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diretto da Romano Luperini

Leggere, vedere, imparare. Una riflessione di Gianni Rodari

Nel 1964, Gianni Rodari pubblicò sul “Giornale dei genitori” una riflessione sul rapporto che la neonata televisione avrebbe potuto avere con la curiosità e l’apprendimento dei bambini. La tv, le cui trasmissioni erano iniziate dieci anni prima, suscitava vive preoccupazioni in molte famiglie: apparivano infatti evidenti le sue capacità di catalizzare l’attenzione e catturarla in modo intenso. In particolare, si guardava con preoccupazione ad un possibile decremento della lettura e a un indebolimento dello studio e dell’apprendimento, che il tempo dedicato a guardare la tv avrebbe potuto causare.

Era l’alba dell’incontro e del conflitto fra verbale e visivo, fra generazioni del libro e dello schermo (rubo la definizione a Pier Cesare Rivoltella, e al suo “Screen generation”, uscito nel 2006). Un incontro e un conflitto che sono in pieno svolgimento, seppure in un contesto marcatamente differente.

L’interpretazione prevalente di questo conflitto era che le istituzioni, prime fra tutte la famiglia e la scuola, dovessero adottare un atteggiamento di difesa dello status quo, identificato nei valori del libro e della lettura, e di divieto, controllo e prescrizione, di fronte ai nuovi testi audiovisivi e alla loro fonte. Ma Rodari non era di questo avviso.

Come accade con il pensiero dei veri intellettuali, rileggere oggi le sue parole può esserci molto utile: non solo a segnare una distanza, comprendendo meglio la potente evoluzione di fattori e interessi che accompagnano la recente storia dei media; ma anche a cogliere elementi di continuità nell’approccio culturale e psicologico al tema, e nel dibattito pubblico che ne scaturisce. La riflessione su questi ultimi può risultare utile e istruttiva, non meno della doverosa sottolineatura dei rischi che etici che il trionfo del digitale porta con sé.

Scriveva Rodari:

Non tutti conoscono le tecniche migliori e più moderne per alfabetizzare rapidamente e senza sforzo i bambini. Quasi tutti, invece, conosciamo e pratichiamo con fedeltà e coerenza degne di cause più sante gli svariati sistemi per far nascere nei bambini una nausea inestinguibile verso la carta stampata. Permettetemi di indicarne alcune, piuttosto alla buona, ma non senza convinzione.

I

PRESENTARE IL LIBRO COME UN’ALTERNATIVA ALLA TV

˂˂Leggi, invece di guardare la televisione˃˃.

˂˂Se non ti vedo leggere, vendo il televisore˃˃.

˂˂Prendi il libro di scuola, invece di perdere tempo con quelle stupidate˃˃.

Non pretendo di conoscere tutte le espressioni particolari usate dai sostenitori di questo sistema quasi infallibile. I bambini sanno che la tv non è una “stupidata”. Può darsi che le sacrifichino qualche ora più del necessario, può darsi che si riducano talvolta in quello stato di semi-incoscienza nel quale il telespettatore abituale bambino e adulto casca dopo qualche tempo, e di cui è un sintomo la totale passività con cui accetta dal teleschermo senza scegliere e senza reagire qualsiasi programma. Questo non toglie che nel complesso i meriti educativi della tv superino i suoi demeriti. Il teleschermo arricchisce il punto di vista, nutre il vocabolario, mette in circolo una quantità inverosimile di informazioni, inserisce i nostri piccoli analfabeti in un circuito più vasto di quello familiare che non sempre è vivificato dalle informazioni, dalla cultura, dalle idee. (…)

Psicologicamente, poi, non mi pare che negare un divertimento, un’occupazione piacevole (o sentita come tale, che è lo stesso) sia il modo ideale di farne amare un’altra: sarà piuttosto il modo di gettare su quest’altra un’ombra di fastidio e di castigo.

Il sapere e le istituzioni nella società della conoscenza

Il primo tema sul quale queste parole ci invitano a riflettere è la nostra concezione del “sapere” e dei modi della sua acquisizione nei percorsi culturali e sociali sui quali camminano i giovani, e noi con loro.

Senza riferirsi esplicitamente alla scuola, Rodari infatti descrive la dialettica fra forme e modelli di istruzione e apprendimento diversi, che interagiscono profondamente. Nel contesto del suo discorso, non credo che sarebbe scorretto definirli, senza semplificare eccessivamente, istruzione colta e istruzione popolare; sul piano della trasmissione di contenuti e idee si potrebbe parlare di insegnamento/ apprendimento formale (istituzionale) in relazione a un insegnamento/ apprendimento informale.

In una prospettiva attualizzante, il brano apre a due scenari possibili di riflessione.

