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Do you read? – Su Daniele Del Giudice
Parola e silenzio
La precisione e l’eleganza, le qualità più ammirate della scrittura di Daniele Del Giudice, sono funzione del suo rapporto con il mondo e la storia, il riflesso del suo personale incontro con le cose, materia o luce che fossero (saranno luce, infine, dice in Atlante Occidentale).
È difficile separare la riflessione sul suo modo inimitabile di essere scrittore dal suo modo singolare di essere persona, ricordandolo in questi giorni, appena dopo la sua scomparsa definitiva – poiché al di fuori del ricovero alla Giudecca, sul lato della laguna che volge al mare, Daniele era già scomparso da tempo.
C’era profondità nel suo sguardo, una chiara profondità, che gli consentiva di vedere o intuire la radice di ciò che incontrava, e c’era un rispetto per le cose e i fatti che lo spingeva, per così dire, a rifletterci sopra mentre ancora ci stava dentro. Un distacco senza distacco. Frasi e parole hanno quella precisione perché le aveva pensate, cercate fin da subito, e hanno quell’eleganza perché sono il frutto della sua attenzione, del filtro (auto)selettivo che le vaglia, spesso le rarefà – i suoi testi sono brevi, distanziati negli anni – a volte preferendo il silenzio.
Flashback
Una grande splendente luna piena sale dietro il palco dell’Arena, oltre le mura antiche, sopra Keith Jarret che sta attaccando Everything I Love, o forse è It’s Easy to Remember. Qualcosa di struggente e delizioso, comunque. È un’estate degli anni Novanta. Uno di noi indica la luna dicendo “Sorge come un’alba”. Anche Daniele la guarda, assorto e sereno, una combinazione possibile forse solo di fronte a spettacoli simili, in cielo e sul palco. Poi sorride. “Meravigliosa” dice, “Però siamo noi che ruotiamo, non lei che sorge”. Poche parole esatte, felici del regalo della sera e precise nel descriverlo.
La Fenice brucia, in un’altra notte degli anni ’90, ma d’inverno. Siamo ancora in pochissimi di fronte al rogo appena divampato. Siamo stati avvertiti subito, Cacciari ed io, e da Ca’ Farsetti, sede del Comune, siamo giunti di corsa, senza fiato, angosciati, in pochi minuti a campo San Fantin. Anche Daniele arriva quasi subito, abita vicino, ha sentito qualcosa, ha intuito. Non dice una parola per ore. Guarda il teatro che crolla, le fiamme che lo bruciano e si riflettono nei suoi occhiali. Ora siamo in tanti, che parlano, ipotizzano, inveiscono, piangono addolorati, mentre si abbozzano piani di ricostruzione, dichiarazioni per esorcizzare e per rimuovere, con le prossime macerie, il mistero di quel rogo – un mistero infine banale, miserabile. Daniele tace, il suo silenzio è un vero silenzio, di fronte a qualcosa da interrogare, e come nel racconto interrotto
Messaggio
e perfettamente concluso, della sua raccolta migliore – il miglior racconto italiano degli ultimi decenni (Unreported inbound Palermo in Staccando l’ombra da terra, ndr) – ciò che sembra significare a quella città dentro le fiamme, ciò che ancora sembra significarci il suo silenzio, è sempre quella domanda, quel messaggio ripetuto: “…do you read?…”. Do you read?
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