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diretto da Romano Luperini

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Alla fine della scala il Nulla. Alcune riflessioni su “Luisa e il silenzio” di Claudio Piersanti

  Quando la radiosveglia si accese stava sognando una lunga scala sospesa nel vuoto. Erano le sei in punto. Luisa aprì gli occhi e per qualche secondo continuò a vedere la scala che aveva salito per ore. Era la scala interna di un palazzo senza pareti e solai, dove letti, bagni e cucine ondeggiavano sulla voragine nera.

Luisa e il silenzio, romanzo breve di Claudio Piersanti pubblicato da Feltrinelli nel 1997, inizia con un sogno assurdo della protagonista, la cui atmosfera avvolge anche il viaggio in auto, sulla tangenziale invasa dalle nuvole leggere di nebbia che salgono dalla campagna, e l’arrivo in fabbrica.

Ogni volta che riprendo in mano questo libro e ne rileggo qualche pagina, avverto chiaramente la sensazione di trovarmi su una soglia, proprio come lo è il momento del risveglio, in cui ci portiamo negli occhi ancora delle immagini notturne: è la soglia che introduce nel secolo attuale – lontano appena tre anni dall’uscita del romanzo – nel quale una protagonista del genere ci appare improvvisamente come un’entità aliena. Eppure Luisa è realistica e forse non ci stupirebbe così tanto di ritrovarla ancora oggi in una delle persone che ci circondano, anche se forse avrebbe perso quell’educazione che le fa preferire il silenzio al baccano prodotto dall’esigenza, ormai comune a tutti, di fare della propria vita un teatrino da mettere in scena quotidianamente davanti a una platea più o meno grande. Luisa e il suo mondo ci sembrano dunque possibili fino alla soglia di un’epoca in cui l’immagine – soprattutto la propria immagine – assedia da vicino ogni aspetto della nostra vita, fin nell’intimità, per renderlo pubblico e degno di nota. Ed è proprio contro tutto questo – al cui confronto la malattia che lentamente la consuma sembra quasi una forma di liberazione – che Luisa sembra condurre la propria silenziosa battaglia.

Soltanto una guerra poteva sfoltirli, quei ragazzi, non era sempre stato così, in tutte le epoche? Ce ne sono troppi. A suo padre sarebbe dispiaciuto sentirglielo dire, ma suo padre non la conosceva, la stupidità dei ragazzi. (pag. 62)

La voragine nera

L’ingresso principale, quello di rappresentanza e per i dirigenti, era ancora chiuso. La guida rossa che saliva le scale era pretenziosa e del tutto fuori luogo. Luisa la scrutava ogni mattina con profondo ribrezzo. La loro sarebbe stata una fabbrica più che decorosa senza quella stupida guida rossa che la umiliava. Il vecchio non lo capiva, gli piaceva troppo salire imperioso la sua scala. Le faceva pena, povero vecchio, forse non era di animo buono ma poteva vantarsi di non avere mai licenziato uno dei suoi operai. I più anziani erano in pensione da tempo. Che c’era di male se gli piaceva salire le scale a petto in fuori come un ammiraglio? Era vecchio, e la sua vita si poteva definire riuscita. (pag. 15)

Il padrone sale con sicurezza la sua scala e può girarsi a contemplare la voragine senza paura. La sua vita è riuscita e se ne può vantare.

Luisa può dire lo stesso della propria?

Il sogno iniziale sembra premetterci che la vita è una lunga scala sospesa nel vuoto e che quel vuoto noi dobbiamo riempirlo – di oggetti, azioni, relazioni, ricordi – anche se la voragine, prima o poi, ci raggiunge e ci ingoia. Non ci è dato sapere quando, né se la corsa sia lunga o breve, perché è lei che decide quanti gradini farci salire. La voragine non è il caso o il destino, un’entità esterna a noi, bensì il male che ci portiamo dentro e che insieme a noi cresce silenziosamente finché non decide di farci sentire la sua presenza, come accade improvvisamente a Luisa durante la pausa pranzo con la collega Renata.

