Dialogo con Paolo Costa su secolarizzazione e modernità
È da poco uscito, per i tipi di Queriniana, La città post-secolare. Il nuovo dibattito sulla secolarizzazione, di Paolo Costa. Il volume ricostruisce il dibattito sul concetto di secolarizzazione nel Novecento attraverso il confronto con l’opera di filosofi e sociologi (Blumenberg, Joas, Gauchet, Habermas, …). L’idea centrale del libro di Costa è che il teorema della secolarizzazione, così come è stato costruito, vada rivisto: ci troveremmo di fronte a un vero e proprio cambiamento di paradigma. Dal momento che l’idea che la fine della religione sia una sorta di necessario destino storico è da decenni un’idea di senso comune, le questioni indagate da Costa sono di notevole interesse per ogni persona colta. Quello che segue è l’estratto di un più ampio dialogo tra l’autore del libro e il nostro collaboratore Daniele Lo Vetere ed è l’occasione per discutere di temi di stretta attualità: rapporto tra fede e laicità, multiculturalismo, crisi del liberalismo, partecipazione democratica…
***
DLV. Se mi permetti, per contestualizzare in un orizzonte di senso comune il raffinato dibattito sulla secolarizzazione che ricostruisci nel tuo libro, vorrei partire da un episodio concreto. Mi hai fatto la gentilezza di farmi leggere l’introduzione a La città post-secolare prima che uscisse, quando hai letto un mio post su Facebook nel quale parlavo del cavallo che si era azzoppato e poi aveva dovuto essere ucciso durante l’ultimo Palio di Siena. In quell’occasione avevo difeso questo evento antropologicamente complesso e affascinante, sacro e profano – e certamente anche ferino, irragionevole – da critiche molto violente: «barbarie» e «Medioevo», un inaccettabile residuo premoderno, arcaico, irrazionale, inaccettabile «nel 2019», su cui prima o poi l’incivilimento collettivo e il rischiaramento della ragione avrebbe avuto la meglio. I senesi, per difendersi, avevano affermato che nessuno come loro ama i cavalli. A me era parsa una difesa debole, che ricorre alle stesse categorie dei critici: i diritti degli animali sono rispettati, anzi nessuno più di noi li rispetta. Un cane che si morde la coda: per difendermi dall’accusa di essere premoderno non posso che usare il linguaggio della modernità (qui quello dei diritti), perché è quello il nostro lessico, il nostro orizzonte di vita, quelle le nostre categorie concettuali. Tu parli infatti di «una sorta di senso comune non tematizzato».
Il punto di partenza per parlare del tuo libro può quindi essere questo: parlare di secolarizzazione e di permanenza della religione significa rimettere in discussione questa idea di modernità assolutizzante, sprezzante, questa versione radicale e caricaturale dell’Illuminismo, che divide la storia e il mondo in un prima barbarico, con le sue superstizioni, e un poi, ragionevole ed evoluto.
P.C. Sì, questo è il tema principale della Città post-secolare. Il «mito» della secolarizzazione è uno di quei metaracconti con cui cerchiamo di mettere ordine negli angoli dell’esperienza che ci disorientano di più. Personalmente, non solo non ho nulla contro queste grandi narrazioni, ma penso anzi che abbiano un valore non soltanto strumentale. Ci aiutano cioè a capire qualcosa di più sul mondo in cui viviamo. Anche se, quando funzionano, non procedono mai in maniera lineare, ma ci costringono a muoverci con un andamento a spirale. Proprio come succede con il Grande Narratore per eccellenza della filosofia occidentale: Hegel.
Ora, se esiste una definizione plausibile della civiltà moderna, almeno dal punto di vista della sua cultura morale, non credo che si possa prescindere dalla sua furia ordinatrice, dal «rage for order», dall’impazienza verso il chiaroscuro, il misterioso, l’ambivalente. Dal punto di vista della moralità moderna i compromessi sembrano tutte scappatoie. Qui è Weber il nostro santo patrono. La sua idea di «Redlichkeit», di onestà intellettuale, ci mette con le spalle al muro e fa sentire anche i cultori delle sfumature a disagio di fronte ai difensori degli assoluti morali, come ad esempio gli animalisti (tanto più se antispecisti).
L’unica via di fuga che ci offre la modernità in questi casi è abdicare del tutto alla seriosità dei conflitti morali riducendoli a una questione di gusti. In questa oscillazione tra furia ordinatrice e totale disincanto credo ci sia il succo della socializzazione alla civilité liberale moderna che tutti conosciamo per esperienza e che rende così lacerante oggi ogni discussione sulle cose che davvero contano nell’esistenza. Alla fine ce la caviamo in genere alternando ondate d’indignazione, vagonate d’ironia e tantissima distrazione.
