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diretto da Romano Luperini

L’educazione democratica: la rivoluzione scolastica che verrà

Non c’è altra strada che ricominciare da capo. È questa la convinzione dell’ultimo libro di Christian Laval e Francis Vergne, Education Democratique, la révolution scolaire à venir, Ed. La Decouverte (2021). La miseria del presente è diventata inaccettabile: disuguaglianze, sfruttamento irrazionale, concorrenza come fondamento sociale. Dunque «abbiamo l’obbligo di rompere con il vecchio ordine del mondo». L’educazione, ponte tra passato e futuro, è al centro e non ai margini, di questa aspirazione. Per questo è necessario considerare «il progetto di un’indispensabile rivoluzione della scuola» (p. 6).

Laval e Vergne dichiarano subito che la scuola, da sola, non potrà realizzare uguaglianza né democratizzare la società:

Finché il capitalismo continuerà a produrre effetti distruttivi sulla morale collettiva e i legami sociali, in virtù delle disuguaglianze che esso genera, della sola valorizzazione del successo economico e della concorrenza tra individui, in virtù dell’inganno manifesto tra i “valori ufficiali” e la realtà vissuta, l’educazione potrà difficilmente esercitare quella necessaria azione morale sui giovani, che consiste nel rendere ciascuno rispettoso e responsabile dell’altro e di sé, del contesto di vita umano e non umano, dell’eredità comune che si trasmette tra le generazioni. (p. 8)

Tuttavia, esistono margini di azione che possono essere esplorati, per condurre l’educazione verso l’orizzonte di una democrazia «sociale, ecologica e ugualitaria». Ci propongono, quindi, 5 principi guida per un’alternativa politica, culturale, organizzativa: l’affermazione della libertà pedagogica e accademica, la ricerca di condizioni concrete di accesso universale ai saperi; le finalità sociali e di uguaglianza nell’azione pedagogica; la questione della democrazia del governo della scuola. Proviamo a soffermarci su alcuni aspetti significativi.

1. Uguaglianza e democrazia nella scuola

È possibile una scuola dell’uguaglianza in una società profondamente diseguale? Può esistere un’educazione autenticamente democratica in una società dominata dalla legge della concorrenza generalizzata?  È ancora praticabile oggi l’idea di uguaglianza di opportunità o piuttosto dobbiamo ammettere che essa si traduce semplicemente nel cercare di garantire di stare dalla parte giusta delle disuguaglianze; dunque, tale principio è antropologicamente e socialmente iniquo e bisogna chiedere di più?

Le diseguaglianze scolastiche non possono essere isolate dalla più ampia sfera delle diseguaglianze sociali:

ciò che struttura più profondamente la nostra società è un sistema di classi tale che le disuguaglianze nell’ordine dell’avere, del sapere e del potere sono connesse le une alle altre in base alla posizione occupata all’interno di questo sistema. Le disuguaglianze scolastiche dipendono sia dalla struttura delle posizioni sociali che dal rapporto più o meno distanziato che i membri delle classi sociali instaurano con l’istituzione scolastica e con il sapere. (p. 66)

È su questi due fattori che bisogna dunque intervenire congiuntamente per democratizzare l’educazione: intaccare le disuguaglianze sociali e costruire una politica educativa nuova.

Per incidere realmente sulle disuguaglianze sociali bisognerà agire sul quadro economico e culturale delle famiglie: attivando un «sostegno scolastico gratuito» per tutti gli studenti che ne hanno bisogno, nei pomeriggi o nelle vacanze, da concepire come un servizio pubblico indispensabile. Ancora, un accesso ad opportunità ludiche, culturali e sportive, una formazione permanente per gli adulti. Non lo slogan del life long learning OCSE-UNESCO, di «obbedienza neoliberale», ma un servizio con programmi regolari, all’interno di strutture specifiche, compatibile con l’organizzazione di vita dei lavoratori, e non soltanto di pensionati o senza impiego, da realizzare necessariamente modificando i ritmi di vita e lavoro degli adulti.

