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diretto da Romano Luperini

Scatti consapevoli

«Vuoi che ti dica una cosa? Più lo si analizza, questo corpo moderno, più lo si esibisce, meno esso esiste. Annullato in misura inversamente proporzionale alla sua esposizione». È da questo passaggio, tratto da Storia di un corpo di Daniel Pennac che parte la riflessione con gli studenti di una classe seconda di un Istituto Tecnico di grafica, cinema e fotografia di Milano. La corporeità, la grande assente degli ultimi due anni.  Si è detto tanto sull’impatto che hanno avuto la DAD e la pandemia sulle relazioni, la crescita intellettuale e l’apprendimento degli studenti; quanto, invece, si è incoraggiato il recupero del contatto col proprio corpo e con quello degli altri? Qualcuno ha scritto che gli adolescenti sono tutto-corpo e che non conoscono un altro modo di abitare il mondo.  Con l’ansia costante di adeguarci alle indicazioni e circolari ministeriali, abbiamo chiesto ai ragazzi di dimenticarsene, di spegnerlo come un dispositivo, in attesa di condizioni più sicure per riportarlo in vita.

Selfie o autoritratto?

Cos’è rimasto adesso di quel corpo? Cosa è cambiato? Queste sono solo alcune delle domande a cui il laboratorio sull’autoritratto di “Scatti consapevoli” [http://scatticonsapevoli.it/] prova e riesce a dare delle risposte. Un bellissimo e necessario momento di disamina collettiva in cui si tenta di ripristinare il lessico del corpo e si cerca, insieme, il modo giusto di raccontare ciò che è accaduto, dietro gli schermi e le mascherine e non solo. Il docente di italiano può contare su due esperti esterni: un counselor e un fotografo professionisti, ideatori del progetto, rivolto sia alle scuole che alle aziende e declinato in diversi workshop esperienziali: autoritratto, la fotografia come scoperta di sé ecc. Un sodalizio fra il counseling gestaltico e la fotografia ritrattistica che mira a far acquisire una maggiore coscienza del sé, utilizzando lo strumento fotografico. In una scuola che forma tecnici degli audiovisivi è stato spontaneo pensare di proporre questo tipo di percorso. Meno immediato è sembrato il collegamento con le discipline letterarie, ma l’assenza di una dialettica del corpo e delle emozioni nella scuola secondaria di secondo grado rispetto a quella dell’infanzia, primaria e secondaria di primo grado, ha fornito lo spunto per trovare un gancio con la scrittura autobiografica. Soprattutto nel biennio, quando i testi degli studenti non passano ancora al vaglio tassativo dell’oggettività, propedeutica all’Esame di Stato. Che differenza c’è tra un selfie e un autoritratto? Cosa dice del mio corpo questa foto? Cosa non riesce a dire? In che modo l’immagine racconta me stesso? Cosa sono io? Queste e altre domande hanno mosso i docenti che hanno accompagnato il lavoro degli esperti. Provare a restituire alle immagini e alle parole quel valore e quel peso che lo storytelling digitale, spesso, svilisce, è sembrato essere, fin da subito, l’obiettivo da raggiungere.

Il corpo che abito

Nel primo incontro i ragazzi si interrogano su questi temi mentre il fotografo mostra loro decine di autoritratti amatoriali. Quello che conta non è la qualità della foto ma l’intenzione, spiega loro l’esperto. Chi ha scelto di ritrarsi in quel modo voleva dire qualcosa di preciso. Il corpo, dunque, rivendica nell’autoritratto la sua natura di carne viva mentre il selfie si sta rivelando una figurina anonima e modificabile con filtri e adesivi. Un ornamento-gabbia, facile da utilizzare ma che non dice molto, se non niente, di me. È l’estetica del close-up,come la definisce Byung-Chul Han; di un volto che diventa prigioniero di se stesso e autoreferenziale, che non è più in grado di ‘stare’ ma solo di esibire la sua esistenza. I ragazzi osservano gli scatti che nel frattempo sono stati invitati a farsi, non più selfie, dicevamo, ma, appunto, autoritratti. Cosa vedono nel riquadro del monitor? Ha ragione Pennac quando dice che il corpo, più lo si esibisce meno esiste? Per alcuni di loro è proprio così e infatti, diffuse saranno le foto di una parte per raccontare il tutto. Sineddochi visive fatte di mani, capelli, piedi; correlativi oggettivi rappresentati da un dito su cui campeggia un anello con un teschio, un collo in cui si vuole far vedere un ciondolo a forma di chitarra.  È da qui che il docente di italiano si inserisce e la scrittura trova nell’autobiografia la “cura di sé” come dice Duccio Demetrio, fondatore della LUA (Libera Università dell’autobiografia).  Faticosa sarà la restituzione scritta di ciò che era la loro volontà. Cosa ha raccontato del corpo quell’autoritratto e cosa non è riuscito a esprimere? Proprio in questa fase del laboratorio ci sarà la prima battuta d’arresto. I testi dei ragazzi continueranno, ossessivamente, a parlare dell’interiorità e il corpo che finalmente avevano riagguantato e riconosciuto, ora è sgusciato di nuovo via, come un bambino riottoso. Quello che sentono è tutto nella testa e non comunica più con le gambe, con la pancia, con la faccia. Cosa fare allora? L’intervento propizio del counselor, che in tutto il percorso aiuterà i ragazzi a esplorare, con la riflessione e l’ascolto, le parti più sconosciute di sé, guida gli studenti verso un’esperienza inedita per loro, un esercizio di consapevolezza che, smessi i panni ufficiali e pomposi di competenza chiave, è un breve ma profondo viaggio dentro il sé corporeo. Lo spaesamento con cui ci si lascia, alla fine di questo primo incontro, ritorna, sedimentato e fecondo, all’inizio del prossimo.

