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diretto da Romano Luperini

L’anno del bradipo. Diario di un critico di provincia

Per gentile concessione dell’autore Domenico Calcaterra e dell’editore pubblichiamo un estratto da L’anno del bradipo. Diario di un critico di provincia, Inschibboleth, Roma 2021.

3 agosto, ore 13:22

In Notes on Life and Letters del 1921 Joseph Conrad – dopo aver trascorso buona parte della sua vita attiva «a familiare contatto con l’acqua di mare» – racconta della sua prima esperienza di volo. E lo fa principiando dalla fine, dalla pratica meraviglia per un atterraggio lieve, «singolarmente “smorto”», sulle acque del Mare del Nord, a bordo di un biplano Short – dopo oltre un’ora e venti minuti di navigazione. Sensazione che mi riporta al mio ammaraggio, alla mia tardiva prima volta nell’aria con il tubi-e-tela di costruzione belga, il pollo d’acciaio (Chickinox) dell’Aviatore. Nel fornire il resoconto del suo casuale battesimo dell’aria, compiuto all’età di cinquantotto anni, Conrad non poetizza, lascia da parte le possibili suggestioni, evita di ricamarci su: nessun regesto di emozioni forti, nessun sentimento di potenza o dominio sulle cose; e se egualmente rifugge dall’avventurarsi in considerazioni circa la natura umana (D’Annunzio, in tal senso, è lontanissimo), non può certo negarsi di confrontare quella prova (non solo per lui) innaturale al senz’altro più familiare stare in mare. Preferisce attenersi al dato esperienziale nudo e crudo: occasione, durata del volo, fase d’atterraggio… riesce perfino a dar spazio al racconto dell’irritazione che lo accompagna, poco prima del decollo, per ragioni che, in sé, nulla hanno a che spartire con il viaggio che si appresta di lì a poco a compiere. Quanto ai suoi «sentimenti nell’aria», per l’assoluta novità della situazione in cui si trovava, si limita a riferire della confortevole impressione di sicurezza dovuta all’apparente «immobilità della materia».

Il mio primo volo non fu per nulla occasionale, determinato invece da un preciso desiderio: carpire il segreto, assaporare la medesima radice di quella gioia che vedevo fiorire sul viso dell’Aviatore ogni qualvolta riusciva a staccare l’ombra da terra. E che mi aveva ispirato, giovanissimo, appunto L’aviatore, una poesiola tutta brio e ritmo, di radioso entusiasmo, suggellata da un accostamento – nel segno d’una allora creduta invincibile giovinezza – di due solitudini: quella dell’aviatore e quella del poeta. Ma più di tutto, a restituirmi il basso continuo di un’incontenibile catarsi i cui effetti si protraevano a terra – l’esatta ecfrasi di ciò che era assai più di un prosaico senso di appagamento – era il puntuale associare, a quello stato, i versi di La facilité en personne di Paul Éluard, per quell’attacco che sembrava piombare dritto dritto da quel paradiso, condividerne la pasta stessa: «Te doucer tes défaites ta fierté de velours / La géographie légendaire de tes regards de tes caresses»… Versi, in verità, figli di tutt’altra temperatura emotiva, scritti in anni in cui la disperazione e la speranza, per il tormentato Paul, si contagiavano, come testimonia un libro «chiuso e difficile» (Fortini), Le vie immédiate. Misteri insondabili della personalissima ricezione di un allora giovane lettore.

4 agosto, ore 01:12

Quella mattina inoltrata (era da poco trascorso il mezz’agosto) – entro un’afa che stingeva mare e cielo, rendendo implausibile ogni possibile riferimento all’orizzonte, a bucare la caligine solo il rosario sparso e sfumato delle Eolie (le «isole dolci del Dio» di quasimodiana memoria) –, quella mattina, la decisione, dettata da una placida allegria, fu presa quasi per gioco. Di colpo mi trovai sull’Elba Innocenti color verde bottiglia dell’Aviatore, subito di strada (due chilometri appena separavano infatti la casa al mare dal campo di volo), verso la nostra meta. Nell’istantanea successiva abbiamo già aperto l’hangar autocostruito per far scivolare senza fatica in senso trasversale, su un binario progettato ad hoc dall’Aviatore, il papero tre assi con le ali dalla sgargiante velatura bicolore arancio-petrolio. Da quel momento in poi fui invaso da un’eccitata curiosità per quella ritualità concreta, il meticoloso protocollo che precede, ogni volta, il decollo: sequela di verifiche, statiche e dinamiche; dal controllo dei giunti e dei tiranti delle ali, ai flaps; dal check di comandi e pedaliera, alle prove di potenza motore. Se a una prassi così codificata si unisce l’estrema meticolosità dell’Aviatore, è facile intuire come quell’esperienza si tramutò in una lezione in piena regola sui fondamenti della meccanica del volo. Non tralasciò nulla, e quando fu la volta di soffermarsi sullo spartano cockpit del Chickinox dove stavano allineati gli strumenti di bordo, li passò in rassegna – contagiri, altimetro, anemometro –, per ciascuno indugiando sul principio di funzionamento e l’utilità nel volo.