Sul piano storico, Rodari manifesta una notevole apertura a forme di trasmissione di conoscenza alternative a quelle tradizionali (la scuola e l’istituzione familiare), partendo ovviamente da un presupposto oggi in parte superato: la scarsa alfabetizzazione e la diffusa ignoranza in ampi strati della popolazione, in un tempo in cui il concetto di “obbligo scolastico” e i percorsi di formazione erano molto diversi da quelli che conosciamo. Diamo pure per scontato che oggi, diversamente da allora, i “piccoli analfabeti” abbiano di fronte a sé opportunità e percorsi che li porteranno ad acquisire un bagaglio significativo di conoscenze e saperi. Tuttavia, la questione dell’interazione fra informazioni e concetti provenienti da fonti le più diverse, e dello sviluppo di un’autonomia critica intesa prima di tutto come capacità di mettere ordine e selezionare fra i messaggi e gli stimoli, appare oggi più urgente che mai, a causa della moltiplicazione costante dei dati e delle agenzie che li forniscono. In questo senso, si potrebbe addirittura affermare che educare alla tv fosse, in passato, un’opportunità per agire sul patrimonio culturale di bambini e giovani riducendone la scarsità (per addizione); al contrario, oggi, educare al digitale è un’azione che mira a fare in modo che le persone non cedano alla sovrabbondanza e all’eccesso (per sottrazione).

Dal punto di vista pedagogico, però, la convivenza e l’intreccio fra differenti agenzie e forme educative viene ancora spesso affrontata negli stessi termini di cui Rodari denuncia l’improduttività: alzare barriere e porre ostacoli e divieti a quello che la tradizione non ha istituzionalizzato, anziché riconoscere la dignità di strumenti e apporti che, pur non previsti dalla tradizione, sono in grado di potenziare i risultati di apprendimento delle persone che imparano (anche senza studiare). E questo sia nel ristretto periodo in cui abiteranno l’istituzione scolastica, sia nelle scelte e comportamenti successivi, nella loro vita sociale, affettiva, politica di cittadine e cittadini.

Il mondo capovolto

Il gioco fra diverse forme di “insegnamento” e apprendimento si svolge ovviamente in un mondo lontano anni luce da quello di cui ci parla l’intellettuale novecentesco, sia per la quantità sterminata delle fonti che in forme differenti oggi “insegnano” ai giovani, sia per la qualità del rapporto fra i modelli consacrati dalla tradizione e quelli proposti e imposti dall’innovazione tecnologica, spesso assunta in modo acritico dall’istituzione scolastica.

Il conflitto di cui parla Rodari è combattuto da due soli soggetti, facilmente identificabili: il libro e la televisione. Essi, inoltre, agiscono in spazi delimitati e non permeabili: nessuno pensava, all’epoca, di fare entrare a scuola un televisore o di lavorare sui neonati linguaggi audiovisivi. La situazione odierna è stata invece definita da Ruggero Eugeni “condizione postmediale”, alludendo sia alla moltiplicazione degli strumenti di connessione e informazione (la sfida non è più uno contro uno), sia all’impossibilità di distinguere con un taglio netto i luoghi fisici e gli spazi di connessione da quelli liberi da essa (a parte la difficoltà estrema di impedire agli individui di portare con sé lo smartphone dentro la scuola, nemmeno l’insegnante più conservatore concepirebbe l’idea di cancellare dal contesto scolastico gli strumenti tecnologici).

Ma è sul piano delle gerarchie sociali e culturali che è avvenuto il mutamento più significativo: non c’è dubbio, infatti, che la “civiltà del libro” (e quella del libro di testo, su cui ha scritto pagine molto belle Gino Roncaglia, ad esempio in “L’età della frammentazione”) abbia perduto il suo primato rispetto a quella tecnologica/ digitale.

La televisione di cui Rodari riconosce il potenziale educativo aveva un unico canale, che trasmetteva dalle 16.30 fino a sera tarda (verso le 11). Il suo palinsesto era colonizzato dal sapere della scuola e dei libri: basti pensare all’universo degli sceneggiati televisivi, popolarissimi e avvincenti per gli spettatori dell’epoca, che li guardavano a decine di milioni ogni sera. Si trattava per lo più di sceneggiature/ riduzioni basate sul patrimonio colto e popolare della narrativa storica e contemporanea: Dostoevskji, Cronin, Stevenson, Simenon, Hoyle, Manzoni, Fogazzaro. A lavorare sulla riscrittura e sulla “popolarizzazione” di queste storie erano personaggi che hanno segnato la storia della nostra cultura successiva (ad esempio, Eco o Camilleri).

L’universo delle narrazioni televisive, quindi, era delimitato nel tempo di esposizione e fortemente orientato alla cultura colta.

Ragionare su come la vecchia tv sia cambiata, nei pochi anni in cui gli schermi si sono moltiplicati e hanno cambiato aspetto, è logicamente molto interessante. Ai fini dell’attualizzazione del testo, però, è molto più stimolante notare come anche questa televisione che potremmo, senza forzature, definire “culturale” e alfabetizzante fosse oggetto di timori e paure, a parere di Rodari immotivate e fuorvianti.

