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diretto da Romano Luperini

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Geometrie tascabili e cosmiche. Su Somiglianze di famiglia di Matteo Pelliti

 Una poesia piena di cose e persone

Mi sembra che Matteo Pelliti sia annoverabile fra i poeti che credono fermamente nell’esistenza del mondo: mondo che il linguaggio non potrà mai dissolvere, né l’interiorità divorare; alberi case colli non sono uno schermo ingannevole oltre il quale, in rari momenti di verità, balugini il nulla.

Su questo mondo che gli preesiste e che, nel bene e nel male, lo accoglie, Pelliti posa il proprio sguardo, allo stesso tempo simpatetico e analitico. La sua poesia può essere avvicinata a quella dell’(amato) Valerio Magrelli, cui aggiungerei forse quella di Valentino Zeichen: ma l’intelligenza che antiliricamente distingue, ordina, riconnette, il lucido acume, sono sempre accompagnati da fermezza etica e gentile pudore.

Di raccolta in raccolta, scopriamo una poesia curiosa e ricettiva, «piena di cose […] di visi, di corpi e di parole» (Fabio Pusterla): «sellini, catene e pedivelle», cambi Shimano, «fèmori, pèroni, òmeri», «designatori rigidi» (termine tecnico della filosofia del linguaggio), nervi infiammati, pendolari anziani, i quadri di Mario Sironi, l’11 settembre, Sanguineti e Sabrina Salerno (nella stessa poesia), la moglie Giulia e i figli Sara e Pietro, le biro, i dagherrotipi, i Kalašnikov, i calepini, il Tempo, la poesia (nei frequenti componimenti metapoetici), risonanze magnetiche e le vertebre L5-S1, il suonatore afghano Nazar Gul ucciso dai talebani, il caporalato nelle campagne meridionali, le bestemmie come bestiario, la zia Graziella e le sue ceneri, un madrigale dedicato a una porta, la felicità e il tremore di essere padre, farfalle adesive decorative per la camera della figlia, Celan, Szymborska, catasti e anagrafi, un petrarchesco Zefiro che «non torna» a causa dei vetri spessi e della porta blindata, Facebook, Verdone in Un sacco bello, l’«Universo», il «Cosmo» e il «Creatore», un giovane portuale morto sul lavoro, il cogito e l’ago magnetico, il Battistero di Pisa, il gatto nero, la prima auto del padre, il Tractatus Theologico-Politicus di Spinoza, le parole d’amore della moglie in un ritorno a casa a tarda notte, l’«uomo più vecchio del mondo».

Romanzo di famiglia

In questo mondano proliferare Pelliti mette ordine in due modi. La prima strategia è quella, oulipienne, del porsi un vincolo compositivo “esteriore”, per cui ogni raccolta si sviluppa intorno a un tema seminale, che funge da criterio generativo e di coerenza del materiale poetico; tema da intendersi, si badi, non solo in senso contenutistico, poiché ogni ricordo personale, ogni fait-divers raccolto per strada o al telegiornale, ogni privata associazione mentale, ogni derivazione o combinazione linguistica, valgono a ispirare una poesia: la bicicletta in Versi ciclabili (2007), i deonimici in Boicottando mongolfiere e ghigliottine (2013), la metafora della casa-corpo in Dal corpo abitato (2015), la ricerca della precisione classificatoria e definitoria in Dire il colore esatto (Sossella), fino all’ultima raccolta, Somiglianze di famiglia (Industria&Letteratura, 2021), in cui il vincolo è duplice, giacché l’espressione del titolo è da intendersi sia nel senso proprio di somiglianze tra familiari, sia nell’accezione gnoseologica di un famoso passo delle Ricerche filosofiche di Wittgenstein.

L’ultimo lavoro di Pelliti appartiene al genere delle storie familiari, ma si concentra sul dettaglio delle somiglianze fisionomiche, delle tare ereditarie, delle continuità e discontinuità tra le generazioni. La continuità sta nei nomi come nei corpi: tanto nella perfetta omonimia con un parente impegnato nella lotta al brigantaggio nel 1861 (Ero un soldato), quanto nel nostro essere «replicanti» degli avi, nel genoma e nel fenotipo, se è vero che capita di ritrovare nell’immagine del nonno la «stempiatura esatta» della propria fronte (Nella camicia bianca di Mario Agostino).