5 agosto, ore 07:48

Finalmente fummo pronti. Dopo aver indossato i caschi, volle assolutamente ragguagliarmi sullo speciale meccanismo di sgancio delle cinture di sicurezza («Non si sa mai ce ne fosse bisogno», disse – precisazione che, sul momento, attribuii al suo quasi maniacale eccesso di scrupolo), concentrandosi sul dettaglio del differente posizionamento del pulsante di rilascio. Effettuate sufficienti prove di comunicazione via interfono, avviato il motore, era proprio giunto il momento di rullare per portarsi in testata pista, zona utile per un corretto decollo: col motore a basso regime, a mimare un arzillo ma goffo quadrupede al trotto, l’Aviatore guadagnò rapidamente la posizione, sul lato esposto a Nord-Ovest della pista (che si sviluppava, per circa un chilometro e mezzo, parallelamente all’incavo appena pronunciato di una costa dolce e per ampi tratti sabbiosa). Il tempo di uno sguardo d’intesa, un rassicurante cenno, il piede sul freno, la manetta a fine corsa, lo strepitare metallico del motore spinto al massimo dei giri: appena liberato il freno, furono sufficienti poco più di un centinaio di metri (e un accorto gioco di pedali per controbilanciare le imbardate) perché il velivolo si librasse in aria, quasi senza più peso. Daniele Del Giudice, in quel manuale di geometrica grazia esistenziale che è Staccando l’ombra da terra, definisce la corsa del decollo, il momento esatto in cui una certa «quantità di metallo» spicca il volo per mezzo dell’aria (cessa d’essere terrestre), come una «metamorfosi». L’intuizione fisica di un simile transito, il poterlo condividere con mio padre, giovò a svuotare il mio animo da ogni residuo moto d’ansia. Lo compresi simultaneamente: nel miracolo tecnico di quell’innaturale e repentina trasformazione si racchiudeva il rattenuto sussulto di gioia che perdurava nell’Aviatore, una volta a terra, come l’eco di una pienezza raggiunta; epitome di uno stato di beata sospensione al quale agognare sempre di fare ritorno (era questa proiezione – tanto utopica quanto concreta – ad abitarlo).

6 agosto, ore 08:25

Vidi sfilare, una volta alzato il muso del papero, in rapida sequenza: dapprima il nastro bruno del terreno sotto di noi; poi, alla mia destra, entro una visione sempre più grandangolare, la serie pressoché regolare degli hangar (primo riferimento che dava ragione del fatto che si stesse facendo quota); infine, la percezione dell’atteggiata geometrica teoria dei pini marini nel disegnare la fisionomia di un profondo viale, a delimitare il lato superiore, esposto a sud, dell’aviosuperficie. Dopo una comoda virata in direzione delle Eolie, sopra gli astratti motivi del fondale di un mare quel giorno incredibilmente traslucido e immobile, ci ritrovammo nuovamente paralleli alla costa: l’ossatura del viadotto ora alla nostra sinistra, il tracciato della ferrovia, la vecchia torre d’avvistamento, il deflagrato formicaio di placidi bagnanti con i pois colorati degli ombrelloni; il piccolo promontorio, a ridosso della spiaggia, dove sorgeva casa nostra; dritto davanti a noi – altro segno d’una più che familiare geografia (adesso scrutato da una mutata prospettiva) – il moai solitario dello scoglio di San Biagio (luogo privilegiato per i tuffi, nei tempi memorabili e lontani dell’infanzia). Quell’impressione di rassicurante staticità di cui, peraltro sbrigativamente, parla Conrad nel suo resoconto fu presto anche la mia: epperò al prezzo di un necessario e così assordante e sguaiato strepito del motore (tuttavia ben presto divenuto ovattato, sopportabile). Complice quella quiete senza il minimo beccheggio o rollio, da quel momento fui assorbito, come il Saint-Exupéry di una delle Lettres de jeunesse à l’amie inconnue, da un serrato interloquire con il paesaggio (l’occhio sempre sul mirino della Nikon F100 che mi ero portato dietro per documentare quel primo volo), che anziché estenuarmi mi condusse a una concentrata distrazione. Sensazione lontana dai tumulti che animavano la penna dell’autore de Le petit prince, in quelle «eroiche» lettere degli anni giovanili a Rinette – l’«amica inventata» del titolo – nelle quali metteva in scena un teatrino di non meno immaginarie schermaglie.

