Inchiesta sul lavoro di editor/4: Riccardo Trani (Nutrimenti)
A cura di Morena Marsilio e Emanuele Zinato
Con l’intervista di oggi continua l’inchiesta – che ha cadenza quindicinale – sulla professione dell’editor. Nel corso del Novecento questo “mestiere” è stato svolto da scrittori come Calvino, Vittorini, Sereni che fungevano da mediatori tra società letteraria, case editrici e pubblico; oggi il mondo dell’editoria è stato investito da grandi trasformazioni che sembrano aver dissolto la figura dell’intellettuale-editore e modificato in profondità il lavoro editoriale. Questa indagine mira a sondare come sia mutata, tra dissolvenze e persistenze, la funzione dell’editor all’interno della filiera del libro, coinvolgendo sia case editrici indipendenti sia l’editoria maggiore. Sono state già pubblicate le interviste a Fabio Stassi, Laura Bosio e Gerardo Masuccio.
1. Editing e condizioni materiali del lavoro intellettuale. Qual è il suo rapporto lavorativo e quanti libri è chiamato a editare in un anno?
Lavoro per la casa editrice Nutrimenti nel ruolo di redattore responsabile del coordinamento redazionale. Nutrimenti pubblica una trentina di titoli l’anno, di cui la metà di narrativa. Di questi ultimi, a seconda delle presenze in organico, mi occupo personalmente di otto-dieci libri l’anno, a cui si aggiungono alcuni titoli di saggistica. Si tratta in gran parte di narrativa straniera, di cui seguo l’intera fase produttiva (revisione della traduzione, correzione delle bozze, apparati di copertina). Dei titoli di narrativa italiana posso seguire l’intera produzione oppure, quando il testo viene affidato a un altro editor, occuparmi soltanto della revisione e della correzione delle bozze.
2. Su che basi si imposta il dialogo tra l’editor e lo scrittore. Come viene “associato” un autore a un editor (per affinità tematiche, di generi letterari…); quanto del lavoro di editor può rientrare in queste categorie: semplice revisione (ruolo tecnico), interpretazione (ruolo di critico); riscrittura (ruolo creativo). Quanto e come queste tre funzioni si traducono in un dialogo con l’autore?
In una realtà medio-piccola come quella in cui lavoro, la divisione delle competenze non è così netta come può accadere nelle case editrici più strutturate. In questo senso, non esistono specifici criteri di assegnazione di un editing, ma si procede in base alle esigenze di produzione. Nel caso degli autori italiani avviene un naturale affiancamento quando la casa editrice ha un rapporto di collaborazione con un editor esterno, che si occupa in genere anche dello scouting. In Nutrimenti è avvenuto in passato con Leonardo Luccone e con Benedetta Centovalli. Nell’anno appena trascorso il ruolo è stato ricoperto da Giulia Caminito, a cui è subentrato proprio in questo inizio di 2021 Alessandro Mari. Nei periodi in cui non c’è stato un editor di narrativa italiana, o per alcuni singoli libri esterni al progetto, il compito è stato svolto dal sottoscritto.
Basandomi sulla mia esperienza personale, posso dire che il lavoro di un editor si svolge con una prassi che, semplificando, può essere distinta in due fasi. La prima si concentra su un editing che potremmo definire “strutturale”: in questa fase l’editor si confronta con il testo nella sua complessità, identificando eventuali aspetti che richiedono da parte dell’autore un intervento più sostanziale: organizzazione della struttura, resa generale dei personaggi, impostazione stilistica, uso del linguaggio, riflessione sulla proprietà o l’efficacia del titolo (o dei titoli, in caso di racconti). La seconda fase, che potremmo chiamare più strettamente “revisione”, consiste in un editing più specifico e dettagliato sul testo, mirato soprattutto a segnalare all’autore le incongruenze di ogni natura, narrative, storiche, linguistiche, e a intervenire, se necessario, sulle questioni che non sono state risolte in maniera adeguata nella prima fase dell’editing. Da questo punto di vista, i tre ruoli (tecnico, critico, creativo) vengono tutti assolti, il primo in modo specifico nella fase di revisione, gli altri due nella fase di editing strutturale. Con una precisazione necessaria: il ruolo creativo, perlomeno nel mio modo di concepire il mestiere di editor, non può in nessun modo essere definito di “riscrittura”. Mi è capitato di suggerire alternative o varianti lessicali, ma di sicuro non ho mai riscritto, né ho mai emendato o tagliato senza il consenso dell’autore, a cui lascio sempre l’ultima parola su ogni decisione. Se mi succede di consigliare a un autore di ampliare un concetto, approfondire un personaggio, riscrivere un passo, è lui a doverlo fare. E, nella mia esperienza, l’esito è sempre migliore di ciò che avrebbe potuto fare un editor, ed è quasi sempre raggiunto al primo tentativo. È come se gli scrittori ‒ quelli bravi ‒ avessero solo bisogno di un pungolo. In generale, quello dell’editor è un compito di affiancamento, mai di sostituzione. Ciò che fa l’editor è trasformare, diciamo così, la materia grezza (che il più delle volte non è affatto così grezza) in un libro. Aiutare l’autore a tirare fuori il valore aggiunto dalla sua opera: organizzare al meglio la struttura, eliminare gli attriti, affinare la lingua. A me piace dire che l’editor è un super-lettore, nel senso che “supera le divisioni”; prima indossa i panni del lettore, mettendosi dalla parte di quelli che saranno gli interlocutori futuri o potenziali, dopodiché salta il fossato e si siede a fianco dell’autore: lo mette in guardia, gli dice dov’è che il lettore potrebbe stanarlo, dov’è che ha lasciato il fianco scoperto. È una via di mezzo tra un consigliere e una spia.