Perché?

Mitologie tecnologiche e antifascismo digitale

Il conflitto fra diversi modelli culturali appare a Rodari profondamente segnato da ragioni generazionali, e da una diffusa paura di ciò che appare “nuovo” e non controllabile.

Anche sotto questo profilo, è interessante ragionare sulle costanti e sulle variabili che il dibattito pubblico (e quello interno al mondo della scuola) presenta, rispetto agli anni Sessanta del secolo scorso.

Se si osserva la società in generale, infatti, non si può fare a meno di constatare che la cultura digitale ha colonizzato il mondo degli adulti non meno di quello dei giovani. Naturalmente, le forme di questa colonizzazione sono differenti: si può per esempio constatare che il veicolo principale di essa, per chi è giovane, è costituito dalla dimensione del gioco e dell’intrattenimento; mentre per gli adulti l’obbligo di essere digitale investe la dimensione del lavoro (burocrazia), della vita quotidiana e delle comunicazioni (per esempio: gruppi, certificati, banca, pagamenti) e in discreta misura altre forme di socialità (al primo posto la pornografia).

Molte persone, in una certa misura anche in ambiti istituzionali, resistono a questa colonizzazione, percependo il rischio che allontani le persone le une dalle altre e crei una comunità di individui isolati. Una versione digitale della “solitudine di gruppo” di cui scriveva Montale nel “Quaderno di quattro anni”, che l’antropologa Sherry Turkle ha sintetizzato nel titolo di un suo libro celebre: “insieme ma soli”.

In un simile contesto, si arriva a proporre una nuova antropologia del visivo e della dimensione digitale, disegnando scenari distopici (la concezione di “Homo videns” di Sartori) o felici utopie tecnologiche (il “Game” di Baricco). Scenari divisi dalla valutazione divergente su chi siano “buoni” e “cattivi” nello scontro in atto, accomunati invece dalla visione apocalittica del conflitto, e dall’idea che la lotta per il trono di spade sarà all’ultimo sangue.

Anche in questo caso, l’umiltà intellettuale e l’apertura al cambiamento che animano le parole di Rodari potrebbero forse aiutare a concepire un dialogo e una mediazione, scongiurando il rischio che le opposte visioni diventino ideologie del visivo. Le sue parole disegnano infatti un futuro di convivenza fra libro e televisione, non una guerra senza prigionieri; e sottolineano la responsabilità fondamentale del mondo adulto, che deve a suo avviso superare la paura e trovare il modo di valorizzare il sapere della tradizione anche nell’ambito delle nuove esperienze tecnologiche. Possiamo certamente affermare che si tratta di un auspicio che finora non si è realizzato: gli anni in cui Rodari scrive sono infatti gli stessi durante i quali comincia a manifestarsi quello che Pasolini definirà “fascismo televisivo”, che trova la sua “naturale” continuazione nel “capitalismo della sorveglianza” di cui oggi parla Shoshana Zuboff.

Tuttavia, si può immaginare un concreto antifascismo digitale, non per forza basato sulla presa di distanza dagli strumenti che oggi veicolano spesso oppressione delle coscienze e cancellazione della libertà, travestendo l’una e l’altra da passatempo. Addirittura, si potrebbe affermare che è fondamentale che questo nuovo antifascismo non si fondi sul mito del passato o sul semplice rifiuto dei miti attuali. Proprio Rodari, infatti, sottolinea nel 1964 che spesso per lottare contro un presente che non ci piace inventiamo letteralmente un passato felice che non è mai esistito: nel suo caso, quando si dice ai piccoli che “i bambini di una volta leggevano di più” (regola 3 per fare odiare la lettura), o che oggi “hanno troppe distrazioni” (regola 4). Il rischio di semplificazioni simili, naturalmente aggiornate nella formulazione, è più che mai palpabile.

Miti come quello dei “nativi digitali” devono certamente essere respinti. Ma la lotta contro di essi non si combatte respingendo insieme al mito i testi e gli strumenti di chi ne è portatore, o disprezzando il suo immaginario, le sue convinzioni e i suoi valori. Molto più utile accettare di porsi sullo stesso piano, e affermare che il cosiddetto “digital divide” è un muro che va osservato da due diversi punti di vista. Il primo tocca la competenza nell’uso degli strumenti, e su questo piano noi adulti abbiamo tutto da imparare, e i giovani (perfino i bambini) tutto da insegnare. Ma poi c’è il versante del senso di queste creazioni culturali, della direzione da dare loro, dei dubbi etici che si portano dietro. Su questo piano, noi adulti siamo i maestri, e i giovani e le giovani hanno tutto da imparare anche da chi teme che schiacciando il pulsante sbagliato il computer esploderà.

Proprio nell’interesse e nel rispetto reciproco, nell’invito alla collaborazione, nell’ascolto della diversità, consiste l’insegnamento profondo delle parole di Rodari.

In questo senso, il 1964 è oggi, e sarà domani.

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