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diretto da Romano Luperini

Martin Muma, tra Natura e Storia il romanzo istriano di Ligio Zanini

Un romanzo originale (rispetto alla tradizionale “letteratura dell’esodo”)

Non aveva più paura, ché, se i pescatori di Aci Trezza parlavano per la penna del Verga, consigliatogli dal professore, un italiano dal profumo siciliano, anche lui poteva dire qualcosa che avesse l’aroma del ginepro istriano. L’Istria non aveva nulla da vergognarsi al cospetto della Sicilia. Quel porticciolo-teatro di laggiù, infine, era simile, ‘sputato’ a quello di Sottolatina, di sotto-la-vela-latina, dove uomini e barche, con l’anima anche quest’ultime, erano plasmati dallo stesso gran fattore: il possente mare, senza confini.

Martino, alle scuole magistrali di Pola, impara dalla lingua di Verga, alla cui lettura lo avvia il professor Callegarini, antifascista poi vittima della repressione titina, che si può esser italiani in modi e con storie e culture diverse; e non, come vorrebbero imporre “patriotticamente” certi altri insegnanti ligi alle direttive del regime, unicamente imparando a «pappagallare il fiorentino».

Martino parla l’italiano di Rovigno, l’“istriota”, antico dialetto neolatino: è in quella lingua che sa pensare, dire e amare le cose,  è dentro la sua lingua che sa appartenere alla bellezza della sua terra (il mare, il sole, i ginepri, il vento dell’Istria costiera) e, insieme, scoprire di giorno in giorno la violenza della Storia che  quel mondo ferisce: il fascismo antislavo, le differenze e il conflitto di classe, la guerra di liberazione dal nazifascismo dell’armata di Tito, la costruzione del socialismo jugoslavo. Martino è nato nella piccola Rovigno degli anni’30 del ‘900, lungo la costa dell’Istria, di un’Istria italiana dell’Italia fascista, figlio di un maestro d’ascia, costretto dall’immigrazione italiana voluta dal fascismo ad emigrare a Pola per ritrovare il lavoro perduto; ed è un figlio del popolo, con i nonni contadini e pescatori, depositari di un’antica tradizione storica e di cultura orale dell’italianità istriana. Martino è il protagonista del romanzo di Ligio Zanini Martin Muma, personaggio dei fumetti ideato da Pier Lorenzo De Vita sul «Corriere dei piccoli» nel 1942, figura di un’aspirazione a vivere la vita con l’avventurosa “leggerezza” infantile di una piuma, nella quale si specchia la sua infanzia. Un romanzo cui Ligio Zanini (1927-1993, considerato il massimo poeta istriano del ‘900) ha lavorato a lungo, a lungo tenuto nascosto e pubblicato la prima volta nel 1990 su una prestigiosa rivista della comunità italiana in Istria, «La battana», poi in volume in edizioni fiumane e triestine. Lo ripropone oggi meritoriamente, per la cura anche filologica di Mauro Sambi, un editore vicentino, Ronzani (con scritti di Guido Manacorda, Mario Rigoni Stern, Ezio Giuricin, Franco Juri), un passo in avanti verso una diffusione più larga presso i lettori italiani. E allora, val la pena, finalmente, di parlarne. Perché è un romanzo di pregio (con i difetti e insieme la dimensione esemplare che già vi lesse Rigoni Stern), tanto per la formalizzazione linguistica che lo distingue quanto per i temi che mette in scena e la vicenda che racconta, stretta proiezione autobiografica dell’autore ma sollevata per buona parte ad esiti notevoli di trasfigurazione coral-popolare entro la parabola storica che investe il processo di fascistizzazione della Venezia Giulia, la guerra e la lotta di liberazione jugoslava dal nazifascismo, l’instaurazione nel dopoguerra dell’esperimento socialista jugoslavo di Tito. L’originalità della prospettiva, rispetto alla stragrande maggioranza delle testimonianze letterarie della “letteratura dell’esodo” (da Betizza a Tomizza, da Nelida Milani e Anna Maria Mori a Marisa Madieri), è quella non di coloro che scelsero nel dopoguerra l’esodo in Italia ma di chi ha voluto rimanere tenacemente radicato alla propria terra e che dall’antifascismo e dalle speranze coltivate nel segno dell’internazionalismo comunista che avrebbe dovuto affratellare nella medesima zolla italiani e slavi ha poi conosciuto la prigionia, la condanna al lavoro forzato, il marchio di “nemico del popolo” . Se spesso la Storia dà luogo alle contraddizioni tipiche della forma tragica, le vicende novecentesche del confine orientale ne sono un esempio la cui coscienza oggi, pur tra manipolazioni strumentali dovute a persistenti revanscismi e a contingenze politiche di bassa lega cui fortunatamente si oppongono studi storici di alto livello, giustamente si diffonde sempre più.