Luisa le rispose sforzandosi di sorridere. Da qualche minuto si sentiva strana e non capiva perché. Salutò altri colleghi che uscivano, accese una sigaretta. Anche la studentessa e la sua amica se ne stavano andando. La porta cigolava di continuo. All’improvviso sulle studentesse, sui colleghi, sui tavoli dove giacevano ossi rosicchiati di bistecca e tovaglioli di carta bisunti, su tutto, anche sulle cameriere e sulle bottiglie del bar, scese una nube di odori cattivi. Ora il locale era immerso in un disgustoso odore di grasso bruciato che le rivoltava lo stomaco. (pag. 25)

È un primo segnale, un guasto momentaneo nell’ingranaggio che accelera il battito cardiaco e toglie il respiro; che addirittura scatena nella protagonista la paura di non sopravvivere e la consapevolezza di non essere davvero vista. Nessuno si è infatti accorto del suo malore e in ufficio la sua vita torna a scorrere davanti a uno schermo popolato da colonne di numeri e poi a casa, davanti a un dibattito politico in televisione. Luisa si trova d’accordo con tutti, perché lei non ne ha di opinioni e le viene il dubbio che il suo ingranaggio non sia poi tanto complicato, anzi.

Il suo cervello doveva essere piccolo, dovevano mancarne dei pezzi fondamentali, non era normale capire così poco. (pag. 35)

Ecco che la voragine nera torna, sul finire del fare. Se il lavoro è qualcosa di ripetitivo che occupa i pensieri, che riempie il vuoto da cui si fugge mentre saliamo la scala, è nelle ore dell’inedia che siamo tentati di volgere lo sguardo e guardare quello che non abbiamo e ciò che ci siamo persi.

Luisa ha ancora in casa alcune cose abbandonate da Bruno – due valigie, un tavolinetto sgangherato, quattro libri che lei odia – l’uomo che ha tradito e dalla cui relazione non è nato niente. Eppure quella era la sua giovinezza, che adesso le sembra bella perché lontana, in un punto in cui la voragine non si era ancora spalancata. 

Immaginò di non tornare mai più a casa, di andare avanti per sempre, di camminare per tutto il tempo che le restava e trasformarsi in barbona, e morire di freddo su una panchina. (pag. 65)

In Luisa e il silenzio il tema centrale è quello del rapporto con quella solitudine che spetta a tutti nel momento dei bilanci. Dal punto della scala in cui è arrivata, la protagonista si ferma non solo a osservare ciò che è stato – la gioventù e le relazioni fallite, un lavoro umile che ha sempre svolto con il massimo impegno – ma anche ciò che è diventata: una donna fragile e sola, che non sopporta più il chiasso dei ragazzi per strada e che viene sostituita in ufficio da una giovane donna laureata; una protagonista che non vuole diventare ridicola, come la piccola spiaggia fatta di sabbia e conchiglie bianche che per anni ha tenuto nel grande posacenere sulla sua scrivania.

Poi scese la scala dei capi con la cartella strapiena dei suoi oggetti personali e attaccò un biglietto in bacheca per i colleghi che erano già a pranzo:

SALUTI A TUTTI, LUISA. (pag. 111)

Il Nulla che avanza

“In una cassetta di mio figlio c’è la storia del Nulla che avanza” disse all’improvviso Renata. “È un bel film. Il Nulla è una specie di nemico oscuro che si espande. Anche adesso quando commento un fatto mostruoso con mio figlio gli dico: è il Nulla che avanza.” (pag. 56)

Nel romanzo di Piersanti il Nulla che avanza è il muto corrispettivo del frastuono che ci accerchia tutti i giorni e che noi stessi contribuiamo a fare.

Se infatti dovessi indicare un solo motivo valido per rileggere oggi questo libro – in un’epoca in cui su internet di libri si parla forse fin troppo, ma in un modo in cui le riflessioni si disperdono subito nel gran rumoreggiare dei pensieri – è perché dentro ci ritrovo questa sorta di nausea per il chiacchiericcio, per il chiasso che sento sempre più forte e che mi ha stancato.

Per Luisa il Nulla vince sempre ed ha l’aspetto della depressione che le prende davanti al televisore e la trascina fino al letto, dove, incapace di fantasticare come faceva da ragazza, rimane in attesa del sonno. Il Nulla fa appassire i sentimenti e ingrandisce le sue paure, che fuoriescono da lei e invadono gli oggetti che la circondano – una penna che la fa piangere, un accendino che la disgusta. Eppure la protagonista del libro ha un male vero – non certo una cosa da nulla – contro cui il suo corpo svolge una battaglia terribile che la stanca e la dissolve. Luisa non ha niente, né parenti stretti né impegni testamentari ad eccezione del suo piccolo appartamento cha fa rumori mentre si assesta e le procura il panico.

