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diretto da Romano Luperini

Su Pasolini fra i poeti, o del buon uso dell’impostura

Sottrarsi agli stereotipi?

Su Pier Paolo Pasolini si è scritto e detto di tutto, troppo. Lo scrittore, il cineasta, l’intellettuale e, soprattutto, il personaggio, è stato oggetto di un vero turbine di interpretazioni, letture, testimonianze, da una valanga di luoghi comuni e formule interpretative, epicedi e lamentazioni, esaltazioni e riprovazioni (ormai rare ma aspre), che hanno di volta in volta riguardato questo o quell’aspetto di una carriera pubblica turbinosa e contraddittoria. Non è certo vero, come pure è stato sostenuto vari anni fa, che lo scrittore sia stato emarginato dalla critica a vantaggio di altri (Calvino, in primis), perché il “personaggio” ha senza dubbio avuto la meglio sulla persona e sull’intellettuale. Come sottrarsi dunque a un discorso pubblico, ormai pluridecennale, che esalta a un tempo il poeta elegiaco e quello sperimentale, il cineasta e il saggista, il testimone e il soggetto di scandali, l’angelo e il demone, la vittima di una continua incomprensione, il profeta lucido di apocalittiche trasformazioni sociali e culturali, il testimone regressivo e nostalgico del premoderno e il trasgressore, il provocatore il dissacratore e l’irregolare? Soprattutto queste ultime identità, riassunte nella formuletta passe-partout di «intellettuale scomodo», sono quelle ormai da decenni più spesso ripetute; ed ho il sospetto che tale insistenza mediatica sia fortemente in linea con gli indirizzi della società dello spettacolo nella quale siamo ormai affogati: quelli in cui, per il progressismo benpensante, la normalità è appunto, anzi dev’essere, trasgressiva (qualunque cosa ciò significhi). Poco o nulla conta che, e quanto, questa contorta immagine sia rispondente a verità, quanto costruita su spezzoni di opere, letterarie o cinematografiche o saggistiche, o su atteggiamenti comportamenti e pronunciamenti pubblici. Ogni eventuale frammento di riflessione e di analisi dialettiche (e certo non solo su Pasolini) è rigorosamente bandito dal discorso pubblico, se non vogliamo chiamarlo pubblicitario. Verrebbe voglia di azzerarlo, e certo molto è da sfrondare per una sorta di igiene intellettuale. D’altro canto la “verità” di un autore sta anche negli strati di interpretazione che il tempo ha costruiti.

Necessità dell’impostura: Fortini

Alla costruzione di questa plurima “narrazione” ha contribuito certamente lo stesso autore-personaggio, con una messa in scena di sé come figura solitamente mite ma spesso polemica ed eccessiva, con un conflitto tra una facies pubblica (quella del cineasta, soprattutto, legato inevitabilmente all’industria culturale) e una dimensione privata a sua volta scissa, con le varie officine artistiche da lui frequentate e praticate, con le sue scorribande in territori solitamente non percorsi dagli intellettuali. Certamente poeta e intellettuale della contraddizione, pietra d’inciampo, Pasolini non può che essere letto secondo le coordinate che lui stesso ha contribuito a costruire. Ma, in assenza di una verità, forse è possibile riprendere le fila di uno sguardo critico e storico, ma anche umano, che affronti e rispetti innanzi tutto, e poi vagli, lo schema che lo scrittore ha costruito di sé.

