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diretto da Romano Luperini

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Un romanzo corale per affrontare le lacerazioni del passato: Patria di Fernando Aramburu

 L’immagine di copertina di Patria che Guanda ha ripreso dall’edizione spagnola è allusiva dell’episodio generatore di tutto il romanzo: l’uccisione dell’imprenditore Taxto, marito di Bittori, per mano dei terroristi baschi in un giorno di pioggia battente. È lo stesso Aramburu a raccontare come ha scelto l’immagine come ha scelto l’immagine, seguendo un “istinto” che, come spiega, affonda le sue radici in un tragico fatto di cronaca del 2000 che aveva rimosso:

Curiosamente, de los tres elementos primordiales de la imagen (la lluvia, la silueta humana con posible boina y el paraguas rojo) no me fijé bien en el que seguramente tiene mayor peso simbólico, el paraguas. En mi novela llueve con frecuencia y, en un momento determinado de la narración, un hombre recorre bajo la lluvia el último trecho de su vida. Que el paraguas de la fotografía sea rojo pudiera parecer un elemento exótico. Esta impresión es, con todo, errónea, como tantas otras en las que incurriremos a buen seguro si juzgamos desde tópicos y prejuicios la realidad social vasca de las últimas tres décadas.

Fue después de haber elegido la ilustración de la cubierta cuando recordé (y unas fotos de prensa me lo confirmaron) que el paraguas que llevaba el periodista José Luis López de Lacalle el día en que ETA lo asesinó en Andoáin era de color rojo.[i]

 

Senza titolo

Il romanzo – magistralmente tradotto da Bruno Arpaia ed insignito del premio Strega Europeo – tiene avvinto il lettore fin dalla “prima mossa”, ossia l’incipit:

Tacchi sul parquet

Eccola lì, la poverina. Va a infrangersi su di lui. Come s’infrange un’onda sugli scogli. Un po’ di schiuma e ciao. Non vede che non si prende nemmeno la briga di aprirle la portiera? Sottomessa, più che sottomessa.

E quelle scarpe con i tacchi e quelle labbra rosse a quarantacinque anni? Con la tua classe, figlia mia, con la tua posizione e i tuoi studi, cos’è che ti comportare come un’adolescente? Se l’aita fosse vivo…

Al momento di salire in macchina, Nerea rivolse lo sguardo alla finestra; immaginò che, dietro la tenda, sua madre stesse come al solito osservando. E sì, anche se lei dalla strada non poteva vederla, Bittori la stava guardando con tristezza e con le sopracciglia aggrottate, e parlava da sola e sussurrò eccola lì, la poverina, solo un ornamento di quel vanitoso a cui non è mai passato per la testa di far felice qualcuno. […]

Subito dopo, oltre i tetti, oltre l’isola e la linea blu dell’orizzonte, e oltre le nuvole remote e ancora più in là, nel passato perduto per sempre, cercò scene del matrimonio della figlia. E la vide di nuovo nella cattedrale del Buon Pastore, vestita di bianco, con il suo mazzo di fiori e la sua eccessiva felicità, e all’epoca guardandola all’uscita, così slanciata, così sorridente, così bella, l’aveva colta un brutto presentimento. La sera, quando era tornata da sola a casa, era stata lì per sedersi davanti alla foto del Taxto e confessargli i suoi timori; ma aveva mal di testa e poi il Taxto, nelle questioni di famiglia, tanto più trattandosi della figlia, aveva l’abitudine di diventare sentimentale. Aveva la lacrima facile, quell’uomo, e anche se le foto non piangono, insomma, ci siamo capiti. (F. Aramburu, Patria, Milano, Guanda, 2017, p. 7)

C’è, in questo avvio, tutto un mondo narrativo e stilistico che promette di dispiegarsi nelle seicento pagine successive, suddivise in 125 brevi capitoli titolati. Il lettore sente di immergersi in un “mondo possibile”, fittizio ma verosimile grazie alla mediazione di un narratore onnisciente che fa a zig-zag tra gli accadimenti e i pensieri dei suoi personaggi, al trattamento non lineare del tempo e, infine, all’abilissima costruzione degli homines ficti che popolano queste pagine. Infatti non solo in poche righe fanno la loro comparsa più personaggi legati tra loro, ma si penetra ex abrupto nei pensieri di Bittori, coprotagonista di un romanzo corale ambientato a San Sebastián – nei paesi baschi –  in un arco di tempo che va dagli anni Settanta-Ottanta a oggi. Ci sono, insomma, tanto un’affabulazione che invita alla sospensione dell’incredulità quanto un preciso imprimatur stilistico: il costante ricorso all’indiretto libero che consente al lettore di entrare e ad uscire dalla testa dei personaggi.

