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Papaveri e Paper

C’era una volta il saggio. Negli scambi di mail fra gli studenti e i docenti, sui sillabi e sulle piattaforme universitarie, nei gruppi WhatsApp e sui social da qualche anno è tutto un ridondare di papers: il prof. chiede un paper, i dottorandi alla fine del primo anno devono consegnare un paper, verrà valutato per l’approfondimento un paper, il paper non dovrà superare i 6000 caratteri spazi inclusi, il paper dovrà esser corredato da un abstrat e da una bibliografia. Ci si fa abitare, passivamente, dal nuovo termine, della cui oggettiva neutralità non si dubita dato che il senso comune considera in modo unanime ogni innovazione di per sé come un miglioramento, un adeguamento funzionale: il paper è figlio del 3+2, la madre di tutte le semplificazioni funzionali, e sta al saggio come le tesine triennali stanno alla “vecchia” tesi di laurea.  Pronunciando la parola lo studente si sente europeo, dato che chi è stato in Erasmus, ha udito anche lì pronunciare quel termine. E, girovagando in internet, trova molti rassicuranti tutorial che gli spiegano come fare un paper, simili a quelli che danno le dritte su come redigere un CV per le aziende. I più sofisticati fra i laureandi e i dottorandi scoprono da soli l’intima analogia tra la forma del paper di successo e quella di un progetto (per il dottorato, per una borsa europea, per un’istituzione culturale) redatto in buon “progettese” standard, con tanto di stato dell’arte, obiettivi, metodi e risultati attesi.

L’eclisse del termine saggio, del resto, è già avvenuta da tre decenni sugli scaffali delle librerie: l’editoria non pubblica quasi più saggi, a meno che non siano finanziati dai fondi di ricerca o destinati al pubblico ristretto e al circuito chiuso delle adozioni. Nemmeno la valutazione (VQR) ha troppo in simpatia i saggi intesi come volumi: meglio gli articoli su rivista specializzata di fascia A, che per la pubblicazione lancia a sua volta un apposito Call for Paper a cui si risponde con un abstrac in inglese. Si tratta della fine del genere saggio nel sistema universitario, ben messa in luce, a esempio,  da Federico Bertoni che ha argomentato l’incompatibilità  della forma saggistica stessa entro gli standard degli abstract e dei papers oggi in vigore,  intesi come pseudo-dimostrazioni di  calcoli aritmetici o di teoremi matematici: “E ti dici che in questo mondo uno come Lukács è ormai un marziano, quando descriveva la forma del saggio come un percorso di esplorazione e di scoperta, una tensione verso una meta non ricercata, perché “il saggio tende alla verità, esattamente, ma come Saul, il quale era partito per cercare le asine di suo padre e trovò un regno.” (Federico Bertoni Universitaly. La cultura in scatola, Roma-Bari, Laterza, 2014, p. 7)

Verificare le parole dominanti significa appunto saggiarne le radici ideologiche: è un’operazione saggistica, di misurazione non neutrale. Lo sapeva bene Galileo Galilei quando per polemizzare con i gesuiti scrisse Il Saggiatore. La mutazione terminologica è fra le meno innocenti. Il padre fondatore della forma-saggio, del resto, è Montaigne che nel tardo Cinquecento per difendersi dal teatro del mondo, inventò una scrittura con cui fare socraticamente del proprio a-specialismo il suo punto di partenza e di arrivo. Swift, con la Modesta proposta per evitare che i figli degli Irlandesi poveri siano un peso per i loro genitori o per il Paese, e per renderli un beneficio per la comunità (1729), portò alle estreme conseguenze la doppia natura della forma-saggio al suo stato nascente lasciando il lettore nell’incertezza sull’intento serio o satirico del testo. E’ nel Settecento  borghese infatti che la forma saggio dispiega le sue potenzialità: il secolo “imprenditoriale” che con la nascita del giornalismo e di un’ “opinione pubblica”,  ha favorito il genere saggistico con la sua duttile ironia. Verrebbe da chiedersi: se nelle scritture “borghesi” di Defoe, Swift, Sterne, Diderot, Rousseau e Voltaire il saggismo settecentesco mette in forma concretezza e libertà mentale,  mescolando spirito scientifico e punto di vista soggettivo, perché le odierne università e le scuole, ossessivamente votate ad assumere il linguaggio delle aziende, preferiscono al saggismo, anche il più addomesticato, le  forme discorsive standardizzate e piatte del  paper?

Probabilmente, per un bisogno sempre più acuto di rimozione strumentale e di funzionale banalizzazione: fra il secolo dei Lumi e noi c’è infatti di mezzo il Novecento critico e problematico, con il suo ambiguo bisogno di verità e il suo scomodo “assalto al cielo”. Il giovane Lukács in una lettera a Leo Popper in L’anima e le forme definisce il saggista come colui “che ha bisogno della forma solo come esperienza, come vita vivente”. In Thomas Mann, in Robert Musil e in Alfred Döblin, il discorso saggistico s’incorpora nella struttura stessa della finzione letteraria. Due fra i più grandi scrittori del modernismo, Proust e Kafka, dissolvono il romanzo nella memoria saggistico-autobiografica o nell’apologo aforistico e allegorico. In Italia, una figura estrema di saggista segna l’inizio del nostro Novecento: Carlo Michelstaedter che con La persuasione e la rettorica brucia se stesso nella rivelazione abbagliante del meccanismo totalitario che amministra le esistenze.

Se la forma del paper scaccia dalla coscienza degli studenti la pratica  del saggio (l’idea, cioè, che mettersi a scrivere possa avere qualcosa a che fare, sia pure alla lontana, con l’esperienza critica, agonistica e conoscitiva delle scritture di Adorno, di Lukács, di Sartre, di Gramsci, di Fortini)  ci si potrebbe infine  chiedere in favore di quali papaveri operi il sistema del paper, lasciandoci del tutto impaperati davanti alla questione del senso delle opere e delle vite, alle urgenze planetarie e ai destini generali. Credo si vada abbastanza vicini alla verità suggerendo che si tratta della governance, il management totalitario in grado di esercitare, con la sua vanità semantica, un soft power autocentrato e stupidamente invasivo (cfr. A. Deneault, Governance. Il management totalitario, Vicenza, Neri Pozza, 2018).

Persino Papaveri e papere, la canzone di Nilla Pizzi del 1952 a San Remo, sembra tanto più saggia della logica strumentale della nostra governance: “poi venne la falce che il grano tagliò /E un colpo di vento i papaveri in alto portò.”

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