Qui aiuta una notazione di Fortini, figura che non si può certo rimuovere quando si parla di Pasolini. Non delle sue sofferte diatribe con l’amico-antagonista voglio qui far cenno (troppo aspra è spesso, anche quando coglie nel segno, la sua vis polemica), ma di una nota che riguarda un dettaglio biografico relativo a Manzoni, nelle pagine del primo Ospite ingrato, e che, credo, si attagli a Pasolini. Manzoni riferisce di un sogno nel quale la moglie Enrichetta, testimone della sua conversione religiosa, morta diciannove anni prima dell’episodio narrato, lo accuserebbe di essere un impostore. Commenta Fortini: «Sembra che non si possa credere, che non si possa non credere, senza impostura; questo, almeno, ci dicono la psicologia e l’esperienza. È il punto dove si incontrano la teoria dell’inconscio individuale e collettivo e la dottrina delle ideologie» (cito da F. Fortini, Saggi ed epigrammi, a c. di L. Lenzini, Mondadori, Milano 2003, p. 909). L’impostura qui designa – mi pare di capire – l’assunzione di una posizione, di una fisionomia, se si vuole di una maschera, che ci rappresenti e ci autorappresenti, e che finisce con l’identificarci ma nelle quali non ci si può fino in fondo riconoscere; il dipendere da quelle convenzioni culturali che Bacone chiamava idola theatri, e che Nietzsche avrebbe stigmatizzato nella figura dello Schauspieler, dell’istrione; ma naturalmente, nel caso di Manzoni, c’è anche la consapevolezza di ciò, e della mescolanza di verità e menzogna in ogni rappresentazione. Nel suo prendere posizione, nelle sue affermazioni spesso contraddittorie o, come troppe volte si è detto, “scomode”, Pasolini – se stiamo a questo raffronto – assume quasi istrionescamente, molto spesso intenzionalmente, un aspetto metamorfico. Anche la sua visceralità, che gli si rimprovera o che in lui si esalta, sembra essere un’impostura, una mescolanza di verità e menzogna. Non a caso egli la esibisce sovente in scritti saggistici e in interviste, ossia nel luogo per eccellenza della discorsività e dell’argomentazione. Il sistema mediatico non fa che amplificare e assolutizzare tale dicotomia, eliminando qualsiasi cautela, qualsiasi mediazione.

Un dialogo con Zanzotto, o di un’altra dimensione dell’impostura

Nello scrivere le righe che precedono, alla ricerca di qualche argomento non troppo scontato e di non eccessivamente settoriale sullo scrittore, nello sforzo di non prendere posizioni se non dialettiche, sono stato guidato da una ipotesi di lavoro: quella di rimuovere buona parte degli argomenti e di limitarmi a leggere Pasolini poeta alla luce della produzione e della critica di altri e coevi poeti italiani, sui quali lo stesso Pasolini si era messo alla prova, già nella pagine di Passione e ideologia. Lavoro, anche di scavo filologico, del tutto improponibile nei tempi stretti e negli spazi ancor più ristretti di questa occasione. Così, messe da parte le dirette dispute con Fortini per le ragioni che ho già spiegato, ho ripensato a una poesia di Zanzotto dedicata all’amico (che sarà l’ultimo punto di queste pagine, involontariamente qui costruite à rebours), poesia che mi ha indotto a risalire a certe pagine critiche del poeta veneto che sapevo di aver distrattamente incontrato.

