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diretto da Romano Luperini

Giornalismo e scrittura letteraria secondo Aramburu

1. Dopo il successo di Patria, romanzo che ha regalato a Fernando Aramburu la notorietà presso il pubblico italiano, esce in Italia Il rumore di quest’epoca, un nuovo lavoro che raccoglie una selezione di articoli usciti sul quotidiano spagnolo El Mundo tra il 2017 e il 2018.

Pur non essendo né un romanzo, né una raccolta di racconti, Il rumore di quest’epoca non intende «perdere di vista il proposito letterario della scrittura» e rivela la necessità di restituire dignità letteraria a quella giornalistica e in particolare al giornalismo d’opinione. L’autore, infatti, scrive:

Sbaglio se associo il giornalismo d’opinione alla letteratura? Per amor di precisione, ci tengo a dire che non lo associo a qualunque letteratura, ma a quella che ha via via acquistato forma, da tempi antichi, sotto l’ala della carta stampata. Non sarò io a negare che il buon giornalismo d’opinione comincia dove finisce la scrittura meramente utilitaria e che un pizzico di riflessione perspicace e di stile costituiscono i suoi condimenti primordiali.[…]. Attribuisco alla carta stampata la capacità di generare la propria letteratura, indipendentemente dal fatto che apra le porte anche ad altre modalità di creazione letteraria come il racconto o, in epoche ormai piuttosto lontane, il romanzo a puntate. L’articolo d’opinione è la forma genuina di questa espressione letteraria.

I giornali sono il luogo dove si può fare letteratura, e non soltanto, come convenzionalmente si pensa, informazione. Insomma, la stampa giornalistica non deve ridursi esclusivamente a un ruolo utilitaristico e stilisticamente povero e trascurato. Questo è il punto di vista che emerge dall’introduzione del volume, e che inserisce lo scrittore basco in quella lunga tradizione di intellettuali che associano il giornalismo d’opinione alla letteratura e che si interrogano sulla forma-saggio. Attraverso Il rumore di quest’epoca Aramburu dimostra infatti come si possa spaziare dagli argomenti più intimi e personali alle riflessioni di carattere più astratto e riflessivo senza rinunciare mai a un impegno stilistico sempre mosso e tuttavia anche rigoroso e sostenuto.

La collaborazione di Aramburu per El Mundo continua per 81 settimane, ovvero fino al momento in cui lo scrittore, avvertendo che gli spunti di riflessione cominciano a scarseggiare e la scrittura tende a diventare meno piacevole e sempre più faticosa, decide di porvi fine. Il rumore di quest’epoca raccoglie una selezione di questi interventi apparsi sull’edizione domenicale del quotidiano all’interno di una rubrica intitolata Entre coche y andén , ovvero Tra la vettura e il marciapiede, che l’autore definisce cosi: «un’allusione al mio proposito di riflettere secondo la mia volontà e il mio discernimento. Mi ha attirato l’idea di quello spazio pericoloso che sia chi parte sia chi arriva deve tener presente, senza che ciò lo dispensi dal passarci sopra».

2. Gli interventi non seguono un filo conduttore, sono pensieri sparsi che intendono offrire uno stimolo culturale ai lettori domenicali. All’interno del volume, pur non essendo raccolti in ordine cronologico, sono raggruppati, probabilmente per praticità di lettura, in sette blocchi tematici che costituiscono un itinerario attraverso la vita di Aramburu. Si passa inizialmente dai ricordi dell’infanzia a San Sebastiàn agli anni della università a Saragozza. Si tratta nel primo caso di aneddoti legati al mondo famigliare nei quali viene rivelata, ad esempio, la scoperta del vino già a otto anni, esperienza che lo immunizza dal rischio dell’alcolismo da adulto e che lo scrittore ricorda con tenera ironia: «non è che il bambino si ubriacasse, ma quante sere quell’angioletto andava a dormire con una vivida sensazione euforica, di piacevole sopore o, come diceva mia madre senza giri di parole, bello ciucco. Non per niente, poi dormivo d’un fiato tutta la notte». Nel secondo si rappresenta il periodo successivo in cui «eravamo giovani e liberi in un paese che aveva appena spalancato le finestre dopo lunghi decenni di aria stantia, un paese ansioso di modernizzarsi e superare i propri complessi». È poi la volta dell’esperienza di insegnante in Germania, nonché della passione per il calcio e per i cani, ma anche dell’amore per la poesia e per la musica, fino alla celebrazione della noia come «un regalo della Natura che permette agli esseri umani di crearsi un proprio mondo interiore con il quale sconfiggere, guardate un po’, proprio la noia».