Io, per quanto possa valere la mia esperienza, di fronte a discussioni come quelle sul Palio, sulla corrida o sulla caccia sento tutto il peso dei nostri orizzonti fratturati e, siccome allo stesso tempo avverto il fascino delle persone tutte d’un pezzo con la loro etica dimostrata geometricamente, mi tengo in genere alla larga da questo tipo di polemiche e cerco di coltivare uno sguardo il più possibile stereoscopico. È lo stesso sguardo che ho cercato di valorizzare nel libro e che mi ha costretto a fare uno sforzo metodologico imponente nei primi anni della sua stesura.
Comunque, per riassumere, come hai ben capito, alla fine il libro è essenzialmente un’altra tappa nella mia riflessione personale sul significato dell’identità moderna. L’emancipazione dal presunto arcaismo della mentalità religiosa è uno dei nodi di tale identità e il libro si mette alla caccia delle idee migliori in circolazione per tematizzare la questione senza la presunzione di risolverla una volta per tutte. Scherzando ma non troppo, si potrebbe dire che La città post-secolare è un libro autobiografico. Un po’ come Les années di Annie Ernaux, che Guido Mazzoni mi ha consigliato di leggere quando ero alla ricerca d’ispirazione per scrivere la «mitostoria» pasoliniana con cui si apre il libro.
DLV. La tesi “classica” della secolarizzazione è una tesi semplice ma potente, o potente proprio perché semplice: si parte da uno stato e si arriva a un altro. È una tesi che peraltro ha la struttura del romanzo di formazione: l’uomo da bambino è credulo e ingenuo; poi crescendo esce da questo “stato di minorità” – per dirla con Kant – e abbandona i miti, le fedi indimostrate, le favole e le superstizioni; diventa razionale, accedendo a un contatto diretto e pragmatico con la realtà. La secolarizzazione è il processo che ci conduce definitivamente a questo secondo stato, superiore al precedente. Ma la storia umana non funziona (solo) così. Ha certo bisogno di essere narrata e di essere orientata a un qualche fine; ma ogni narrazione è un’interpretazione e una semplificazione, non la verità. La tesi classica della secolarizzazione è sempre a rischio di diventare una nuova metafisica, o una vera e propria fede in un destino già scritto e storicamente necessario.
P.C. In effetti una delle caratteristiche distintive del concetto di secolarizzazione è la sua enorme forza persuasiva. Il cambiamento della portata e funzione epistemica lo si nota molto bene in Max Weber che, sebbene avesse una sensibilità straordinaria per la contingenza e complessità delle vicende storico-culturali, verso la fine della sua vita si fa come ipnotizzare dal concetto di Entzauberung der Welt, «disincanto del mondo», che gli sembra cogliere alla perfezione il senso malinconico del trionfo globale della modernità occidentale. Così facendo Weber ha finito per offrire a tutti gli scontenti della modernità una chiave di lettura del presente quasi irresistibile, con una forza evocativa almeno pari alla proclamazione nietzscheana della morte di Dio.
D’altra parte, di fronte al cambiamento a cui sono andati incontro negli anni Cinquanta paesi rurali e cattolici come, per dire, l’Italia e il Québec, serve davvero uno spirito da Bastian contrario come quello di Pier Paolo Pasolini per non cedere alla tentazione di processarlo ricorrendo a una spiegazione lineare.
Detto questo, lo ribadisco, il problema di per sé non sta tanto nell’impulso al sense-making, ma nella qualità dell’equilibrio riflessivo che esso produce. E quest’ultima dipende sia dall’affidabilità dei dati empirici su cui facciamo poggiare il nostro ragionamento, sia dalla qualità dei concetti e degli argomenti con cui lo sviluppiamo. È a questo livello che riscontro e registro i progressi compiuti in questo ambito dalla ricerca storica, sociologica, antropologica, filosofica, negli ultimi decenni. Sono questi progressi che mi hanno convinto che sia lecito parlare in proposito di un vero e proprio mutamento di paradigma. Alcuni di essi sono meramente cumulativi – dipendono cioè dal modo in cui funziona mediamente la comunità scientifica (in cui, com’è noto, eccelle chi riesce a demolire il lavoro dei predecessori) – mentre altri dipendono da una sottile relazione dialettica tra la doppia contingenza del cambiamento storico e degli sforzi di comprensione umani. Insomma, per farla breve, la realtà storica ci ha messo di fronte a nuove sfide – basti pensare a un evento epocale come la Rivoluzione iraniana – e queste hanno incentivato la curiosità intellettuale e immesso nuova linfa nell’albero della conoscenza.
