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diretto da Romano Luperini

Leggere insieme, imparare insieme. Nota sul «male di vivere», la «divina Indifferenza» e la libertà

Premessa

A volte, nel nostro lavoro di insegnanti, rischiamo di smarrire il senso di quello che facciamo: presi da incombenze burocratiche di ogni tipo, persi in griglie, programmazioni, adempimenti, può capitarci di dimenticare che leggere un brano letterario insieme agli studenti significa rispondere a una sfida, trovare ciò che esso ha di importante da dire, farlo parlare e tradurlo in modo che possa portare qualcosa di nuovo nelle vite di chi lo legge, in termini di rispecchiamento, di emozione, di associazioni mentali inedite, di apertura di spazi imprevisti di pensiero.

Ma se un testo non ci piace e lo facciamo leggere senza convinzione, oppure se noi stessi non lo abbiamo ben compreso in ciò che davvero ha da dire? Non a caso, finché non è arrivata l’ubriacatura di discorsi astratti sul come insegnare, che prescindono dal che cosa e dal perché, da ciò che davvero passain classe attraverso le parole, era considerato ovvio che l’aggiornamento degli insegnanti dovesse riguardare prima di tutto un continuo approfondimento e aggiornamento dei contenuti disciplinari.

Il «male di vivere» e la «divina Indifferenza»

Confesso che, pur avendo un lungo passato da montalista, a me la poesia “Spesso il male di vivere ho incontrato”, celebre lirica degli Ossi di seppia (la cui composizione risale probabilmente al 1924), ha sempre fatto poco effetto, con quelle immagini del «male di vivere» e della «divina Indifferenza» che mi sembravano nient’altro che gelide astrazioni; soprattutto, non capivo il senso delle tre immagini della seconda strofa (la statua, la nuvola, il falco), che mi lasciavano — tanto per rimanere in tema — del tutto indifferente, finché…

Un giorno, diversi anni fa, ci interrogavamo in classe su questa poesia; la prima quartina, a dire il vero, non presenta particolari problemi interpretativi:

Spesso il male di vivere ho incontrato:

era il rivo strozzato che gorgoglia,

era l’incartocciarsi della foglia

riarsa, era il cavallo stramazzato.

Come è stato notato molto presto dalla critica, il male di vivere e il senso di morte si manifestano qui in un climax ascendente, che va dall’inorganico (il fiume che non riesce a scorrere), al vegetale (la foglia secca), all’animale (il cavallo morto o morente): le tre immagini sono l’equivalente sensibile — già quasi un correlativo oggettivo — di un incremento della capacità di soffrire man mano che aumenta il grado di consapevolezza.

I problemi di interpretazione arrivano con la seconda quartina:

Bene non seppi, fuori del prodigio

che schiude la divina Indifferenza:

era la statua nella sonnolenza

del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

A parte le cruces interpretative più semplici, che riguardano il piano grammaticale e sintattico («bene» è avverbio o, com’è quasi ovvio, nome, “ciò che è bene”? È chiaro che è la «divina Indifferenza» a schiudere il prodigio e non viceversa… ma è davvero così chiaro?), i commentatori si interrogano da decenni sulla «divina Indifferenza»: l’indifferenza di Dio? un’indifferenza crudele che ha qualcosa di divino? e questa indifferenza è da intendere in un’accezione positiva o negativa? Se la prima strofa mostra immagini del «male di vivere» la seconda dovrebbe essere quella del positivo, del «bene». O no? E le tre immagini giustapposte (la statua, la nuvola, il falco) in che rapporto sono tra loro? Perché sono accostate? Si tratta di un accostamento casuale, magari volto a suggerire la contingenza di tutto ciò che esiste?

Da quanto ho potuto leggere, i commenti e le interpretazioni di questa poesia, anche i più validi e stimolanti, su questi punti — la natura della divina Indifferenza, il suo rapporto con la successione di immagini statua-nuvola-falco e il senso di questa successione — sembrano davvero contingenti, sembrano cioè scontare una mancanza di intima necessità. La responsabilità, certo, non è dei commentatori, ma probabilmente del testo stesso, che sembra rimanere chiuso in un ostico e immotivato mistero.