Dal punto di vista delle politiche educative occorrerà rovesciare completamente «l’ipocrisia che struttura il discorso e le pratiche istituzionali» (p.84) dei progetti di riforma che hanno investito i sistemi di istruzione nell’ultimo trentennio. Questi, senza incidere sulle logiche di riproduzione sociale note fin dagli anni 60-70, hanno sommato alle vecchie disuguaglianze nuovi fenomeni di «segregazione residenziale, prodotta dalla separazione spaziale delle classi sociali e accentuata dalle facoltà di libera scelta delle famiglie», sviluppando nell’opinione pubblica – e negli stessi lavoratori dell’istruzione- la convinzione che ciascun istituto sia responsabile dei propri risultati. Hanno individuato false soluzioni politiche, introducendo strumenti di regolazione quali «rafforzamento delle prerogative dirigenziali, gestione per obiettivi, cultura della valutazione» (p.84). Strategie di intervento neoliberali sull’educazione, italiana come francese, i cui effetti hanno inciso sul clima di lavoro e polarizzato le realtà scolastiche.

La svolta da realizzare dovrà cominciare dal rendere la segregazione sociale un problema dell’agenda politica, a livello nazionale e territoriale. Ciò imporrà, dal lato dei territori, un cambio di rotta nelle politiche di riconfigurazione urbana e residenziale, lotta alla speculazione immobiliare, riabilitazione delle zone popolari. Le misure nazionali, d’altra parte, potranno immediatamente riguardare il dimensionamento degli istituti – oggi diventati mastodontici mostri delocalizzati su più plessi, con migliaia di alunni e centinaia di lavoratori – l’eterogeneità delle classi, la stabilizzazione del personale, la diminuzione del numero di allievi per classe.

Bisogna ammettere, sostengono i due studiosi, che il mito liberale dell’uguaglianza delle opportunità ha manifestato sin qui tutta la sua inadeguatezza. In regime di risorse decrescenti e in condizioni materiali sempre più degradate, ha lasciato al solo lavoro docente l’onere del livellamento di quel terreno di gioco su cui poi lasciar spazio alla libera dinamica della concorrenza. È oramai necessario abbracciare un obiettivo più realista, oltre che sociologicamente fondato: quello dell’uguaglianza progressiva delle condizioni concrete di insegnamento e apprendimento:

perché non c’è alcun dubbio che gli allievi provenienti dai contesti a minore capitale economico, culturale e sociale non possano essere, come accade oggi, concentrati nelle stesse classi senza che le condizioni del loro apprendimento ne risentano gravemente.[1]

Dunque, non potendo immediatamente trasformare la composizione sociale degli istituti, bisognerà fornire risorse materiali e personale differenziato geograficamente. Ribaltare “l’effetto Matteo”: dare di più a chi ha di meno, finché le condizioni reali di apprendimento non possano essere giudicate equivalenti.

2. Pedagogia e cultura dell’uguaglianza e della trasformazione sociale

Sono le finalità che ci si pone come società a guidare le scelte e le pratiche pedagogiche di una scuola autenticamente democratica. Lo sguardo passa allora dalla scala macroscopica delle politiche educative, a quella intima del lavoro da svolgere in classe.

Sul piano delle prassi, Laval e Vergne parlano di pedagogia istituente intendendo con questo termine quell’«insieme delle pedagogie che fanno della democrazia un principio di funzionamento dell’istituzione scolastica e di formazione degli allievi» (p. 142). La democrazia si impara praticandola. Gli insegnanti, nel progettare le loro attività, dovranno quindi domandarsi quali di esse costituiscano «un avanzamento nella formazione della soggettività democratica, senza dogmi o idee preconcette» (p. 177). Dovranno conferire senso a ciò che insegnano. Ciò riconduce al principio fondamentale di libertà, pedagogica e accademica (pp. 21 e 27). Dare senso a ciò che si insegna è possibile se l’insegnante crede in ciò che fa, se «le (sue) condizioni materiali e la (sua) posizione simbolica vengono riabilitate […] da parte della collettività» (p. 21), se non è chiamato ad obbedire alle prescrizioni di esperti censori che indicano «i buoni e i cattivi pensieri, i buoni e i cattivi concetti, le buone e le cattive teorie» (p. 29). Laval e Vergne sanno bene che le forme di condizionamento possono essere molteplici e mettono in guardia anche da quelle più sottili che provengono

dall’interno, attraverso programmi, prescrizione di metodi, valutazioni condotte in senso gerarchico. O dall’esterno, attraverso una richiesta “di adattarsi alla realtà”, ovvero a ciò che è dato, che esiste. (p. 32)

Dare senso alla trasmissione dei saperi «significa dare al quotidiano un significato storico e sociale e iscriverlo in una logica di trasformazione politica» (p. 104). Far comprendere che non tutto dipende dal presente, dai propri desideri, dai propri talenti e dalla propria personalità, ma dalle situazioni sociali e concrete di vita, che possono essere modificate dall’azione collettiva, incidendo sulla realtà e trasformandola, come ci insegna la storia.