3. La sua specifica formazione da editor.
Sono entrato in Nutrimenti nel 2003 dopo aver frequentato un corso di redazione organizzato da un’agenzia letteraria. Fino al 2007 mi sono occupato dell’ufficio stampa, affiancando a questo compito principale qualche più che sporadico lavoro redazionale. Poi sono passato definitivamente al ruolo di redattore. Quando sono arrivato, Nutrimenti era nata da meno di due anni: sono stato il primo dipendente della casa editrice e, poi, il primo redattore. In questo senso, non credo di azzardare troppo nell’affermare di essere un editor autodidatta. Devo una fondamentale formazione teorica al mio percorso universitario (sono stato allievo di Gian Carlo Ferretti) e una prima e piuttosto vaga introduzione pratica al corso di redazione che ho frequentato nel 2003. Per il resto ho imparato sul campo, sbagliando tanto all’inizio e apprendendo molto, lungo il percorso, dall’esperienza e dalle competenze dei professionisti con cui ho avuto la fortuna di lavorare, soprattutto Simone Barillari, Leonardo Luccone e Benedetta Centovalli, ma anche scrittori di valore come Filippo Tuena o eccellenti traduttori come Marco Rossari e Giuseppe Girimonti Greco.
4. Tradizionalmente si considera l’editor un agente dell’editoria che tende a formattare il prodotto letterario per favorirne la vendita. Quanto questa immagine oggi corrisponde al lavoro reale di editor?
Credo che sia uno dei fraintendimenti più diffusi e tenaci che circondano il lavoro editoriale, alimentato dalle “libertà” di alcuni celebri esponenti del passato – penso a Gordon Lish, o al nostro Vittorini, entrambi piuttosto insofferenti a una posizione di secondo piano − ma forse anche dal mito della costruzione del best seller. In realtà, non esistono formule per creare dal nulla un best seller. Ci sono casi in cui il successo è annunciato o facilitato da alcuni elementi di partenza, come può essere la notorietà dell’autore o il favore che gode in un certo periodo un particolare genere, ma il più delle volte la portata del successo (o del fallimento) di un libro è frutto di dinamiche difficilmente prevedibili. La scommessa dell’editore – il suo rischio d’impresa − è proprio questa: ogni anno una casa editrice punta su certi titoli perché pensa che abbiano le potenzialità per vendere. Su questi titoli convergono gli sforzi maggiori (investimento commerciale, lavoro promozionale, iniziative di marketing). All’interno di queste strategie rientra anche il lavoro dell’editor e della redazione, ma in termini tutto sommato non molto diversi da come si esplica per qualsiasi altro libro della casa editrice. Capita di lavorare su libri le cui aspettative commerciali sono molto diverse, già a partire dalle prenotazioni delle librerie. Un libro che viaggia con 3000 copie di prenotato ha certamente più possibilità di vendere bene rispetto a un libro che ne raccoglie appena 300. Il lavoro che un editor fa sul primo può forse essere influenzato in parte dalle aspettative, ma da qui a prendere un testo e “formattarlo” per farlo diventare un prodotto vendibile ne passa. Senza contare che quando un testo arriva nelle mani di un editor è già un prodotto vendibile, altrimenti non sarebbe neanche stata presa in considerazione l’ipotesi di pubblicarlo. E soprattutto è già piuttosto chiaro ‒ sempre a livello teorico e orientativo ‒ qual è la natura del suo pubblico, e quali sono le sue possibilità commerciali.
