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diretto da Romano Luperini

«Donne fragili e vaporose, fate dalle mani dolci, aliti leggiadri della casa che in silenzio fanno nascere l’ordine e la bellezza, donne senza voce, sottomesse: nel paesaggio della mia infanzia, per quanto mi sforzi, non riesco a vederne molte di donne così».

È così che ha inizio il quarto romanzo di Annie Ernaux, La donna gelata, uscito in Francia nel 1981 e oggi, nel 2021, in Italia per L’Orma Editore, nella traduzione di Lorenzo Flabbi. Ancora una volta è partendo dalla propria memoria soggettiva, di figlia di una famiglia appartenente alla classe lavoratrice di un piccolo centro della Normandia, che la scrittrice offre ai lettori pezzi di memoria collettiva. Le prime immagini che affiorano alla superficie della memoria individuale della scrittrice sono figure femminili della famiglia, donne dell’infanzia di Ernaux, capaci di parlare soltanto a voce alta, con corpi trascurati e volti senza trucco o, al contrario, truccati in modo eccessivo, donne che in cucina non si spingono oltre il coniglio in umido e sono abituate a sgobbare con gli uomini.

In antitesi con questo mondo e con queste immagini di forza femminile e di autodeterminazione si pongono le altre donne, le madri delle sue compagne di scuola, gli angeli del focolare che spadellano in cucina con il grembiule, o che nei giorni di festa invadono la casa con il profumo dei dolci.

Tra tutte queste immagini femminili si colloca lei, la “donna gelata”, con il suo apprendistato al patriarcato e all’insoddisfazione.

Ormai adulta e salva, Annie Ernaux racconta in prima persona le tappe di un percorso che ha inizio nell’infanzia di una bambina felice e prosegue nell’adolescenza, quando avverte le prime contraddizioni tra l’estrazione sociale della sua famiglia di semplici “bottegai” in cui è cresciuta, e quella borghese delle compagne del liceo. Sarà la volta, poi, degli anni intrepidi di una studentessa universitaria fuori sede, e infine di una giovane donna che, pur sentendosi emancipata e desiderando la libertà e l’indipendenza, andrà a sbattere contro le norme imposte al genere cui appartiene, e quindi si sposerà, avrà due figli e diventerà una “donna gelata” espropriata delle proprie aspirazioni e dunque di se stessa.

Ma come è possibile che proprio lei, cresciuta tra donne forti e in una famiglia in cui la divisione dei ruoli non ha nulla di tradizionale o in cui gli stereotipi maschile e femminile sembrano lontani, giunga impreparata e si senta inadeguata ad affrontare i limiti imposti dall’esterno e dalla società? Se guardiamo al modello familiare che ha influenzato l’infanzia di Ernaux incontriamo infatti due genitori che condividono le competenze. Un padre che lava i piatti, cucina, taglia le verdure, che si preoccupa se la bambina si sbuccia un ginocchio o che passa ore al suo capezzale leggendole Piccole donne. Una presenza costante e rassicurante «che mi insegna a infilarmi il cappotto tenendo le maniche del maglione strette nel pugno per evitare che mi si arrotolino fino alle spalle», e che non ha niente a che fare, prosegue Ernaux, con «capifamiglia distaccati e solenni, la cui parola è legge, irascibili tiranni domestici, eroi di guerra o del lavoro: io sono la figlia di quell’uomo là. E di Edipo non so che farmene. Veneravo anche lei»

Lei, la madre: figura centrale nella sua esistenza, alla quale, del resto, la scrittrice ci ha già abituati dedicandole Una donna. Ed è sempre lei che si occupa della gestione dell’emporio e della contabilità, che discute con i fornitori o con i clienti del negozio. Una donna che è «forza e tempesta», ma capace anche di incarnare la bellezza e la curiosità per il mondo. Sarà lei a incoraggiare la figlia a non avere paura di niente e di nessuno, e le farà da apripista sulla strada verso il futuro. Nella madre non c’è soltanto l’ambizione della proiezione nella realizzazione della figlia, c’è anche la curiosità individuale di donna: «Attraverso di lei sapevo che la vita è fatta per tuffarcisi dentro, per godersela, e che nulla avrebbe potuto impedircelo».

E poco importa alla giovane Annie se in casa le faccende domestiche sono fatte a “singhiozzo”, senza preoccuparsi per la “polvere”, perché per la madre la polvere «non esiste o, meglio, è qualcosa di naturale, che non la disturba». Sarà tra i dodici e i quattordici anni, durante l’adolescenza, che la figlia imparerà, con stupore, che questa polvere che prima nemmeno vedeva è qualcosa di brutto e sporco. A farle prendere coscienza di questa mancanza della mamma è Brigitte, l’amica e “sacerdotessa” dell’iniziazione di Annie Ernaux. Ed è particolarmente significativo che proprio lei, la prima confidente della protagonista, quella che sembra saperne sempre un po’ di più su tutto e che appare più anticonformista, rappresenti in fin dei conti un modello di emancipazione ingannevole, perché parte integrante di quell’illusione che è il patriarcato e che la porterà a realizzarsi nel matrimonio: «è con lei che il matrimonio ha cominciato ad apparirmi come qualcosa di sacro, obbligatorio […] anche se parlavamo della nostra sessualità, non credevamo di poterla vivere davvero fino in fondo». Come a dirci che tutto il desiderio di conoscere e di esplorare è stato solo un momento, un gioco di adolescenti, perché in fondo l’unica vera realizzazione la donna può trovarla nel matrimonio.