Dal punto di vista dei contenuti e dei saperi, Laval e Vergne parlano di «dilemma dell’educazione democratica» (p. 101), ovvero l’antica questione del rapporto scuola-società: come fare affinché i saperi scolastici non siano fini a se stessi e separati dalla realtà (il vuoto scolastico), né sviliti da un utilitarismo d’accatto, che perpetua la subalternità dei più, favorendo i pochi già privilegiati (lo studente come capitale umano). Gli studiosi provano a problematizzare il dilemma richiamando il concetto di «rapporto sociale al sapere» (B. Charlot, cit. a p. 100), ovvero, di quella relazione sociale tra scuola-cultura-studente, in cui l’insegnamento svolge un ruolo fondamentale.

Gli ostacoli pedagogici esistenti, e mai negati dagli autori, tra la distanza sociale dei giovani di origine popolare e i codici elaborati e simbolici non devono tuttavia condurre alla rinuncia o alla banalizzazione, né a «confondere esperienza scolastica con realtà vissuta»; sia per non correre il rischio di «svalutare i saperi e l’esperienza scolastica» (p. 103) agli occhi degli studenti, sia per non schiacciarli sulle esperienze biografiche, o sulla miseria del presente. Si tratta di un’impresa titanica: «tenere vivo il desiderio di fare del sapere un bene comune accessibile a tutti» (p. 221), che merita risorse adeguate e riconoscimento politico.

Laval e Vergne suggeriscono alcuni principi orientativi per rifondare l’«autorità pedagogica del sapere»: il ricorso alla libera interrogazione e allo spirito di investigazione, rispetto alla sottomissione ai fatti, il rifiuto di ogni dogma; il coinvolgimento degli studenti nella determinazione delle regole, dei tempi, delle norme di vita comune; il richiamo all’importanza dell’immaginazione, alla quale gli autori dedicano passaggi straordinari (p. 174). La pedagogia democratica deve nutrire l’immaginario dei giovani. La letteratura, ad esempio, offre da questo punto di vista potenti «armi poetiche, parodistiche, critiche, polemiche» di cui tutti devono poter disporre anche per «acquisire un certo spirito di sovversione, indispensabile alla democrazia» e che deriva dall’immersione nella ricchezza infinita delle possibilità narrative, delle esperienze umane e immaginarie tipiche della finzione letteraria: «Nessuna democrazia senza letteratura, nessuna letteratura senza democrazia» (Derrida, cit. a p. 121).

Gli strumenti per conquistare le nuove generazioni nella relazione con l’universo del sapere, per combattere la loro disaffiliazione, colmare la distanza tra scuola e mondi da cui provengono, sono molteplici e vanno tutti tentati. L’unica certezza è che non è possibile applicare

ricette già pronte, un metodo “rivoluzionario”, un nuovo piano istituzionale: questo contraddirebbe l’idea stessa di pedagogia istituente. A seconda dei livelli scolastici, delle circostanze locali, dei parametri sociologici, le invenzioni democratiche non possono essere identiche. L’importante è ancora qui l’azione immaginativa degli insegnanti nella relazione con i loro studenti (p. 179).

3. Il progetto di scuola unica

Uno degli effetti più perversi della fase neoliberale che la scuola sta attraversando è quello di riplasmare nei discorsi e nell’opinione il tema della democratizzazione dell’educazione in chiave post-moderna, attraverso concetti accolti con facile entusiasmo sia dallo stesso mondo dell’educazione che da quello della politica progressista. Parliamo di quell’universo semantico costruito attorno ai temi dell’individualizzazione dell’insegnamento, della centralità dell’allievo e dell’attenzione alla persona, dell’adattamento ai bisogni differenziati, della valorizzazione dei talenti, dei ritmi, e delle attitudini di ciascuno, carico di apparente buon senso. Esso si è saldato politicamente e antropologicamente all’ideale funzionalista e utilitarista della scuola come produzione di capitale umano. Ha alimentato una visione piatta e “maltusiana” dell’educazione, depoliticizzandola e incorporandola nel discorso economico e standardizzato della misurabilità delle competenze, oggi anche nella loro recente versione non cognitiva. L’enfasi sulla personificazione dei percorsi in base alle “inclinazioni” degli studenti ha intaccato anche l’idea di organizzazione della vita scolastica fondata sul gruppo-classe, spesso considerato retaggio del passato, ma dagli autori ritenuto invece luogo in cui imparare a deliberare e partecipare, costruire e alimentare reciprocità, responsabilità verso l’altro, capacità di contestazione e negoziazione di regole comuni: «con la vita collettiva della classe è la vita sociale che inizia» (Durkheim, cit. a p. 149). La retorica dell’individualizzazione ha messo fuori fuoco, se non cancellato, la questione della democratizzazione concreta[2] e dell’origine sociale delle disuguaglianze, oggi rilette in chiave di riuscita, difficoltà, abbandono, e intese come caratteristiche individuali, vagamente inserite su uno sfondo collettivo.[3]  La prima difficoltà, di ordine politico, consiste quindi nel riuscire a decodificare un lessico che rende sostanzialmente illeggibili le fondamenta del progetto in atto. Occorre poi immaginare delle alternative.