5. Come lavora allo scouting? Quali modalità di “reclutamento” e selezione predilige? Quali canali utilizza?
Non mi occupo direttamente di scouting ma ho dato il mio contributo per la narrativa italiana nei periodi in cui Nutrimenti non ha avuto un editor dedicato, specialmente tra il 2013 e il 2017. Un bacino importante per noi è ormai da una decina d’anni il premio Calvino, che fa un lavoro meritorio di selezione tra centinaia di manoscritti inviati annualmente; a partire dal 2012 abbiamo pubblicato sette autori finalisti del Calvino. Un ruolo fondamentale è svolto anche dagli agenti letterari, che, oltre ad assolvere un compito di selezione, svolgono spesso anche un primo lavoro di editing. Il grande oceano delle proposte inviate direttamente dagli autori non è di facile navigazione, ma può capitare ‒ ed è capitato – che vengano anche da lì alcuni buoni testi; va detto, per onestà, che sono molto pochi. Questi sono più o meno i canali “istituzionali”, ma ce ne possono essere molti altri, dai contatti dell’ufficio stampa, agli autori che si fanno sponsor di altri autori, alle segnalazioni degli addetti ai lavori (traduttori, collaboratori, librai). Un bravo editor, infine, porta con sé i propri contatti: scrittori con cui ha lavorato in passato, altri che gli vengono segnalati dalla sua cerchia di conoscenze, esordienti e no che si distinguono in corsi o scuole di scrittura dove l’editor insegna.
6. Quale rapporto ideale (dissolvenza, rimozione, assunzione di eredità) gli editor odierni intrattengono con le figure editoriali ‘leggendarie’ del novecento (da Vittorini a Sereni)?
Ritengo che non ci si possa seriamente accostare a nessuna professione senza avere conoscenza e considerazione di chi quella professione l’ha esercitata con valore in passato. Come ho già detto, ho avuto la fortuna di laurearmi con Gian Carlo Ferretti; nei suoi corsi ho studiato il lavoro editoriale, affiancato a quello creativo, dei vari Pavese, Vittorini, Sereni, Calvino. Se noi oggi esercitiamo questo mestiere con le caratteristiche di riconoscimento professionale che possiede, lo dobbiamo anche alle figure di intellettuali che nel secolo scorso lo hanno definito e nobilitato. Perfino alle loro contraddizioni o alle pratiche più esecrabili.
7. Casi di studio: può fare uno o più esempi di testi esemplari con cui si è confrontato?
Si è sempre creato tra me e gli autori con cui ho lavorato un rapporto di reciproco rispetto e di stima: suppongo che apprezzino la mia educata determinazione e il fatto di non trascurare mai l’evidenza che il nome in copertina è il loro e non il mio. Un ricordo più nitido e insieme affettuoso ce l’ho sicuramente di Domenico Dara e Giacomo Verri. Con entrambi ho lavorato al loro esordio e poi al secondo romanzo, e con entrambi ‒ specie nel loro primo libro ‒ si è trattato soprattutto di un lavoro complesso ma molto stimolante sul linguaggio: amalgamare in una sola lingua il dialetto calabrese e l’italiano in Breve trattato sulle coincidenze; sottrarre al mero sfoggio di erudizione il lessico raro e aulico di Partigiano Inverno. Un altro autore di cui mi piace parlare, benché il suo percorso sia molto più tortuoso e meno fortunato, è Armando Minuz. Quando pubblicammo il suo esordio, Ho portato sulle spalle mio padre, Minuz aveva già pronto il secondo libro; lo lessi e non mi convinceva. Ci scambiammo una lunga telefonata in un tardo pomeriggio e gli dissi quello che ne pensavo. Dopo parecchi mesi il romanzo ritorna sulla mia scrivania ed è completamente trasformato. Ha assunto quella pienezza che mancava alla prima versione, ed è bellissimo, forse il più bello che mi sia capitato fra le mani nella mia esperienza di editor; però è cupo, complesso, inattuale, una sorta di moderno Il ragazzo morto e le comete, con echi degli scrittori amati da Minuz ‒ soprattutto Faulkner ‒ ma denso di un mondo personalissimo, lontano da qualsiasi facile riferimento a correnti, generi e mode. Lo presento all’editore con parole entusiaste ma lui non ne è convinto. E, come lui, tutti quelli a cui Minuz lo propone successivamente, tanto che a distanza di anni è ancora inedito. Ecco, credo che il mestiere dell’editor sia fatto anche di questo, di innamoramenti e delusioni, di perle che faticano a trovare la propria strada, che magari non la troveranno mai, ma a cui si resta legati più che se fossero best seller.
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