A queste due caratteristiche se ne aggiunge subito una terza, anch’essa ricorrente e caratterizzante: l’andirivieni temporale nella vicenda è costitutivo e i numerosi flashback mirano a far conoscere, ripercorrere, ricostruire le vite dei molti personaggi che lo rendono ricco di sfumature psicologiche, di evoluzioni interiori, di temi e motivi.

L’universo finzionale di Patria

Patria, come molti dei libri della grande tradizione del romanzo occidentale, è al contempo family saga, romanzo storico, Bildungsroman, romanzo di analisi; l’autore attinge nelle sue pagine alle lezioni del Realismo e del Modernismo, recuperando modelli letterari tradizionali e riposizionandoli entro il sensorio e l’immaginario della contemporaneità.

Al centro della vicenda è la saga di due famiglie unite da una salda amicizia: Bittori e Taxto, grazie alla piccola ma solida impresa dell’uomo, conducono una vita agiata con i due figli Nerea e Xabier; Miren e Joxian, invece, tirano avanti con i tre figli – Joxe Mari, Arantaxa e Gorka – contando sul solo stipendio da operaio di Joxian e sui prodotti dell’orto che l’uomo coltiva in un piccolo appezzamento di terreno che è anche una sorta di rifugio.  Nonostante la differenza di ceto sociale, Taxto e Joxian condividono il tempo libero tra giri in bicicletta sulle colline e serate all’osteria, mentre Bittori e Miren si concedono chiassose colazioni nella pasticceria del paese.

Sono le donne le protagoniste di un romanzo in cui ciascun personaggio – a suo tempo e a suo modo – vede narrata la sua vicenda esistenziale in un potente affresco in cui tutte le fila vengono saldamente rette dal narratore. Bittori e Miren, con l’indimenticabile Arantxa, campeggiano in una storia in cui gli anni dell’amarezza, della lacerazione, del sospetto sono più lunghi e più incisivi di quelli del sodalizio, della relazione amicale. A dividere le due famiglie è l’idea di “patria” che si fa strada nel primogenito di Miren: è Joxe Mari, infatti, a imboccare, anche a causa dell’indottrinamento del parroco Don Serapio, la strada del terrorismo basco in nome di un nazionalismo che diviene sempre più intransigente e intollerante.

L’uccisione di Taxto, che si rifiuta di pagare la “tassa rivoluzionaria” di finanziamento all’ETA, il sospetto che Joxe Mari ne sia stato il responsabile, la lunga latitanza di quest’ultimo fino alla sua incarcerazione e infine, molla narrativa che fa scattare l’avvio del romanzo, il recente abbandono della lotta armata da parte dei terroristi, getta uno iato non solo tra le due famiglie, piegate dall’odio, dall’isolamento, da un rancore che si protrae per “anni lenti”, ma in tutta la comunità di San Sebastián:

Nell’aria aleggiava un odore di alghe e umidità marina. Non faceva neanche un pizzico di freddo, non c’era vento e il cielo era terso. […]

«Bittori, Bittori.»

Quella voce risuonava troppo vicina per continuare a fingere di non averla sentita.

«Lo hai saputo? Dicono che smettono, che non faranno più attentati.»

