io. La stessa “A mia madre” di Montale ha ben presente l’Ermengarda dell’Adelchi. Le epoche cambiano. Trovai l’episodio del Griso in una grammatica spagnola che studiavo nei miei 16 anni e lo trovai stupendo e lessi d’un fiato tutto il romanzo in alcune notti, trovandolo quindi anche appassionante. Ma le epoche cambiano, e anche le persone che si trovano casualmente a vivere sulla terra.
IL CIELO
(Emily Elizabeth Dickinson)
Turbava colei che una volta ero
-perché una volta ero una bambina-
stabilire perché un atomo cadesse
e invece i cieli si reggessero.
I cieli pesavano di più -di gran lunga-
eppure azzurri e solidi restavano
senza un bullone che io potessi verificare.
Può darsi che i Giganti lo capissero?
La vita mi ha proposto più grandi problemi,
qualcuno lo terrò per risolverlo
quando l’algebra sarà più facile
o più semplice dimostrarlo lassù.
Allora pure sarà chiarito
ciò che con più fastidio mi sconcertava:
perché il cielo non si spezzasse,
precipitando, azzurro, su di me.
Ho sempre considerato grande Emily Dickinson, ma può essere grande una che è succube del “sillogismo paolino”? Sembra una qualsiasi che dice di qualcuno morto “ora ci guarda da lassù” oppure “continueremo là a giocare insieme”, ma il graffio del poeta si ha nell’insieme, perché quel cielo che non precipita è proprio dove lei pensa di andare dopo la morte. E questo ci mostra anche quanto lontano sia stato Montale da questa percezione del paradosso messo in luce dalla Dickinson proprio per avere tradotto “Tempesta” di lei e non altro, e in fondo il vero significato della sua prospettiva fisica più che metafisica, sia nella fase stilnovistica che in quella finale. In termini lacaniani potremmo dire che la sua personalità era dominata dall’oggetto a piccolo e questo confermerebbe anche quello che ho chiamato “grettismo borghese” seguendo una nota e geniale stroncatura pasoliniana. Concludendo con una boutade potrei dire che se la Dickinson fu dominata dal “sillogismo paolino”, formatasi in un mondo dove la fedeltà alla lettera biblica era consustanziale, Montale scontò fino in fondo il suo “sillogismo pasolino”. Al mio solito ho fissato il tutto molti anni fa in un epigramma: “I porcospini non li chiamava ricci / perché così si chiamava la madre. / Sposò la donna che era sua madre / e ogni tanto la tradì facendo i capricci”.
Il vero Altro non è, come pensa ancora la psicoanalisi e Lacan, la Madre, il Padre etc., il vero Altro è il mondo fisico con le sue leggi, da cui la vita è generata in circostanze particolari, ma che rimane altro e incomunicabile.
E’ ridicolo come un Massimo Recalcati, di educazione cattolica, passato nella gioventù fra drogata e bombarola della fine degli anni Settanta, sia poi approdato alla psicoanalisi, naturalmente di matrice lacaniana, più malleabile, e abbia trasformato l’Edipo, il fondamento dell’uomo occidentale, nel mito di Telemaco, da ultimo rappresentante del cattocomunismo ormai arrivato al suo disfacimento finale.