Sono due i libri per i quali Harold Bloom viene ricordato dalla critica letteraria italiana: L’ angoscia dell’influenza del 1973 e Il canone occidentale del 1994. Come spesso accade, tuttavia, le traiettorie intellettuali, spesso tortuose e complesse e quasi sempre indizio di conflitti, vengono semplificate in concetti-termini un po’ ripetitivi, frutto di pigrizie e di stereotipie: Bloom è, per tutti, quello che ha guardato agli scrittori e ai loro modelli come alla scena di un conflitto edipico fra padri e figli letterari e , al contempo, il critico che ha cercato di fissare, contro le mode del “risentimento”, la lista dei nomi imperituri dei “padri” del Canone occidentale soprattutto inglese, da Shakespeare a Wallace Stevens.
Si dovrebbe tuttavia osservare come la seconda operazione del critico americano costituisca un ribaltamento di prospettiva rispetto alla prima: dalla creatività come lotta freudiana in cui gli scrittori nuovi negano e distorcono i propri antenati letterari si passa infatti alla monumentalizzazione di quegli stessi antenati.
Quel ventennio decisivo del secondo Novecento che divide i due libri di Bloom ha del resto segnato, per i metodi della critica (non meno che per le ideologie e per i rapporti di potere) fratture e mutazioni: in quel medesimo periodo a esempio, in Europa, per critici come Barthes e Todorov viene meno la fiducia nelle potenzialità conoscitive dell’analisi testuale che aveva caratterizzato il campo strutturalista e più in generale “l’età d’oro della teoria”.
Negli anni Settanta, nel dipartimento di letteratura inglese di Yale, Bloom (nato nel 1930) faceva parte con Paul De Man, Geoffrey Hartman e Hillis Miller del quartetto di critici battaglieri che hanno fondato il decostruzionismo. Il quartetto, definito ironicamente “La banda dei quattro” (nome tratto dal linguaggio politico dell’epoca e riferito agli scontri al vertice del Partito a Pechino, dopo la morte di Mao) aveva pubblicato una iconoclasta raccolta di saggi (Decostruction and Criticism, 1979) in cui Bloom giocava tendenziosamente sull’accostamento fonetico di due termini meaning (senso) e moaning (gemito) per suggerire l’idea che tutte le interpretazioni non sono che fraintendimenti (misreadings). Il nume tutelare della decostruzione era Derrida e da quel momento iniziò negli Stati Uniti la fortuna – non ancora del tutto sopita – della cosiddetta French theory: ogni lettura dei testi letterari che si propone di discutere o di negoziare un senso viene percepita come una costruzione del logocentrismo, un effetto illusorio di un linguaggio retorico sempre orientato a mascherare i rapporti di dominio.
La fortuna del decostruzionismo, come gergo, atteggiamento e moda ancor più che come metodo della critica, dagli anni Ottanta in poi, è attestato dalla diffusione della parola decostruire ben oltre i confini dei campus come semplice sinonimo di smascheramento (di un mito, di una propaganda, di una certezza) e supporto discorsivo di un relativismo percepito come postmoderno e inevitabile a ogni livello della vita associata.
Il fortino dei decostruzionisti, tuttavia, presto si è scisso tra una minoranza “conservatrice” e una maggioranza di orientamento culturalista: la seconda ha trapiantato l’irriducibilità del significato nelle rivendicazioni etniche e sessuali e nel rifiuto di ogni metafisica binaria. Bloom ha preso invece le distanze dalla decostruzione, e – dopo studi cabalistici e gnostici – ha accentuato i suoi atteggiamenti polemici contro le tendenze della critica statunitense postcoloniali e femministe, percepite come “critica del risentimento” e si è rivolto al recupero della grande tradizione occidentale. Da ciò nasce negli anni Novanta il suo libro più noto, Il canone occidentale. I libri e le scuole delle ere. Il gesto conservativo di Bloom, che ha posto al centro del sistema culturale Shakespeare e Dante e che ha fissato in ventisei autori (tra cui Goethe, Cervantes e Tolstoj) l’elenco dei libri da leggere nel giorno del “naufragio”, credo vada visto come il risultato di un “allarme” e di una minaccia che grava sull’esperienza letteraria, ma al contempo come una risposta non praticabile (la museificazione) e come il segno di un dimidiamento: un gesto, cioè, dialetticamente collegabile con l’esordio decostruzionista e con i suoi limiti relativistici, di cui è l’esatto rovescio. Nell’attività ermeneutica, e nella didattica della letteratura, infatti, l’esperienza dell’ambiguità del testo non necessariamente approdano al differimento infinito dei significati e, d’altra parte, i classici antichi e moderni, più che ingessati devono essere rivisitati e collaudati alla luce del presente. Ai problemi posti da Bloom insomma non si risponde museificando i classici né buttandoli alle ortiche perché eurocentrici o maschilisti: piuttosto, finché ci sarà spazio, rimettendoli in gioco con il conflitto delle interpretazioni e valorizzando la negoziazione e la ridiscussione del senso delle opere “per noi”.
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