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diretto da Romano Luperini

 Fiction è il termine inglese di cui comunemente ci serviamo anche noi nel linguaggio della critica letteraria ma non solo, per indicare la narrativa di finzione, cioè il racconto (verbale) di fatti e personaggi immaginari. (…) Esistono ovviamente anche altre forme di fiction, come le opere narrative teatrali, cinematografiche o televisive, ma di quelle non ci occuperemo in questo libro, perché non appartengono al dominio delle arti mimetiche ma a quello delle arti diegetiche, e dunque le loro strutture sono diverse da quelle della finzione letteraria (…). Sebbene qui (…) il termine “finzione” sarà usato nel significato di fiction, il nostro lettore deve essere avvertito del fatto che i campi semantici delle due parole non sono perfettamente sovrapponibili l’uno all’altro. Non solo perché nell’idea di fiction è implicita, come si è detto, quella di narrazione, ma anche perché in italiano il verbo “fingere” serba il ricordo del suo etimo latino, fingĕre, che letteralmente significa “plasmare, dare forma” e in senso figurato quello di “dire il falso”: sulla finzione incombe dunque il sospetto della menzogna, mentre il termine inglese fiction non è necessariamente associato a questa idea. (Castellana, Introduzione, p.11)

«Uno strumento utile per ragionare sui testi»

È uscito in gennaio per Carocci il volume Fiction e non fiction. Storia, teorie e forme. Riccardo Castellana, che ne è il curatore, nel tracciare il profilo dei destinatari dell’opera – gli studenti specialisti, ma anche «chiunque voglia conoscere meglio un aspetto centrale della teoria e della storia letteraria moderna» (p.13) – di fatto mette in chiaro il ruolo irrinunciabile della fiction nella nostra epoca e ci chiama a riflettere sulle ragioni della sua centralità. Per prima cosa, sgombra il campo dagli equivoci, soprattutto da quelli generati dal «ricordo del suo etimo latino» e «dai rischi connessi alla nozione di mondo possibile narrativo, di cui si è francamente abusato nella teoria letteraria degli ultimi anni»:

dire che una cosa è vera in un mondo di finzione non significa asserire una qualche verità, perché di verità si può parlare, a rigore, solo in rapporto al mondo reale, l’unico che conosciamo e di cui abbia senso parlare (da un punto di vista etico oltre che gnoseologico) come effettivamente esistente. La fiction, pertanto, non dà vita a un mondo possibile, ma piuttosto stimola in noi uno stato, una postura o una disposizione particolare a immedesimarci in una storia, della quale non siamo semplici spettatori, ma attori coinvolti in prima persona dal punto di vista cognitivo ed emozionale. (Castellana, 1, p.16)

Mantenendo doverosa distanza dal «concetto stesso, ancora piuttosto ambiguo, di immedesimazione» (ancora Castellana, p.16), così come da quello (non meno ambiguo e pericoloso) di «intenzione dell’autore» (cfr. Castellana, 1, p.23), e tenendo piuttosto fede alla iniziale dichiarazione d’intenti, l’intera squadra di studiose e studiosi coinvolti in questa operazione lavora con grandissimo rigore scientifico alla definizione teorica della fiction: cos’è, quali siano i suoi tratti di riconoscibilità, in quali generi si declini, con quali si ibridi, attraverso quali strumenti possa essere analizzata, quali siano i suoi rapporti con altri ambiti finzionali. Gli interventi si succedono pertanto in una progressione evidentemente meditata e con una articolazione interna che, pur nella diversità degli argomenti trattati e nella varietà delle prospettive d’indagine, presenta, per ciascun contributo, alcune costanti: robuste premesse metodologiche, precisione e chiarezza nelle definizioni generali e un ricco corredo di esempi tanto teorici quanto narrativi che è molto più che una bibliografia ragionata o un semplice campionario, ma quasi un canone, sicuramente un interessantissimo paradigma. Nei nove capitoli che compongono il volume, muovendo dalla ricognizione delle questioni generali (Castellana, Cos’è la fiction?), il lettore ripercorre le origini del romanzo moderno (Capoferro, Le narrazioni pseudofattuali e le origini del novel) e viene quindi accompagnato, attraverso un excursus importante nel romanzo storico (de Cristofaro, Viscardi, L’ora della verità. Storia e romanzo nell’Ottocento) e nel romanzo saggio (Cavalloro, Fiction e non fiction nel romanzo-saggio), sino alla contemporaneità, con interventi improcrastinabili sui cosiddetti generi ibridi (Mongelli, Nonfiction novel e New journalism; Palumbo Mosca, La non fiction; Castellana, La biofiction; Marchese, L’autofiction) e con aperture significative alla finzione giuridica e alla filosofia del diritto (Condello-Toracca, La finzione giuridica e la finzione letteraria).