Per mostrare rapidamente qualche esempio di interpretazione di questi versi, possiamo ricordare come già in un saggio del 19331 Gianfranco Contini parlasse di «quella disposizione recettiva, anteriore a ogni decisione, che nella sonnolenza del meriggio il poeta ha chiamato il “prodigio” della “divina Indifferenza”». Così, in un’ottima edizione commentata degli Ossi,2 nel cappello introduttivo alla poesia, si legge: «Non casuale la selezione degli exempla: dall’inanimato al vegetale all’animale, nella prima serie; con replicazione, nella seconda, della prima e terza categoria (la statua e il falco), mentre la nuvola potrebbe suggerire un contrasto se non un rimedio all’aridità della foglia». E nelle note: «falco alto levato: minimo ma rilevante esito vitale conclusivo (con l’apparizione di un rapace), anche in forza dell’evasione dalla gabbia metrica e dal sistema delle rime, nonché dalla concentrata allitterazione dei gruppi al e to, in presenza di tre a toniche di seguito». Come si vede, una spiegazione approfondita ma che sembra presupporre una certa arbitrarietà nella scelta delle immagini.

Lo stesso accade nel commento al testo presente nel manuale scolastico La letteratura ieri, oggi, domani3: «Ai tre emblemi del male si contrappongono così nella seconda strofa, con studiato parallelismo, tre emblemi di questa specie di “bene”: la statua, la nuvola, il falco. A segnare la contrapposizione tra le due terne di immagini, la rima “levato” del verso 8, che indica un movimento dal basso verso l’alto, è antitetica rispetto a quella dell’ultimo verso della strofa precedente, “stramazzato”, che presupponeva un movimento inverso…». Una spiegazione interessante anche questa, che sembra però dare ancora per scontata una parziale arbitrarietà delle immagini utilizzate dal poeta.

Sarà possibile ipotizzare l’esistenza di una logica più stringente in questi versi tanto sfuggenti, una logica poetica che «finalmente ci metta/ nel mezzo di una verità»? O dovremo rassegnarci — magari senza dirlo ad alta voce — a trovarli francamente brutti, come tutto ciò che non riesce ad essere abbastanza significante, nemmeno per via di suggestione?

La classe, le parole, l’interpretazione

Ecco che, in questa foresta di dubbi, mentre leggiamo insieme in classe, cade l’osservazione illuminante di Giuseppe: «Certo, la statua ha i piedi attaccati a terra, non si può muovere… ». «Vai avanti, e la nuvola?». «La nuvola sì, si può muovere…». «Beh, non allo stesso modo del falco». «No, la nuvola è portata dal vento, non è libera…». «E il falco?». «Il falco sì, decide lui dove andare, va dove vuole lui…». Ah, ecco cosa potrebbe esserci nel cuore di questa seconda quartina, improvvisamente lo capisco anch’io: un altro climax con al centro la libertà, quella del movimento, che diventa emblema della Libertà, in senso metafisico, cioè — tenendo a mente le immagini della prima quartina — la continua ricreazione delle possibilità dell’esistenza, il cui equivalente fonosimbolico è l’armoniosa allitterazione nuVOLA-fALcO-ALtO-LeVATO. La successione statua-nuvola-falco potrebbe rappresentare un’ascensione sulla scala della libertà, identificata con la possibilità del movimento, l’equivalente per immagini di un progressivo scioglimento dalle catene di ciò che è morto e inanimato; ed ecco allora che la «divina Indifferenza» potrebbe rappresentare la forza vitale e creatrice che ci spinge avanti e fa sì che ci lasciamo alle spalle il peso di ciò che è già stato: «Indifferenza» come possibilità di ri-creare il futuro attraverso la scelta (la libertà d’altronde è sempre prerogativa «divina»), a partire da un passato che non imprigioni.