Martino-Martin Muma, ragazzino leggero come una piuma, quei drammi storici li attraversa tutti, dall’infanzia all’adolescenza in cui matura il suo impegno nella lotta di liberazione, fino a ritrovarsi giovane adulto, tacciato d’esser comunista dissidente staliniano, recluso nel tremendo campo di concentramento-colonia penale di Goli Otok, l’Isola Calva, in cui Tito, dopo la rottura con Stalin del 1948, confina alla “rieducazione politica” i deviazionisti: recenti ricerche stimano in 30.000 i prigionieri condannati a massacranti lavori forzati, in 4000 circa le vittime.

Una formazione linguistica e esistenziale

Diviso in due parti, la prima (che occupa i due terzi del romanzo) è senz’altro la migliore. La distingue la forma di un’epica infantile-adolescenziale, con qualcosa che vira talora al picaresco, nelle avventure del protagonista, Martino; un racconto di formazione, anche, in cui l’educazione sentimentale e la scoperta del sesso si radicano dentro una coralità da epos popolare nelle figure che lo attorniano, i genitori, i vecchi del paese, i nonni, depositari  dell’antica tradizione storica istro-veneta, e negli amici d’infanzia e di scorribande sul mare o nelle campagne. Martino matura fin da bimbo il suo istintivo antifascismo, l’odio per “Testa Quadrata” (Mussolini), respira dentro le parole amare e inquietanti degli adulti la tempesta della guerra nazifascista che monta dentro quei neri nuvoloni che salgono, di giorno in giorno più grandi e vicini, sull’orizzonte di libertà che Martino respira nell’aria salmastra dello splendido mare istriano. Un’epica infantile, tra avventurose peripezie e inquietudini dei primi dolori, trascorsa nel segno di una “leggerezza” destinata poi a incontrare gli orrori della Storia, che raccoglie qua e là qualcosa da Fielding, da Twain da London, e da Nievo; e lo scenario di una coralità popolare, di contadini e pescatori, nel loro rapporto ancora arcaico con la natura, che qualcosa ruba anche a Verga. Ma la citazione iniziale, che al Verga accenna, è piuttosto emblema della formalizzazione linguistica della prima parte del romanzo, interessante perché polimorfa, mescidata. Martino impara, anche sui banchi di scuola dalle pagine dei «Malavoglia», a crearsi la legittimità di un suo italiano (già di per sé, in quei tempi, rivolta infantile e di classe ai processi di greve nazionalizzazione fascista, che nella sua terra ha il drammatico risvolto della snazionalizzazione slava), popolare e anti-borghese, impregnato di dialetto istro-veneto dentro cui assorbe la storia, la tradizione, l’etica valoriale di una terra e di un popolo, di una comunità italiana che è e potrebbe rimanere tale al di là di ogni confine politico e di ogni ideologia. Ed è l’avventura linguistica di Martino che guida Ligio Zanini, nella prima parte del romanzo, a crearsi una sua particolare lingua  narrativa, dentro cui la dialettalità e la gergalità popolare, l’invenzione di curiosi neologismi, si mescolano alla parola letteraria e colta; la nominazione insistita e fortemente lirico-evocativa di luoghi, personaggi, strumenti del lavoro, animali e vegetazione della terra istriana, che insieme sono parte empatica dell’orizzonte di vita della piccola comunità popolare, schiude talora ad ammiccanti allusioni alla tradizione letteraria alta.