Per gli studiosi «la soluzione non è nella diversificazione della formazione, ma al contrario nella creazione di una scuola unica iniziale di cultura generale, umanistica, formatrice» (p. 137), che proceda di pari passo ad una trasformazione dell’organizzazione della produzione e del lavoro intellettuale. Solo una scuola realmente eterogenea, in cui gli insegnanti siano liberi di agire con mezzi adeguati allo scopo, può preparare una nuova economia e una nuova società. La finalità da perseguire nell’educazione non è quindi adattare i giovani alle nuove condizioni di vita, ma insegnare a governarle.

Un rovesciamento si impone: la conoscenza, le arti, la lingua devono ormai essere al cuore di ogni educazione, come esperienze simboliche che permettano di legare l’esistenza individuale alla vita collettiva (..rinnovando..) l’idea marxiana di realizzazione dell’uomo attraverso lo sviluppo di ogni sua facoltà, e precisamente di quelle perfettamente inutili rispetto alla produzione del valore economico. (p. 138)

La nuova scuola unitaria, sul modello della scuola immaginata da Antonio Gramsci, dovrà poter disporre innanzitutto del tempo necessario per la riflessione sulla nuova «cultura comune», sulle conoscenze acquisite, sui loro legami e sulle interdipendenze con la realtà. Amplificare il fattore tempo significa fare tabula rasa dell’attuale organizzazione tayloristica e tecnicista delle modalità di insegnamento e della loro valutazione – vedi le ormai famigerate Unità di Apprendimento, col loro corollario di rubriche, o la forma dell’insegnamento modellata sull’esercizio-test – che si accompagna allo svilimento di quanto non sia immediatamente efficace o misurabile, nella maniera che oggi si ritiene “oggettiva”. La ricostruzione di un rapporto libero e desiderabile con i saperi deve partire dalla riscoperta di

ogni dimensione di gratuità e di piacere nell’apprendimento della cultura, ogni capacità riflessiva, ogni creatività, ogni immaginazione e ogni libera parola”, oggi “minacciat(a) da esercitazioni codificate, che pretendono di ottenere rendimento elevato e permettono di oggettivare e valutare competenze ritenute incontestabili . (p. 129) 

In concreto, occorrerà portare avanti un progetto politico di tronco comune dall’infanzia al liceo, eliminazione delle filiere e delle classificazioni, la cui «potenza tossica sugli apprendimenti» non può che deviare la relazione col sapere. La fine dei «voti come strumento disciplinare», «di comparazione e gerarchizzazione» e la fine di ogni test standardizzato, assicurerebbero maggiore autonomia per gli insegnanti, «liberi dalla pressione della selezione» perenne, dalla gestione dei flussi, lasciando loro il tempo necessario per attività di approfondimento, confronto fra pari, ricerca.  Le difficoltà non mancherebbero di certo, ma ciò che suona come un’utopia – e cioè la fine della concorrenza e della competizione – permetterebbe di spostare i problemi su un terreno diverso e collettivo, non solo puramente scolastico, da gestire con i mezzi e risorse adeguati ai contesti e col sostegno di altre istituzioni.

4. Autonomia vera e radicata fiducia negli insegnanti

Le proposte avanzate dagli autori, e sin qui solo in estrema sintesi richiamate, sono tutte connesse alla dimensione della democrazia, che rappresenta allo stesso tempo il fine e il mezzo dell’educazione. Un’educazione democratica necessita di uno spazio istituzionale proprio, con una sua etica, una sua indipendenza e una sua modalità di governo. Per Laval e Vergne l’unica modalità possibile è quella dell’auto-governo, inteso come attività permanente di tutti i membri dell’istituzione di darsi regole di vita comune, possedendo la capacità di agire insieme per modificarle.  Gli autori chiamano comuni educativi questi spazi auto-governati, la cui finalità è la messa a disposizione di tutti del sapere, da inserire all’interno di un quadro istituzionale più ampio: «l’Università democratica»  (p.54).