7 agosto, ore 00:19

L’aereo aveva perso, subito dopo l’ampia virata, d’un tratto, potenza: ed io avevo confuso una seria avaria al motore con la generosa accondiscendenza dell’Aviatore a rimanere a bassa quota. Non c’era modo (mi avrebbe spiegato solo dopo), planando, dato un rapido sguardo all’altimetro, di tentare un nuovo allineamento per atterrare sulla pista. Inevitabile la scelta dell’ammaraggio. Preferì non dirmi nulla, approfittando della mia distrazione, disponendosi in silenzio alla manovra d’emergenza cui fummo costretti dalle circostanze. La reflex in modalità scatto continuo, il mirino elettronico diventato il mio unico occhio, concentrato sul taglio dell’inquadratura – scattavo, eccitato, foto che non avrei mai visto. Fu un attimo: l’ultraleggero impattò il pelo dell’acqua dapprima con le ruote posteriori del carrello, poi s’impunto appena con l’estremità della semiala destra, producendo uno smorto e ovattato tonfo che fece innalzare un enorme fungo bianco d’acqua, per poi rapidamente inabissarsi (in principio solo di un paio di metri). Non ebbi il tempo di provare paura (e fu un bene) che il moto del velivolo fu smorzato dagli spruzzi dell’acqua, velocemente giunti fino a coprirci. Il primo colpo al pulsante di sgancio fu violentissimo, ma andò a vuoto, ricordandomi soltanto dopo dell’avvertenza che l’Aviatore mi aveva dato prima di disporci al decollo. Divincolatomi dalla cintura al secondo tentativo, la risalita dal fondo, pur trattandosi ancora di pochi metri, mi sembrò interminabile: riuscii perfino, non so spiegarmi nemmeno a ripensarci adesso come, a sfilarmi letteralmente il casco dal capo, che quindi affiorò poco distante dal punto in cui ero riemerso, peraltro creando immotivato allarme in chi – da un piccolo gozzo da pesca – aveva seguito impietrito tutta la scena e si era subito diretto verso il luogo dell’impatto per sincerarsi delle nostre condizioni. Tornato a galla, la prima cosa che vidi fu la sagoma dell’Aviatore che aveva già doppiato la fusoliera per venirmi a tirar fuori. Si arrestò, di fronte a me, fissandomi preoccupato negli occhi. «Come stai? Hai avuto paura?» – mi chiese sconsolato. «Bene. Non ne ho avuto il tempo» – risposi, sorridendo eccitato per alleggerire il rammarico di un incidente di percorso che nei suoi piani non sarebbe mai dovuto accadere. Sulla spiaggia, oltre ai familiari, trovammo un’ambulanza del 118 e una pattuglia dei Carabinieri, allertati da qualche solerte bagnante: contrariato, mio padre spiegò che si era trattato di un’avaria e che stavamo bene.

8 agosto, ore 09:37

In quel viaggio – preparato a terra, durato una manciata di minuti in volo e ultimato, imprevedibilmente, in barca – avevo vissuto l’esperienza di una speciale concentrata distrazione, come se la linea del tempo si fosse rappresa, piacevolmente inghiottita da uno di quei buchi bianchi dell’esistenza: un’ansa di sospensione, un condensato punto, un fungo d’acqua. Capii che forse aveva ancora una volta ragione il Saint-Ex delle lettere giovanili, laddove sosteneva che «c’è un altro modo di viaggiare», di andare molto lontano. E che un viaggio – non importa quanto duri – può valere il senso di una vita intera. Giorni dopo, per esorcizzare la paura postuma legata alle tante ipotesi (che mi frullavano in testa) su come si sarebbero evolute le cose se l’Aviatore fosse venuto meno a quel suo compulsivo bisogno di esattezza, ricordandomi il particolare circa il rilascio della cintura di sicurezza, buttai giù in inglese pochi versi, che oggi suonano come emblematico blasone di un comune destino:

I have been in another time

Where the timeline was a point:

only the deep attention

kept me alive.

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