DLV. A causa dei processi migratori le nostre società diventano via via più multiculturali. Di fronte a cittadini appartenenti a culture nelle quali il sentimento religioso viene vissuto in forme molto diverse dalle nostre e interpretato secondo categorie che non ci appartengono, si pone il problema della convivenza. Mi pare che nel tuo libro tu esprima un cauto invito a rivedere l’interpretazione troppo rigida della laicità – quella alla francese per intendersi – proprio allo scopo di consentire un dialogo interreligioso e interculturale su un piede di parità. Ti pongo la domanda in forma provocatoria: non pensi che di fronte a parole come queste molti si arrabbieranno? I difensori a oltranza della laicità sono ben rappresentati a sinistra come a destra: i primi vedono in ogni messa in discussione dell’assolutezza di questo principio un rischio di ripiombare a prima del 1789; i secondi una resa dei relativisti, buonisti, terzomondisti d’Occidente all’Islam e agli stranieri. Come non cadere nel relativismo? Come non correre il rischio del reciproco apartheid e della balcanizzazione in una società attraversata da troppe linee di frattura?
P.C. Questo è ovviamente il nervo scoperto della questione. Il libro adotta una strategia prudente in materia, ma non mi faccio illusioni in proposito. Sono un figlio anch’io dell’anticlericalismo italiano – che è una componente essenziale del modo di viversi come una persona di sinistra nel nostro paese – e le prime resistenze che devo vincere quando cerco di essere equanime o, come ho detto all’inizio, «stereoscopico» nella mia riflessione sono appunto resistenze interiori.
Suppongo, tuttavia, che fatta eccezione per i «veri credenti» di ogni posizione, siano molti quelli che come me si sentono oggi parecchio confusi, incerti, nei loro giudizi, e vorrebbero per quanto possibile fare onestamente i conti con gli orizzonti fratturati che, almeno nella mia lettura della Neuzeit, sono una caratteristica costitutiva dell’identità moderna.
Certo, fa un po’ impressione oggi vedere emergere una forma di sciovinismo femminista, in cui l’emancipazione femminile viene sbandierata come un pilastro della civiltà occidentale in chiave antislamica. Ma non dovremmo sorprenderci più di tanto di simili ondate di polarizzazione ideologica. Negli anni Ottanta, quando ha preso forma il mio punto di vista sul mondo, «Il Manifesto», di cui ero un avido lettore, era una palestra formidabile per chi aveva un bisogno estremo di capire come potessero stare insieme in un’area culturale così significativa come quella che si collocava allora a Sinistra del Partito Comunista, riferimenti culturali che ai miei occhi provinciali apparivano diversissimi, a volte francamente incompatibili. Oggi, di certo, la confusione ideologica non è diminuita. Tutt’altro.
Comunque, per tornare sul punto che hai sollevato, la mia impressione è che, sì, la lezione che si può ricavare dal nuovo dibattito sulla secolarizzazione è che sia preferibile una visione plurale, pragmatica, antiperfezionista della laicità dello Stato. Nel mio caso, il motivo principale per favorire una concezione che aspira a tenere lo Stato il più possibile lontano dalle lotte per il riconoscimento che fioriscono di continuo nelle nostre società è squisitamente politico. La mia preoccupazione principale è infatti il futuro della democrazia, intesa non tanto come una macchina deliberativa proceduralmente impeccabile, ma come una comunità che si autogoverna. Se uno prende partito per una concezione inclusiva e partecipativa della democrazia, è essenziale confidare nelle passioni autentiche dei propri concittadini, comprese le passioni religiose.
Le uniche due alternative decenti a questa posizione che, lo ammetto serenamente è ottimista al limite dell’utopia, sono il sovranismo democratico e il liberalismo della paura. Entrambe le prospettive hanno buone ragioni dalla loro parte. I sovranisti pensano che l’unica forma di autogoverno possibile sia quella garantita e incarnata dallo Stato-nazione moderno. E per salvaguardarla ritengono che serva qualcosa di simile a una rousseauiana religione civile, che non è poi altro che un prototipo di civilizzazione.
Quanto in là debba spingersi questo ideale è ovviamente oggetto di dibattito. Ma mi sembra chiaro che il suo profilo tende a modellarsi in contrapposizione a quella che di volta in volta viene percepita come la minaccia principale, che non è mai la «religione» in generale, ma sempre una religione o una dottrina comprensiva particolare, la cui incarnazione storica viene percepita come esemplarmente negativa (è il caso oggi dell’islam o del cosmopolitanismo/globalismo delle classi dirigenti europee). Il vantaggio psicologico di questa posizione è che non ti fa sentire mai colluso con le manifestazioni più eclatanti di quella forma di vita che viene elevata a minaccia esemplare alle conquiste della civiltà.