Natura e Storia

I poli dell’avventurosa formazione esistenziale di Martino, però, paiono subito inconciliabili: natura e storia. Dell’una è l’aspirazione, talora spinta fino ad un panismo lirico e infantilmente vitalistico nel rapporto sensuale con la natura, ad una libertà naturale dell’esistere e del formarsi; dell’altra, dapprima la minaccia, poi la realtà (la guerra nazifascista, la lotta di liberazione) di un mondo di violenti conflitti, sociali e ideologici, che quell’aspirazione libertaria, tra picaresco ed esistenzialmente anarchico, tortura e infrange.

È nella seconda e conclusiva parte del romanzo che “autore” ed “eroe” (Ligio e Martino) più si fondono e infine troppo si confondono: ne scapita la qualità narrativa, che solo a tratti riemerge, il “romanzo” declina verso la forma del memoriale-testimonianza, con momenti di personale, retrospettiva, invettiva politico-ideologica nei confronti di figure storiche note come Eros Sequi, Vittorio Vidali ed altre. Lo stacco dalla prima parte è sensibile, l’ equilibrio strutturale dell’impianto narrativo del romanzo ne risente troppo. Nella seconda parte Martino è un giovane adulto oramai, il suo antifascismo infantile e adolescenziale ha maturato la scelta comunista, i nonni, i genitori invano gli riversano addosso una lunga, arcaica, saggezza che li porta a sospettare altre tragedie. Il nazifascismo è sconfitto, Tito costruisce il suo socialismo con metodi autoritari e Martino, che sgomento guarda all’esodo italiano del 1948 che rischia di privare la sua terra dell’identità italiana e sceglie di restare, viene espulso dal partito per aver avuto il coraggio di dissentire dalla linea politica di Tito, incarcerato e dannato ai lavori forzati. La seconda parte è la testimonianza crudamente realistica della biografia personale di Zanini, della sua reclusione a Goli Otok e nei campi di lavoro in Bosnia, dal 1948 al 1953, dell’esperienza tremenda di torture fisiche e psicologiche e di rigorosa resistenza morale dell’io. L’ottica della vittima, se offre una dolorosa e importante testimonianza dell’orrore dei campi di “rieducazione politica”, cede all’idea che le esperienze storiche totalitarie del comunismo e del nazifascismo siano del tutto omologhe e in-differenti nella repressione della libertà individuale e delle aspirazioni all’emancipazione autentica delle classi popolari, accomuna indistintamente Hitler a Stalin, Mussolini a Tito, nella considerazione dei primi come maestri superati, poi, dai secondi. Perduto il lavoro e gli affetti più cari, la giovanissima moglie, i figli, a Martino adulto, che rifiuta ogni “-ismo” ideologico, ogni partito, ogni idea di libertà collettiva, rimane dentro la sua interiorità il piccolo Martino-Martin Muma, l’esercizio quotidiano di quell’ epica “leggerezza” infantile che ora sa convertirsi in orgoglioso e talora polemico individualismo morale, che è ciò che lo salva. In Martino-Ligio che, nonostante il dramma individuale, dopo la scarcerazione sceglie di restare nella sua Istria jugoslava a difendere la comunità italiana,  il socialismo, coi suoi ideali di eguaglianza sociale e fratellanza dei popoli, diviene una pura e solitaria aspirazione lirica a un’idea di libertà  nella sola dimensione individuale e interiore che dalla Storia torna alla Natura, in figura della sua terra-madre di vigne e ginepri, della vastità azzurra del mare d’Istria: «il possente mare, senza confini».

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