Ma non bisogna fraintendere questo recupero del passato attraverso il bianco e nero delle foto: non siamo di fronte a un percorso univoco di regressione nostalgica, quanto a una dialettica, per cui capita che sia il passato a risultare più nitido e tangibile del presente, il quale viceversa si disfa nell’evanescenza: la «lontananza», la «distanza», fanno degli avi degli «spettri evocabili»; ma, attraverso il nesso della «genealogia» e della «progenitura», noi stessi siamo ai loro occhi fantasmi possibili, evocati da un tempo anteriore, «prodotti ultimi e provvisori». «Dall’Oltremondo», «dall’Oltretempo», gli avi ci guardano a colori, mentre noi non possiamo che scorgerli in foto color seppia: notevole effetto di straniamento percettivo (Agli avi e Essi). Il poeta ricorda i colori del vestito che indossava, adolescente, alle nozze d’oro dei nonni, ma non alle nozze d’oro dei genitori, per un progressivo infragilirsi della memoria, che ha il proprio doppio nella progressiva precarizzazione dei rapporti, dal momento che, se festeggiare una vita insieme era per i nonni un «destino naturale», quindi un «traguardo» per i genitori, per la generazione del poeta diventa un «miraggio» (A volte bastavano i nomi).

Biologia e libero arbitrio

Il tema della genealogia e dell’ereditarietà porta con sé la riflessione sul rapporto tra caso e destino, necessità e libero arbitrio: siamo determinati dalla biologia degli avi, che si insinua come minaccia di «tara genetica» apotropaicamente chiamata dal poeta, «i saluti degli avi» – persino in un «programmato spermiogramma». Tuttavia abbiamo il compito di non trasferire queste tare ai discendenti (Il dovere della discontinuità). Ma ad essi, mentre cerchiamo di preservarli dai difetti di cui abbiamo coscienza, tramanderemo altri «tic», altri «pezzi genetici avariati»: il gioco di vincolo ereditario e libertà personale è eterno, anche se questo non ha nulla di tragico in Pelliti, che, anzi, insiste fiducioso soprattutto sulle promesse del futuro.

Su questo tema può esercitarsi il suo gusto per i felici paradossi filosofici: gli avi ci hanno determinato con la casualità delle loro vite, ci chiamano al mondo / col loro casuale intreccio / di matrimoni, partenze, stanzialità, siamo discendenti imprevedibili. Eppure ciascuno diventa precisamente quel che è – perché già lo era –, come se nella storia di ognuno operasse la forza di una antica entelechia. Ecco lo stupore del poeta nel riconoscere la figlia, proprio lei, a una settimana dalla nascita:

sei tu, atomo di atomi del possibile,

mentre cerco di vedere nei tuoi occhi

i futuri contingenti che saranno

la tua vita.

Ogni ora sei sempre più tu.

(Dopo una settimana)

Arie di famiglia

Ma reperire somiglianze, un’aria di famiglia, tra i fenomeni del mondo è anche, wittgensteinianamente, il procedimento della conoscenza tout court. Perciò la storia intima e familiare diventa «chiave di lettura del mondo che gradualmente si sposta dal particolare all’universale, perché la contingente situazione di uno specifico gruppo familiare si fa paradigma di ciò che può accadere, è accaduto e avverrà» (Alessandro Fo, nella Prefazione). Attraverso una quotidiana, metodica osservazione e l’annotazione puntuale, quasi diaristica, dei suoi risultati, Pelliti cristallizza in linguaggio infinite somiglianze, simmetrie, segreti ordini tra cose e parole, tra parole e parole, tra persone e mondo, tra persone e persone, tra le parti di quel tutto che è una persona, tra i differenti tempi della sua vita; lo fa orizzontalmente, tra fenomeni posti alla stessa scala, o verticalmente, tra fenomeni posti su scale diverse. La dialettica particolare-universale, microcosmo-macrocosmo, quotidiano-sublime è frequente in Pelliti: emblematica, in questo, la poesia Teologia tascabile.

Accennavo a due strategie, per dare ordine al proliferare del mondo: questa è la seconda. Una strategia gnoseologica, che è però anche un principio di tenuta etica, perché stabilire consonanze, armonie, familiarità, rende domestica e avvicinabile la realtà, nella cui asemantica continuità è necessario incidere porzioni di significato umano, piccole isole d’ordine discontinue.

Così la nascita della figlia il 15 aprile, in sé un giorno come un altro, avviene nel giorno in cui ogni mese / si dimezza, punto tennistico: il giro di boa metaforico che istituisce la specularità tra due metà identiche e il richiamo alla realtà rassicurante di un gioco sottraggono la data all’alea e la caricano di senso. La casualità di ogni data di nascita, d’altra parte, si rovescia nell’unicità e irripetibilità del compleanno: una numerologia personale, / cifra fortunata, antropomorfa, / familiare e identitaria (15 aprile 2008).