Laval e Vergne hanno l’ardire e la generosità di proporci uno sforzo di «immaginazione concreta» (p. 203): provare a figurarci «cosa potrebbe essere la vita di un istituto auto-governato». Un esercizio di pensiero, una volta tanto, totalmente libero. Proviamo solo ad abbozzarlo.

Cerchiamo allora di troncare ogni rapporto con la realtà dell’oggi, e immaginiamo cosa potrebbe essere una scuola autonoma, in un posto qualunque. Non troveremmo nessun dirigente, non troveremmo il suo staff, perché «non esiste alcuna comunità finché un istituto è diretto dall’alto» (p. 204). Il consiglio di istituto sarebbe l’organo di direzione, che determina le regole e le norme di vita comune. L’esercizio degli autori procede, si appassiona ai dettagli: la scansione dei ritmi scolastici, gli spazi, gli esami da superare e la supervisione centrale, a garanzia di uguaglianza di condizioni reali; si sofferma su rischi e benefici di quest’idea di autogoverno sicuramente difficile e brancolante.

Laval e Vergne sanno benissimo che la categoria di auto-governo o di autonomia istituzionale è oggi, in un momento storico così regressivo, la più difficile con cui confrontarsi. Riconoscono che:

per uno spirito puramente orwelliano, ciò che oggi designa l’autonomia degli istituti, di natura essenzialmente manageriale e finanziaria, ha rinforzato il potere delle gerarchie e la sottomissione alle finalità capitalistiche dell’insegnamento e della ricerca. (p. 38)

Consideriamo il caso italiano e la realizzazione dell’autonomia scolastica dalla logica feudale che lo ha caratterizzato. Dall’introduzione dell’autonomia amministrativa, organizzativa e didattica di fine anni 90, all’autonomia differenziata regionale promossa nel 2021, i cui nessi appaiono sempre più evidenti a chi abbia l’onestà intellettuale di vederli, sono trascorsi oltre 20 anni. Nel frattempo, più si dichiarava autonomia, più cresceva il senso di distacco con cui gli insegnanti concepivano il loro mestiere, sempre più burocratizzato e controllato, subordinato e ritualizzato. Più si dichiarava autonomia, più si alimentava il disinteresse per le dimensioni più vaste della funzione e del mestiere di docente: il quadro istituzionale, la formazione come ricerca, lo studio, l’attenzione ai contesti sociali, le finalità politiche. È questo il punto in cui siamo, e non c’è altra strada che ricominciare da capo.

Come degli insegnanti sottomessi ad una gerarchia burocratica, senza reale autonomia (..) potrebbero formare i futuri cittadini allo spirito critico, al gusto per la ricerca e alla pratica di cooperazione? (p.60) come potrebbero mai insegnare lo spirito di libertà, il gusto per il lavoro comune se non lo praticano per primi? (p. 173) (..) formare i giovani alla democrazia se non (sono) per primi membri attivi nella propria istituzione? (p.209)

Dall’immediatezza e dalla semplicità di questi nessi, emerge una profonda e radicata fiducia nell’agire umano, e nell’azione collettiva degli insegnanti in particolare. D’altra parte, in tutto il libro – ma in particolare nella conclusione – Laval e Vergne esplorano le tensioni e le contraddizioni del mestiere di insegnare, ne riconoscono i limiti, i rischi, le sofferenze, i cedimenti, ma anche la passione, le possibilità, l’abnegazione. Colpiscono molto l’empatia del loro sguardo, la capacità di comprendere e di partecipare in maniera profondamente umana ai processi descritti. Anche solo per questo, l’Ecole Democratique consegna alla scuola, e a chi la ha a cuore, un formidabile strumento intellettuale attraverso cui rinnovare categorie e concetti, rimettere in moto immaginazione, riaccendere il desiderio e la volontà.


[1] C. Laval, Les deux crises de l’ecole, Cairn.info, 2006.

[2] Non la «demografizzazione», parola che gli autori prendono in prestito a P. Merle per indicare l’apertura universale dell’accesso scolastico, vedi pag. 81.

[3] Nell’Atto di indirizzo del Ministro italiano Bianchi per il 2022 leggiamo: «Garantire a tutte le studentesse e a tutti gli studenti il diritto a un’istruzione di qualità, coerente con le proprie inclinazioni e aspirazioni e, al contempo, in linea con le nuove competenze richieste dal mercato del lavoro».

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