Pagina dopo pagina si costituisce dunque una sorta di autobiografia intellettuale che lo scrittore interpreta come lo spazio nel quale esercitare il «libero pensiero»:

Nessuno mi ha mai toccato una virgola, nessuno mi ha mai cancellato una parola. Avere ragione non è stato ciò che ha mosso con maggior forza la mia mano, che in fin dei conti è quella di un uomo fallibile che non si chiude di fronte al dubbio. Mi è importato di più esprimermi in totale libertà finché quel privilegio è concesso in Spagna. Vedremo per quanto tempo ancora.

Del resto Il rumore di quest’epoca ci parla anche di Aramburu come scrittore, introducendoci proprio nel suo laboratorio di scrittura e rivelandoci i riti e le abitudini con cui si dedica a questa attività, perché «scrittori non si nasce, ma lo si diventa svegliandosi presto la mattina». In questo modo sembra volerci ricordare che non c’è niente di affascinante nel suo lavoro alla scrivania, e che la stesura di ogni libro è frutto di un lavoro disciplinato, di abitudini e di orari regolari che possano permettergli di essere produttivo. Ci sono semmai molte ore di solitudine nella sua attività, ma d’altronde per arrivare a comunicare con i lettori, «per arrivare alla coscienza di una manciata di suoi simili, lo scrittore deve per forza allontanarsi da loro e stare da solo. A ben guardare, forse è questa la cosa migliore che possa succedergli».

In questo spazio di intimità e di solitudine, accanto alla scrittura si colloca la lettura, è infatti attraverso la sua biblioteca che si può riassumere tutta la vita di un autore come in un album fotografico. E non solo per il contenuto delle diverse opere, ma anche perché ogni libro ha la capacità di rimandare con la memoria a una determinata situazione personale: osservando le copie allineate sugli scaffali della biblioteca ritornano «scene, immagini, paesaggi, peripezie e persone del passato».

3. Ed è proprio attraverso il tema della memoria e del passato che Aramburu affronta uno degli argomenti centrali sia di questa raccolta che della sua intera produzione narrativa: gli anni bui del terrorismo dei Paesi Baschi. Non dimenticare il dolore degli altri è infatti la sezione dedicata agli articoli sulle ferite lasciate dal terrorismo del gruppo armato indipendentista Eta. Un terrorismo fatto non solo di bombe e di morti, ma anche di forti pressioni psicologiche dagli effetti irreversibili sull’intera società. Una realtà, questa, già ampiamente descritta nei racconti e nei romanzi come Patria, ma rispetto alla quale in questo nuovo lavoro Aramburu si concede riflessioni e prese di posizione di carattere tanto privato quanto pubblico. Ecco allora che in queste pagine la memoria acquisisce un ruolo di primo piano inducendolo a farsi carico del dolore e dei torti subiti dalle vittime. Ma non basta, per Aramburu, scrivere opere «sulla violenza, il conflitto, la lotta armata o comunque la si voglia chiamare, tranne terrorismo, termine che colloca chi lo usa fuori dalla riserva culturale dei genuini», occorre sostituire la preposizione su con contro, e schierarsi contro il terrorismo, contro l’Eta, e contro il silenzio che ne diventa complice. In questo la letteratura, sottraendosi al semplice «compito da scrivania» e compromettendosi «con un’azione civica contraria agli interessi dell’aggressore» e intransigente nei confronti di chi vuole ancora nascondere le vittime del terrorismo, può risvegliare le coscienze e costituirsi come veicolo di trasmissione e di testimonianza universale. E a chi ha letto Patria, libro apertamente schierato contro il terrorismo e contro l’Eta, apparirà sicuramente chiara la necessità dell’autore di prendere posizione.

Denunciare la violenza politica non implica, tuttavia, dimenticare le ingiustizie che la fanno nascere: non è attraverso il rancore e l’odio che si può evitare il ripetersi, in futuro, di tanto dolore. Tanto più se, per chi l’ha subita, e qui il riferimento è a tutte le vittime del terrorismo, ricordare una sofferenza porta a soffrire di nuovo. Ecco allora che, accanto al tema della memoria, si profila quello del perdono, in quanto «il perdono è terapeutico, perché permette di distanziarci da ciò che ci fa male, ci corrode, occupa nocivamente le nostre veglie e i nostri sonni».

Riprendendo l’immagine dei «sampietrini della memoria», o pietre di inciampo poste in memoria delle vittime del nazismo, Aramburu ribadisce quindi l’importanza della memoria storica come occasione per una possibile riparazione, per sviluppare affetto e solidarietà e quindi per non dimenticare il dolore degli altri:

La cosiddetta memoria storica dovrebbe servirci a qualcosa di più che a regolare i conti, a ravvivare rancori o a cercare di cambiare a piacimento il segno dei vecchi tempi. Risulterebbe vantaggiosa per la società se servisse a fare di ciascuno di noi, o almeno di molti, persone migliori. Non so, più serene, più sensibili, meglio educate. Io, in ogni caso, ho preso l’abitudine di non passare sui sampietrini della memoria senza soffermarmi a leggerli per un istante.

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