Ma è la nascita dei figli l’evento che, per eccellenza, stabilisce una discontinuità e rigenera la libertà umana, facendo ri-nascere anche i padri e le madri (Il primo pianto e Radiofaro). L’altro evento “discontinuo” nella trafila deterministica delle genealogie e delle filiazioni è l’atto di imporre il nome. Anche questo è un gesto che parrebbe arbitrario, ma che comporta, per chi se la assume, l’enorme responsabilità di una scommessa sulla coincidenza tra nome e persona: eredi di Adamo, il tuo nome proprio, / ora proprio nostro e poi / proprio tuo, unica nel molteplice. Il battesimo è ciò che individua, che sottrae «all’indistinto di specie»; rovescia la casualità in una necessità, se è vero che il nostro nome è tanto fuso con noi da essere la nostra stessa identità. Quel

nome che contornerà i tuoi occhi,

che nei tuoi occhi si specchierà come firma,

la firma che imparerai a tracciare

e nella quale scoprirai di rintracciarti,

e rintracciandoti nel nome rivedrai,

ancora e sempre, noi che lo scegliemmo.

(Battesimo primo)

Cabala laica

Dato il già rilevato carattere oulipien della poesia di Pelliti, non stupisce il suo amore per i giochi di parole, in particolare per le paronomasie e le parafrasi parodistiche (parodistiche, non comiche): «sutùra», che bisticcia con «saturare» (l’inconscio poetico, / scrivendo, fa i lapsus che vuole, / che sa: Sutùra); il feto che si prepara alla nascita prepara lo sgombero del monolocale, / senza bagagli, annuncia il «Parto»: / partire è un po’ partorire (Linguaggi prenatali). Il gioco di parole spesso diventa la matrice dell’immagine, a volte dell’intera poesia, ma è vero anche il contrario, per cui è il contenuto a generare gli slittamenti retorici, in una ricorsività tra forma del linguaggio e referenza che può produrre testi deliziosi come Incontri ravvicinati del fenotìpo:

In data 24 settembre corrente anno,

avvistate gambe, due, darsi slancio

fetale atleticissimo

in forma umana miniaturizzata:

cm 3,95 per testa-coda.

Astronauta in scala,

ombelicarmente legato

all’astronave-madre,

ti aspetto fiducioso

buon esito missione.

Tuo, base-padre.

Testo dall’apparenza scanzonata: testo, in realtà, capace di umanizzare l’immagine computerizzata di un’ecografia nell’abile gioco tra intimità ed estraneità, prossimità e lontananza, commozione paterna e scherzo lievemente autoironico; e sarà da osservare soprattutto la densità dell’analogia «astronave-madre», in cui la frase fatta di un romanzo o film di fantascienza – oggetto per noi quotidiano in cui è contenuto il nostro desiderio di alterità – si carica dell’intensità emotiva del legame ombelicale e trasforma il ventre materno in una sorta di spazio infinito e misterioso cui il «base-padre» invia messaggi radio.

In effetti Pelliti sembra credere a una sorta di cabala laica, per la quale le parole creano la realtà. L’esempio più notevole è all’inizio della raccolta. Al labilissimo «udito dell’ufficio anagrafe», luogo decisivo in cui si sancisce l’identità di ciascuno attraverso l’imposizione del nome burocratico, viene affidato il proprio cognome: ma una danza onomastica ha variato / le doppie nei cognomi (Essi), così che, nei documenti relativi a un bisnonno paterno, il cognome “Pelliti” compare nella forma “Pelitti” (informazione dell’autore in una comunicazione privata). Un dettaglio, probabilmente: eppure possiamo essere sicuri che questo casuale scambio di doppie non abbia modificato irrimediabilmente anche i caratteri dei due portatori del cognome, stabilendo un’altra discontinuità nel destino della famiglia?

Ma non bisogna esagerare: Pelliti resta un razionalista, per quanto incantato; inoltre i suoi giochi nascondono sempre una più che sottile inquietudine verso l’enorme mistero che ci circonda. L’abbandono alle fantasie onomastiche è, in fondo, solo una minima difesa psichica dalla casualità dell’esistenza, come leggiamo in un altro testo, in cui il poeta gioca tra me e me, / o tra emme ed emme, sul suo nome e su quello con cui spesso il suo viene confuso, Marco: nome che, per qualche tempo, pensava di dare al figlio.

Pensavo che quel battesimo interno

potesse essere d’aiuto a farlo venire al mondo

ma la realtà mi ha confermato

che questa cabala alfabetica è inesistente,

è solo un gioco che facciamo per consolarci

dell’arbitrio del cosmo.

(Marco)

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