Bittori non potè fare a meno di ricordare i giorni in cui quella stessa vicina evitava di incontrarla sulle scale o aspettava all’angolo della strada, infradiciandosi sotto la pioggia, con la borsa della spesa tra i piedi, per non incrociarla sul portone. […]

«Mi fa piacere soprattutto per quelli come voi che hanno sofferto tanto. Che tutto questo finalmente finisca e che vi lascino in pace.» […]

Bittori. Che c’è? Stai cadendo nel rancore e ti ho detto molte volte che. D’accordo, lasciami in pace. […] (F. Aramburu, Patria, cit., pp. 14-16)

La rappresentazione del trauma storico, molla della narrazione

È dunque il trauma storico a innescare il meccanismo narrativo in Aramburu, sia in Patria (2016) sia in Anni lenti (2012), che di quello è l’antecedente e l’embrione e che mostra una forma ibrida tra confessione testimoniale e laboratorio dello scrittore: in tal modo anche la scrittura di Aramburu si pone nel solco dei «Trauma Studies, strumenti con cui la nostra cultura interpreta se stessa alla luce dell’accadere storico e cerca di dar forma all’esperienza individuale e collettiva» (F. Bertoni). In Patria l’autore, che vive in Germania dall’85 e che proprio grazie al distacco fisico dai paesi baschi ha forse potuto elaborare le ferite della sua terra, ha usato un “fatto vero” – la cessazione del terrorismo basco – come scheletro su cui inventare di sana pianta una storia: la vicenda di due famiglie che devono fare i conti con il tramonto di un’epoca lancinante, foriera di livori interminabili. Dunque non una storia vera, ma verosimile; non una storia “finta”, ma di finzione.

Patria è un romanzo che condanna le derive violente dei terroristi, nutrite di un idealismo assoluto e perciò insensato, ma denuncia anche i soprusi della polizia che quei terroristi ha incarcerato e torturato; è un’opera che racconta il dolore che quella fase storica ha seminato, un dolore pervasivo, lacerante che ha provocato crepe nel tessuto sociale di un’intera comunità. Racconta con coraggio il ruolo che il clero basco ha avuto nell’alimentare l’indottrinamento per il mito “Euskadi ta Azkatasuna, «paese basco e libertà»”: don Victoriano e don Serapio, rispettivamente in Anni lenti e in Patria sono acriticamente votati alla causa basca. In un’intervista rilasciata a Repubblica Aramburu ha chiarito la natura “non politica” della sua opera letteraria:  

In un’intervista devo dire da che parte sto, però Patria non è un romanzo a tesi sulla società basca né tantomeno sul terrorismo. Mi interessano la gente, gli individui, i legami. Non volevo che i miei personaggi incarnassero delle astrazioni, che fossero dei recipienti di idee o concetti. A tutti volevo conferire spessore umano, complessità, sfumature. Anche a quelli che nella vita mi sarebbero stati più distanti.

È così che i frutti amari e duraturi del terrore basco riemergono dalla memoria per rivivere nelle sue germinazioni letterarie, per protrarsi nella vita dei personaggi: nel duro regime carcerario subìto da Joxe Mari, nell’incancrenita solitudine di Xavier, nell’orgoglioso ritorno a casa di Bittori, nella rancorosa e ottusa difesa ad oltranza delle scelte sbagliate del figlio da parte di Miren, nelle coraggiose scelte “diverse” di Gorka, nella caparbia capacità di Arantaxa di riannodare le fila delle due amiche ormai anziane: è proprio questo personaggio sublime, con cui la vita è stata durissima, a capire per primo che trascorrere l’esistenza nell’odio non ha alcun senso.

[i] Curiosamente dei tre elementi principali dell’immagine (la pioggia, il profilo dell’uomo con un eventuale basco e l’ombrello rosso) non notai quello con maggior valore simbolico, l’ombrello. Nel mio romanzo piove spesso e, in un preciso momento della narrazione, un uomo percorre sotto la pioggia gli ultimi istanti della sua vita. Che l’ombrello della foto sia rosso sarebbe potuto sembrare un elemento esotico. Questa impressione è, tuttavia, erronea, come tante altre nelle quali potremmo certamente incorrere se giudicassimo la realtà sociale basca degli ultimi tre decenni sulla base dei luoghi comuni e dei pregiudizi.

Fu solo dopo aver scelto l’illustrazione della copertina che ricordai (e delle foto della stampa me lo confermarono) che l’ombrello, che portava con sé il giornalista José Luis López de Lacalle il giorno in cui ETA lo assassinò, era di colore rosso.

(Traduzione a cura delle studentesse di indirizzo linguistico della 5L del Liceo “Galilei” di Selvazzano Dentro (PD) guidate dalla Prof.ssa Giovanna D’Ambrosio che ringrazio)

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