Scrivere con la luce, scrivere con le ombre

Il focus ora si sposta, sul serio, dal corpo all’interiorità. Gli studenti raggiungono, uno alla volta, un’altra aula, in cui è stato allestito un piccolo set. La consegna è: scattarsi un autoritratto con la macchina fotografica che racconti quello che il precedente scatto, fatto col cellulare, non era riuscito a dire. Alcuni ragazzi premono compulsivamente il telecomando della macchina, mai soddisfatti dell’immagine che gli rimanda lo schermo. Altri rimuginano a lungo sulla posa da assumere. Altri ancora decidono di non partecipare oppure non vogliono restare da soli davanti all’obbiettivo e chiedono di portare con loro un compagno. Le foto sono il riflesso di questa varietà di reazioni. Alcuni autoritratti sono imbarazzati, altri fieri, altri ancora malinconici; gli sguardi talvolta divertiti, spesso spauriti. Tutti però sono permeati da un’autenticità molto lontana dalle foto fatte con il telefono. Nel bianco e nero si intravede qualcosa che prima non c’era e forse è il baluginìo dello spirto guerrier ch’entro gli rugge oppure è la loro inadeguatezza, l’ammissione di “colpa” che per la prima volta si manifesta e dice: “io non lo so ancora chi sono e se questo mio corpo mi assomiglia, ma sono qui e provo finalmente a vedermi, non più a guardarmi”. La permanenza dell’immagine e la sua infinita replicabilità hanno perso importanza per loro.  Questi scatti non sono destinati alle bacheche e ai profili social, non sono condivisibili perché portano con sé un mistero che i ragazzi non sanno e non vogliono svelare. Possono, quindi, lasciarli andare.  Sperimentano la possibilità di accettare ciò che l’atto creativo ha prodotto senza infingimenti né modifiche a latere. Scoprono, infine, che non è semplice, anzi, che terrorizza ritrovarsi da soli con un’immagine così poco patinata di sé ma che sono, e siamo, tutti alle prese con questa paura. Infatti il disagio che provano li fa sentire più vicini, talmente tanto che si arriva alla collisione ed è fra accuse e conflitti irrisolti che la classe si lascia, prima del terzo e ultimo incontro con gli esperti.

