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E se la facessimo finita con gli eventi?

Il linguaggio non è neutro né innocente: è sempre saturo di ideologia. Le parole egemoni veicolano la visione del mondo dominante in modo tanto più pervasivo quanto meno riconosciuto dai parlanti. Per questo si può dire che siamo tanto più “parlati” dalle forme del dominio quanto più queste ultime si danno linguisticamente come naturali. Tutti noi usiamo supinamente termini come governance, webinar, implementare, spalmare, risorsa, competenze, eccellenza, merito, spendibilità. Ogni volta che li impieghiamo si accende nella nostra mente una spia rossa, sempre più debole, con cui dovremmo viceversa illuminare di più il nostro dizionario e i nostri archivi.

Soprattutto chi insegna dovrebbe operare una costante verifica delle parole, specie di quelle più pervasive o “virali” (sic).

Fra questi moltissimi termini-concetti finto-neutrali vi è anche il lemma eventi, percepito per lo più come allusione all’ambito del creativo e del conviviale. A titolo di esempio, prendiamo una sola frase del tutto condivisa dal senso comune:

“Speriamo che presto tornino possibili tutti gli eventi sospesi per la pandemia: concerti, mostre, festival letterari, teatri, cinema”.

Qualche anno fa uno degli organizzatori più intelligenti del Festival di Mantova mi diceva che stava cercando di arginare la passiva moltiplicazione del termine evento sulle locandine del festival a proposito degli incontri con gli autori, a favore di concetti più vicini a un’idea di sedimentazione dell’esperienza e meno implicati con i consumi culturali. Credo fosse, da parte sua, un chiaro segno di consapevolezza politico-culturale, non un eccesso “purista” o cruscante.

Si tratta in sostanza di opporre profondità e memoria a superficie e immediatezza. E, del resto, a far luce sul concetto ci aiuta la fisica, disciplina per la quale con evento si intende un punto nello spazio-tempo. Sulla non oggettività del termine ci aiuta invece l’economia aziendale: e in specie il comparto dell’organizzazione degli eventi, divenuto nel nuovo millennio una delle leve strategiche della comunicazione integrata. Sia che si tratti di una grande cerimonia sportiva che di una piccola colazione di lavoro, il comparto gestisce l’estensione della logica della società dello spettacolo (Debord) a ogni brand, istituzione, associazione al fine di creare “visibilità” e “emozione”. Nel mondo dell’azienda (che da vent’anni sembra essere diventato il mondo intero) l’organizzazione di eventi, infine, è promossa anche dall’ambito delle risorse umane, perché considerata uno strumento motivazionale che migliora le performance di uno staff.

All’evento culturale inteso come momento strategico di organizzazione del marketing è connessa insomma una piccola, agguerrita,  galassia terminologica in grado a sua volta  di colonizzare il discorso della vita quotidiana e il nostro l’ambito  specifico dell’insegnamento, dell’educazione e della formazione e di abitare il nostro stesso linguaggio, con la protervia  arrogante e seducente che contrassegna chi salta sul carro dei vincitori: i concept, la location, la logistica, il target e il budget.

Nel fare una lezione, organizzare un incontro con un autore, o una discussione su un libro, o nel portare gli studenti a teatro o al cinema, è necessario guardare viceversa alla questione in termini di lunga durata. L’espressione longue durée è dello storico Fernand Braudel e nasce in ambito storiografico per indicare un concetto che si oppone radicalmente a quello di evento.[1] Quest’ultimo, per gli storici delle “Annales”, è il tempo della breve durata, della storia evenemenziale fatta di oscillazioni rapide e instabili. La lunga durata, invece, è il tempo delle permanenze, dei ritmi lenti, delle grandi cesure e dei movimenti di ampio respiro. Riportiamo questo tempo, lento e profondo, al centro dell’esperienza dopo la pandemia: per un’ecologia della mente capace di guardare alle sfide che ci stanno di fronte. Basta, insomma, con la narcisistica celebrazione dell’effimero e della superficialità degli eventi.

[1] Fernand Braudel, Histoire et Sciences sociales: La longue durée, «Annales. Economies, sociétés, civilisations», 4, 1958, p. 750.

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