Pasolini aveva già dedicato diverse pagine a Zanzotto, a partire da quelle raccolte in Passione e ideologia e poi in Empirismo eretico, occupandosi in particolare di Vocativo, e poi di La Beltà e di Pasque; e  aveva rilevato, soprattutto nella prima raccolta citata, una commistione di liricità e di impegno, ossia – per dirla in sintesi – di una conflittualità interna al paradigma tardo-ermetico; e nelle due seguenti una componente ironica e, in Pasque, un’importanza cruciale dell’ossimoro e una tendenza alla «devianza», interpretata positivamente come allontanamento da una presunta «centralità» che è in realtà «incancrimento o impietrimento della convenzione» (che è, se si vuole, un aggiornamento del medesimo giudizio). Spunti certamente acuti, nello stile proprio di Pasolini. Zanzotto sembra essere stato ben interpretato. E siamo anche sorpresi di notare una certa reciprocità fra i rispettivi interventi critici. Zanzotto raccoglie i suoi tre in Aure e disincanti, tutti successivi alla morte di Pasolini, a partire dal primo, Pedagogia, che è del 1977 ed è, di fatto, una riflessione sulla morte del poeta amico e sul senso di una vita e di un’esperienza. Dobbiamo tralasciare alcuni dei punti centrali dell’acuto intervento (chi conosce la prosa critica di Zanzotto sa in che groviglio di densi e complessi rimandi si rimanga impigliati, oltre che presi da fascinazione), per selezionare quelli che investono, appunto, l’impostura di Pasolini, un buon uso dell’impostura. In due passaggi, in saggi diversi, la natura (o il destino) della poesia e quello della dimensione comunitaria (l’idillio, insomma) sono posti in relazione. Nonostante le apparenze, nota Zanzotto, Pasolini non è un vagheggiatore del ritorno, impossibile, a una civiltà contadina; semmai questa può essere un indicatore di una «forza rivoluzionaria che è nel passato»; e il destino della poesia è oggi «quello del riconoscimento depauperato o addirittura del non-riconoscimento, quello di servire in casa di Admeto, nella penombra» (Zanzotto allude ad Apollo, dio della poesia, condannato dagli dei a servire in casa altrui per scontare l’uccisione dei ciclopi); d’altro canto «ogni discorso comunitario autentico, nella nostra recente storia, risulta […] a Pasolini impossibile. Egli ben consciamente fin dall’inizio si rivolge a qualcosa di mancato, di assente, a ceneri gramsciane (“la nostra storia è finita”), e resta calato in un vuoto che è insieme di dopostoria e di preistoria, e comunque in mutazione genetica verso il “mostruoso”» (traggo le citazioni di Zanzotto da Aure e disincanti nel Novecento letterario, Mondadori, Milano 1994, pp. 151 e 157). Come si vede, passato e presente si danno la mano, in un cortocircuito che ricorda W. Benjamin ed E. Bloch, e d’altra parte la consapevolezza di Pasolini è dichiarata e riconosciuta, come radice di una contraddizione, e dunque come sofferta e voluta impostura (nel senso sopra indicato).

Ma voglio chiudere queste note con la semplice trascrizione di un testo poetico di Zanzotto, uno splendido epicedio che troviamo in Idioma e che, in dialetto, ricostruisce un mancato incontro, nella prima giovinezza, fra due poeti praticamente coetanei che vivevano, ignoti l’uno all’altro, in aree geograficamente contigue. Lo trascrivo nell’autotraduzione in lingua, consapevole della perdita di certi effetti specifici, ma anche della impossibilità, per chi non abbia piena conoscenza di quel dialetto specifico, di coglierne appieno il senso. La poesia è, oltre che un ritratto, una interpretazione, un sondaggio storico:

Tu mangiavi il tuo pane/sul treno per andare a scuola / tra Sacile e Conegliano; / io ero poco lontano, ma a quei tempi / dieci chilometri erano un’immensità. / Così avvenne che allora / due ragazzetti non si sono conosciuti. / Ma quando mai avremmo potuto / trovarci sotto la stessa pensilina / di una stazioncina in mezzo ai campi / col suo campanello che fa ten ten ten ten / dicendoci quanto profondo è il sereno – / e intanto ore giornate e stagioni / se ne vanno con l’ombra che scrive, / per case e vetri muriccioli e prati / per siepi e dovunque per luoghi reconditi, / radici e segni illeggibili? / Ma quando mai prima che il treno arrivi, / avremmo fatto a tempo / per quel po’ di chiacchiericcio, / il solo che può dare su questa terra/che ci si conosca un poco, poco ma davvero? // Più avanti, ci siamo parlati, ci siamo letti; / certe volte abbiamo taciuto o abbiamo litigato, / la vita ci ha spinti sotto sgocciolamenti di acqua fredda / e presi in trappole diverse, / io fermo, impiastricciato nei versi, / tu dappertutto con la tua passione di tutto; / ma pur c’era un filo che sempre ci legava: / di ciò che vale avevamo la stessa idea. // Io ti aspettavo quassù, dove ancora/coi loro scintillii sospirano gli alba pratalia / ma sempre più guasti al di sotto e al di sopra; / tu sei rimasto là col tuo coraggio, / dove più delira l’Italia./ Ah, scusami se ora non so darti / altro che questo borbottio, da vecchio ormai…/ È solo un povero sforzo, tremore, / per ricucire, riconnettere in qualche modo / – per un momento solo, per salutarti – / quello che hanno fatto delle tue ossa e del tuo cuore.

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