La scrittura autobiografica

Il docente di italiano sa che i giorni successivi saranno utili per affrontare il tema della scrittura autobiografica e che gli studenti potranno comprendere, solo ora, pienamente, cosa significhi parlare di sé anche quando non lo si sta facendo apertamente. L’esempio di Pascoli che ha sempre, raccontato se stesso anche quando descriveva la natura e le stagioni sarà prezioso ma anche l’introspezione petrarchesca che ha bisogno di tornare al sé per farsi universale e ovviamente Leopardi e molti altri che scorrono davanti ai ragazzi come la galleria di foto che avevano visto all’inizio del laboratorio.  Scrittori e scrittrici che hanno mostrato il loro volto o che lo hanno nascosto dietro la penna.  Il compito che il docente gli chiederà di svolgere sarà molto simile all’Epistola posteritati di Petrarca. Immaginate di preparare una busta per gli uomini e le donne che verranno, con dentro una vostra fotografia e una lettera in cui vi raccontate. Chi eravate? Quali erano le vostre paure e le vostre speranze?  Pagine e pagine di “messaggi in bottiglia”, anche da quegli studenti che di solito non riescono a riempire una colonna. Ricomporre il mosaico del sé attraverso le parole, scegliere quelle giuste oppure ammettere di non riuscirci perché al momento, come Ulisse, io sono Nessuno. Questa è forse la prima, reale restituzione del lavoro svolto finora. Il solco tracciato dall’autoritratto è profondo come lo è l’urgenza di raccontare se stessi e la propria forma. Le suggestioni del lavoro di Francesca Woodman, mostrata come esempio di fotografa che ha lavorato quasi esclusivamente sull’autoritratto, hanno lasciato una traccia fra i ragazzi. Proprio dalla cifra stilistica dell’artista americana: la comunione del corpo con gli oggetti e gli elementi naturali, parte lo spunto per un altro, interessante esercizio ovvero cercare immagini riconducibili a loro per atmosfere, desideri, sentimenti evocati. Ambienti o paesaggi che raccontino gli aspetti interiori che vorrebbero nascondere e quelli che invece li rendono fieri; subito dopo dovranno trovare delle didascalie per ogni immagine e potranno individuarle fra le canzoni, i testi o le poesie che amano. Con questa ricerca e associazione di parole si chiude il secondo incontro e con uno stato d’animo diverso, come alleggeriti da qualcosa a cui non si riesce a dare nome, ci si saluta.

Altro da me

L’ultimo appuntamento con “Scatti consapevoli” inizia con un entusiasmo nuovo. Il laboratorio è diventato un momento caro a molti studenti o forse per alcuni è solo un’esperienza didattica che ha maggiore appeal della lezione canonica. Quello che conta è che si percepisce un’energia diversa dalle altre volte. Un momento di condivisione delle immagini e delle didascalie darà modo ad alcuni di spiegare cosa hanno voluto rappresentare di sé. Il tempo sembra scorrere più velocemente e il laboratorio giunge al suo giro di boa.  Dopo aver indagato sul sé corporeo e su come posso raccontarlo, dopo l’integrazione dell’interiorità, è infine arrivato il momento di scoprire cosa pensano gli altri di me.

Nessun commento pirandelliano sul naso che pende a destra. Il counselor fa da moderatore e informa i ragazzi che l’esercizio prevede la possibilità di esprimere solo giudizi positivi perché, spiega, è molto semplice dire cosa non mi piace di qualcuno ma è molto più difficile fare il contrario. Gli studenti, disposti in cerchio, scrivono su un foglio il loro nome e lo passano al compagno o alla compagna accanto, a ogni segnale dell’esperto. Alla fine dell’esercizio, il foglio tornerà nelle mani del proprietario, completo di tutti i riscontri positivi dei compagni.

“Posso scrivere anche cosa mi piace fisicamente”? chiede qualcuno.

“Certo” è la risposta; ormai abbiamo imparato che il corpo è un impasto di carne e spirito e tentare di separarli sarebbe impossibile.

Quando il tempo finisce e la lista è conclusa, sono in molti a commuoversi.

La forza trasgressiva della gentilezza, in una comunicazione sempre più contaminata dalla violenza verbale, è deflagrante.

Se l’obiettivo di rendere la scrittura e lo scatto fotografico più consapevoli e aderenti all’immagine di sé sia stato raggiunto, è presto per capirlo. Quello che sembra chiaro però è che la narrazione classica, quella, sempre per citare Byung-Chul Han, della levigatezza, tipica della società della positività è stata messa in discussione, e forse non è poco.

La medesima stoffa

Gli studenti dimenticano in fretta, chi insegna lo sa e ne soffre, soprattutto quando è convinto di aver spiegato qualcosa in modo mirabile, però se la mente è fallace, il corpo no e chissà se al prossimo scatto, al prossimo autoritratto, qualche dito avrà un’esitazione, qualche sorriso sceglierà di aprirsi, qualche sguardo si mostrerà sotto il cappuccio, perché, come dice Maurice Merleau-Ponty in L’Œil et l’Esprit: «Visibile e mobile il mio corpo è annoverabile fra le cose, è una di esse, è preso nel tessuto del mondo e la sua coesione è quella di una cosa. Ma poiché vede e si muove, tiene le cose in cerchio attorno a sé, le cose sono un suo annesso o un suo prolungamento, sono incrostate nella sua carne, fanno parte della sua piena definizione, e il mondo è fatto della medesima stoffa del corpo».

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