Doveva fuggire, non sapeva da cosa ma doveva fuggire, anche se era notte fonda e fuori c’era un freddo che non riusciva neppure a immaginare. Via subito, senza guardare di là. Riaprì la porta, corse nel corridioi, dove afferrò le chiavi il cappotto la borsa, e gettò appena un’occhiata al soggiorno mentre apriva la porta di casa: la bambola era caduta, le tende svolazzavano alte, dalla finestra spalancata entravano il vento e il buio. (pag. 60) 

Neanche la casa, che è il luogo in cui sentirsi più sicuri, sembra garantire a Luisa quella stabilità che ha perso. Il Nulla è avanzato fino a raggiungerla, è da tutte le parti – esce dalla bambola rotta, entra dalle finestre spalancate – e guida un esercito di giovani insensibili che per strada gridano come maiali e sporcano tutto, che hanno lo sguardo fisso da idioti e i muscoli da palestra e non vedono l’ora di litigare. È la stupidità che avanza, l’impero del male.

Un minuto di silenzio

La guerra della protagonista coi ragazzi rumorosi, sempre a dare gas alle loro moto e a calciare un pallone contro le saracinesche, sembra presagire quanto accaduto soltanto pochi anni dopo, quando il bar della piazza è entrato in casa nostra e per alimentare il coro di opinioni ci è bastato aprire una finestra e via, senza neanche lo sforzo di uscire fuori.

Luisa e il silenzio andrebbe riletto oggi per questo motivo, e non solo. Perché è un libro che ci riposiziona nel mondo, nel nostro spazio, un romanzo che rimette alcune cose al proprio posto: primo tra tutti il diritto a godersi in pace gli ultimi giorni della propria vita, come fa la protagonista, che progressivamente prende congedo dai colleghi e dai parenti che vorrebbero mettere una parola su tutto. Resta soltanto Luisa con i propri fantasmi e un canarino che alla fine se ne vola sul tetto di fronte. Se ne frega anche lui della morte di una contabile modello, come tutti gli altri che si fingono indispensabili.
La grandezza di questo romanzo, la sua straordinaria bellezza, sta proprio nell’equilibrio tra lo stile e il carattere della protagonista, che non corre mai il rischio di diventare comica. Luisa non pretende di assurgere a eroina delle persone comuni, è consapevole dell’inutilità di tanto faticare, ma se lo fa è perché qualcosa va pur fatto.

Prima di riprendere il lavoro pensò: se nel giorno del giudizio il Signore chiederà al vecchio e ai suoi operai “Che cosa avete fatto della vostra vita?” noi mostreremo il pupazzetto blu. (pag. 49)

Il suo compito è quello di far quadrare i conti, e infatti si potrebbe dire che la misura sia la sua qualità maggiore, anche se non sempre la fa apparire simpatica agli occhi degli altri, che non si risparmia di giudicare; ma è un giudizio che si tiene per sé.

Per una persona così, attaccata ai propri doveri, la fine del lavoro non può che coincidere con l’inizio della malattia: è quello che si dice spesso di certi pensionati, che quando si fermano muoiono. Gli ultimi giorni di Luisa non sono però caratterizzati soltanto dal ribrezzo per il terribile male, che cerca di evitare e coprire in ogni modo, ma anche dalla scoperta di uno sguardo nuovo, che la meraviglia del mondo.

Vedeva perfettamente anche la televisione. Quante cose incredibili stavano succedendo nel suo corpo. Si tirò su piano piano e andò alla finestra ridacchiando come una bambina. (pag. 147)

Il silenzio, il corpo a corpo con se stessa, sembra dare per un attimo un nuovo significato alla vita di Luisa, che infatti se ne va con il volto sereno, sprofondato nel riposo. La voragine infine si è chiusa, strappandola appena in tempo da quel Nulla che l’avrebbe costretta a convivere con la mutazione antropologica del secolo nuovo.

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