Letta in questa prospettiva, la poesia, nella successione delle sue immagini (anche senza che si conosca il milieu culturale in cui si muove Montale, il contingentismo filosofico, Boutroux, Bergson4), riesce a trasmettere il senso di una liberazione, a farci sentire un alleggerimento del «male di vivere». Ne abbiamo una conferma intertestuale se torniamo alla poesia che introduce gli Ossi, “In limine“, il cui argomento è proprio “La Libertà” (non a caso titolo originale del componimento):

Godi se il vento ch’entra nel pomario

vi rimena l’ondata della vita:

qui dove affonda un morto

viluppo di memorie,

orto non era, ma reliquario.

Il frullo che tu senti non è un volo,

ma il commuoversi dell’eterno grembo;

vedi che si trasforma questo lembo

di terra solitario in un crogiuolo.

[…]

si compongono qui le storie, gli atti

scancellati pel giuoco del futuro […].

Certo, c’è una crudeltà in quel «giuoco del futuro» che scancella di continuo «le storie, gli atti» sotto il segno di una temporalità che impedisce qualunque permanenza («ma una storia non dura che nella cenere/ e permanenza è solo l’estinzione» dirà Montale tanti anni dopo, nello straordinario “Piccolo testamento” de La Bufera e altro). Eppure la temporalità inesorabile lascia forse esistere un’altra possibilità, la rottura della catena dell’immanenza attraverso una «maglia rotta nella rete» che consenta, almeno al «tu» cui Montale si rivolge, accesso a una dimensione diversa dell’esistenza, quella della Libertà («Cerca una maglia rotta nella rete/ che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!»).

Che non sia anche «il falco» di “Spesso il male di vivere…” il segno tangibile di questa dimensione?

Conclusione

Ho poi riproposto questa poesia a diverse classi, nel corso del tempo, e devo dire che l’interpretazione di cui qui si è dato conto si riaffaccia abbastanza facilmente ogni volta che si chieda agli studenti qual è la caratteristica che può porre in un climax ascendente la statua, la nuvola, il falco: è raro che in una classe, dopo che in molti hanno notato che la statua è a terra, in basso, mentre nuvola e falco sono in cielo, in alto, qualcuno non dica (specie se si precisa che la statua non solo è a terra, ma è inchiodata a terra) che nuvola e falco si muovono. E se si chiede di spiegare la differenza tra i due movimenti, torniamo quasi sempre all’idea di Giuseppe. Ormai con gli studenti ci siamo convinti a vicenda; anche perché di libertà, di libertà di pensare, in questi anni sentiamo tutti un grande bisogno.

E Montale, in questo senso, ha ancora moltissimo da insegnarci.

1 Gianfranco Contini, “Introduzione a Ossi di seppia”, in Una lunga fedeltà, Torino, Einaudi, 1974, p.16.

2 Eugenio Montale, Ossi di seppia, a cura di Pietro Cataldi e Floriana D’Amely, Oscar poesia del Novecento, Milano, Mondadori, 2003, pp.75-76.

3 La letteratura ieri, oggi, domani, a cura di Baldi, Giusso, Razetti, Zaccaria, Pearson Paravia, 2016, vol. 3.2, p.266.

4 Senza dimenticare Giuseppe Rensi, il filosofo de La filosofia dell’assurdo e delle Lettere spirituali, di cui Montale era stato sicuramente un attento lettore e a cui probabilmente si è ispirato anche per l’immagine di “Piccolo testamento” richiamata oltre. Scrive Rensi: «Se tu soffi sulla fiamma d’una candela, la fiamma si estingue, ma la candela resta» (Giuseppe Rensi, Lettere spirituali, Milano, Adelphi, 1987 [1943], p.125). Qualche anno fa, quando avevo cominciato una ricerca sui rapporti tra Rensi e Montale poi interrotta, la questione era ancora tutta da approfondire: tra le poche indicazioni, non esaustive, quelle del saggio di C. Scarpati, Montale e Rensi («Sigma», XIII, 1, gennaio-giugno 1980, pp. 77-108), e quelle di Roberto Orlando in Il ‘razionalismo’ di Montale fra Bergson e Šestov (1994) ora in Applicazioni montaliane, Lucca, Pacini Fazzi, 2001.

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