«Effetti pratici e politici della finzione narrativa»

Lo stesso Castellana, tuttavia, non nasconde gli «effetti pratici (e politici) della finzione narrativa sulla nostra vita» (p.16); e una delle principali ragioni di interesse per il lettore consiste proprio nell’analisi di quegli «effetti» e nell’osservazione di quella particolare «postura» del lettore nei confronti dell’azione narrata. Sempre, in chiusura di ciascun capitolo, in un rapporto, rispetto al momento teorico, non di sudditanza, ma di sequenza logica, l’attenzione si concentra su quegli spazi di meditazione (e perfino di azione) politica che la fiction disserra, qualunque sia la sua declinazione. Il che spiegherebbe anche implicitamente perché la fiction sia diventata la protagonista indiscussa della modernità.

Secondo molti filosofi e teorici della letteratura, il romanzo è il genere letterario che più di tutti si è interrogato sulla distanza fra le esigenze dell’immaginario e le contingenze della vita materiale. A partire dal Settecento, secondo Thomas Pavel [1], avviene un vero e proprio cambio di paradigma etico: le leggi morali non trovano fondamento in una misteriosa e lontana trascendenza, ma nascono e mettono radici nell’interiorità del singolo. Il novel è dunque il genere dell’interiorizzazione dell’etica (de Cristofaro, 3, p.81)

Questa posizione, se non viene assunta come dogmatica, imprime tuttavia alla riflessione teorica la curvatura necessaria della riflessione etica: l’azione narrativa, proprio in quanto azione, impone ai personaggi il rapporto con il tempo e con lo spazio e gli interrogativi su entrambi. Il percorso tra i generi della fiction è dunque anche parabola del difficile percorso della coscienza, destinata a un processo di incessante e spesso dolorosa ridefinizione lungo i sentieri della Storia. Così, muovendo da certi romanzi ottocenteschi, in cui la «coscienza individuale», è «punto di vista da cui raccontare un’epopea», capace di «tenere insieme il collettivo» (de Cristofaro, 3, p.83) [2], il lettore è gradatamente guidato verso la nuova consapevolezza della non fiction contemporanea (Carrère, Cercas, Affinati…), «consapevolezza di una relazione cogente tra testo e mondo e tra testo e vita del singolo» per cui chi scrive «scrive non tanto per descrivere il mondo, ma per cambiare la propria e altrui coscienza, cioè la coscienza di chi nel mondo vive e opera» (Palumbo Mosca, 6, p.142).

Se le cose stanno così, è possibile parlare di un uso “politico” della fiction? Sì, e a più livelli. Il primo (…): usare l’immaginazione ci aiuta a gestire e sublimare le scariche pulsionali, a rafforzare i legami sociali e dunque a difendere la civiltà contro le pulsioni di morte che la minacciano e che sono sempre presenti nella storia umana (Freud, 2012). Chi sa godere del gioco e della finzione sa anche essere un cittadino migliore, esattamente al contrario di quanto sosteneva Platone (…). C’è però almeno un secondo motivo (…). Nell’epoca dello storytellig e della spettacolarizzazione delle notizie, le rappresentazioni distorte della realtà dilagano, per esempio, nel discorso politico, spesso facendo leva sugli istinti peggiori di un pubblico distratto (…). Ebbene, molti dei generi ibridi nati negli ultimi decenni sembrano non tanto il prodotto della confusione (…), ma piuttosto la risposta consapevole di molti scrittori a quella commistione tra fiction e non fiction che si è insinuata in modo così subdolo nelle nostre vite… (Castellana, 1, pp.41-42)

La squadra

Ancora qualche riga su un aspetto che mi pare meriti un’attenzione particolare: la composizione della squadra di studiosi e studiose che hanno lavorato al volume. Non è «un prodotto di scuola», ci viene detto in apertura, ma «il risultato del confronto tra dieci studiosi di formazione e sensibilità diverse» (p.13); e si vede. Senza che mai venga meno il rigore scientifico di cui si diceva in apertura e che dell’opera è passaporto e garanzia, passare da un capitolo a un altro è aprire la porta su un microcosmo ogni volta diverso di letture, di interessi e inclinazioni. Questo sarà dovuto sicuramente, in buona parte, alla formazione e alla specificità dell’ambito di ricerca e di attività di ogni studioso o studiosa; ma si avverte di fondo anche la disponibilità ad accogliere suggestioni nuove, ad accettare che, sui tracciati – a volte obbligati, a volte semplicemente abitudinari – della ricerca accademica, si aprano direttrici alternative, ci si muova respirando altra aria. È, a mio avviso, il valore aggiunto di un lavoro che si rivolge essenzialmente e dichiaratamente a degli studenti. È vero che questi studenti sono tenuti, da specialisti, ad apprendere le coordinate di inquadramento teorico dell’universo letterario, gli strumenti con cui indagarlo, e il linguaggio che lo codifica. E tuttavia la teoria rischia sempre di accamparsi astratta e distante se chi s’incarica di insegnarla non sa mostrare ai suoi allievi che essa è fondata essenzialmente sulla propria esperienza: di lettore, prima, di studioso, poi. Più varia e di ampio respiro sarà quell’esperienza, meglio respireranno anche loro.

[1] T. Pavel, Mondi di invenzione. Realtà e immaginario narrativo, Einaudi, Torino 1992 (1986).

[2] Nello specifico la citazione si riferisce a Confessioni di un Italiano.

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