Pur riconoscendo la forza del suo modello famigliare e soprattutto materno, Annie Ernaux non potrà fare a meno di essere travolta dal bisogno di accettazione dello sguardo della società e dovrà prendere coscienza che la possibilità della libertà viene annullata dai condizionamenti sociali, e a nulla serve essere cresciuti secondo un modello anomalo e senza rispetto per i ruoli tradizionali. Confrontandosi con la “normalità” della casa di Brigitte e con la realtà delle compagne di scuola, dove «i padri padroni sono i più gettonati», la giovane Annie comincia a credere che in lei «ci sia “qualcosa fuori posto”» ed è in quel momento che decide di adeguarsi all’idea di perfezione che la porterà a tradire se stessa e il proprio mondo. Paradossalmente è come se emancipandosi socialmente, frequentando queste compagne appartenenti ad una classe sociale più alta rispetto alla sua famiglia di provenienza, andando a scuola e al liceo, rimanesse schiacciata come donna.

Lei è la prima della sua famiglia a studiare, e ciò le consente di emanciparsi, ma allo stesso tempo, frequentando compagne con modelli di riferimento femminili diversi, assumerà una prospettiva che in qualche modo tradisce la sua appartenenza di classe e assumerà il punto di vista della donna e della famiglia borghese: all’emancipazione dalla classe sociale non corrisponde quella dalla condizione di donna soggetta al patriarcato.

Ed ecco allora la decisione di sposarsi. Pur maturata con distacco («Noi faremo tutto un po’ alla chetichella […] Ma, che sia chiaro, noi non ci crediamo mica a questa commedia, e ci divertiremo un mondo, per renderla sopportabile»), e con un uomo che riteneva fosse simile a lei, con cui condivide le stesse idee e sente come compagno e alleato, dovrà presto prendere coscienza che quella differenza di genere c’è, esiste, e non è facilmente superabile: sono entrambi nella stessa stanza, vicini e uniti, lei sta studiando quando il suono della pentola a pressione richiama alla realtà, ed è lei che si alza: «Eccola cominciata, la differenza». Che si farà ancora più evidente quando diventerà madre e lui comincerà a ritenere poco dignitoso darle il cambio all’ora della pappa, così che le giornate diventeranno per lei una ripetizione all’infinito di gesti dispensati tra faccende domestiche e pappe da preparare, anni in cui tutta la libertà della sua vita «si è concentrata in quei momenti di tensione appesi al riposino pomeridiano di un bambino».

Eppure quella solitudine e quella lenta perdita di identità hanno continuato a convivere con la necessità di essere perfetta come moglie, come madre e come professoressa, fino a mortificare il suo desiderio, uccidere il suo slancio vitale e le sue emozioni, e portarla a compiere il definitivo tradimento verso se stessa che la renderà una donna gelata.

Anche se il percorso che viene narrato assume tutte le caratteristiche di una dolorosa presa di coscienza individuale, ne La donna gelata Annie Ernaux trasforma ancora una volta la propria vita in uno strumento di indagine sociale ed esistenziale facendo dell’autobiografia un messaggio universale. Senza retorica e con una scrittura tagliente in cui le emozioni, che pure dominano la narrazione, si manifestano come prodotto di un lavoro della coscienza, racconta una condizione che non è soltanto autobiografica, ma di un’epoca, di una generazione, di una società. E forse vuole parlarci di qualcosa che ancora oggi può risultare attuale. Sebbene anche questo, come tutti i libri di Ernaux, abbia una forte base nell’osservazione sociale, e molti siano i riferimenti che ci immergono nel clima culturale degli anni Sessanta e Settanta francesi, citando Sartre, Camus, e soprattutto Il secondo sesso di de Beauvoir, Ernaux non intende ancorare questo percorso soltanto a quell’epoca, ma offrirci un messaggio di più ampio respiro,

È affidandoci allo sguardo degli altri che crollano tutte le resistenze e si diventa ragazze “svuotate di sé”, le donne gelate del titolo. Ma almeno una ragazza si è salvata, ed è lei: Annie Ernaux. E si è salvata anche attraverso la sua scrittura, una scrittura che nasce dal risentimento per avere tradito se stessa, la propria generazione (lei che dichiara di non avere nemmeno vissuto il ’68 perché troppo occupata a fare la madre e la moglie), il proprio tempo, e il suo mondo di appartenenza. E se questo tradimento c’è stato non vuole nasconderlo: se c’è una possibilità di salvezza è solo nella memoria. Non è un caso che un altro romanzo di Ernaux, Il posto, si apra in esergo con questa citazione di Jean Genet: «scrivere è l’ultima risorsa quando abbiamo tradito», di chi, è passato, potremmo dire in questo caso, dalla classe dei dominati a quella dei dominanti.

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