Il liberalismo della paura trae slancio, invece, dalla diffidenza verso ogni forma di assoluto e ha come obiettivo principale quello di allargare il più possibile gli spazi di libertà personale e privata, a scapito di qualsiasi promessa di felicità o pienezza superiore, che è sempre vissuta come paternalistica. Si tratta di un ideale di vita prudente, borghese nel senso buono del termine, di cui subisco il fascino sottrattivo, ma che allo stesso tempo infastidisce le parti socialmente meno adattive della mia personalità.
La mia impressione, ma potrei sbagliarmi, è che la maggioranza delle persone oscilli a seconda dei momenti storici tra le due diverse posizioni – voglio dire, tra l’insofferenza e il lasciar vivere – e finisca poi per sposare una qualche forma di eclettismo, di cui avverte più o meno le dissonanze.
Come studioso, mi accontenterei anche solo di accrescere la consapevolezza di tali dissonanze. Poi in politica si prendono per lo più decisioni caso per caso e in tali decisioni deve esserci sempre spazio sia per il rispetto di alcuni principi basilari, sia per una valutazione equilibrata delle possibili conseguenze delle proprie azioni, sia infine per il desiderio di continuare a convivere con persone che ci sono allo stesso tempo stranamente care ed estranee (i nostri concittadini).
Per riassumere, devo ammettere che, sì, mi spiace quando penso che i miei sforzi di comprensione possano finire per essere sacrificati sull’altare della polemica politica spicciola. Ma questo mi sembra inevitabile. Accadeva già al tempo di Platone, figuriamoci oggi. Per me il punto – ma questo vale più in generale per la vita pubblica nel suo complesso – è cercare di non farsi schiacciare sul presente. L’obiettivo primario di chi fa il nostro lavoro, d’altronde, è seminare. Bisogna non dimenticare, tuttavia, che il campo in cui seminiamo è solo in minima misura controllabile o supervisionabile e a noi non resta molto altro da fare, dunque, che affidarsi un po’ alla sorte e un po’ al desiderio supererogatorio di capire le ragioni degli altri che, sebbene non sia forse una virtù molto apprezzata oggi, è comunque distribuita in maniera sorprendentemente egualitaria tra le persone a cui indirizziamo le nostre misere «lettere d’amore» (giusto per evocare una bella formula utilizzata qualche anno fa da Jonathan Coe per descrivere i lettori dei suoi romanzi).
DLV. Vorrei farti un’altra domanda di strettissima attualità. Il dibattito pubblico si sta ultimamente polarizzando intorno a nuove dicotomie politiche: europeisti vs sovranisti; democratici liberali vs populisti. Quanto più queste opposizioni lessicali e concettuali si polarizzano e semplificano, tanto più diventano un aut aut tra visioni etiche e politiche inconciliabili. A partire dal voto sulla Brexit fino al voto per le Europee in Italia, è emerso come la provincia voti prevalentemente per le forze antieuropeiste e le città, specie le grandi città, votino per quelle europeiste. In un attimo questa distribuzione del voto diventa un’opposizione morale e storica, tra forze del passato e forze del futuro, tra persone dalla mente aperta e bifolchi. Dalla Vandea ai nostri giorni, la modernità è stata anche conflitto tra élite “illuminate” e masse “ignoranti”, tra cittadini e contadini, colti e incolti, bigotti e open-minded, superstiziosi e credenti e illuminati e laici. In un passaggio del tuo libro osservi che l’idea del superamento della religione è un tipico valore delle élite, con cui esse pretendono però di interpretare anche la vita di quelli che chiami dostoevskianamente “uomini del sottosuolo”. L’idea di secolarizzazione ha quindi anche un connotato di classe?
P.C. Riguardo alla questione difficile dei centri e delle periferie simboliche che proliferano nelle nostre società ho un’opinione chiara che mi auguro non sia troppo idiosincratica. Penso, cioè, che questo fenomeno sia il sintomo della crisi forse irreversibile del liberalismo inteso come una filosofia della civilité, come l’adesione, in altre parole, a un modo di essere persona che accentua unilateralmente le parti più attive – mi verrebbe da dire polemicamente più «sovrane» – della soggettività umana.
Col senno di poi mi sembra che sia questo il senso profondo del dibattito tra liberali e comunitari partecipando al quale mi sono formato come filosofo politico. Trent’anni fa le cose non mi erano così chiare, visto che la polarizzazione tra destra e sinistra che avevo ereditato dal lungo Sessantotto italiano intersecava perpendicolarmente il fronte che divideva filosoficamente e caratterialmente i liberals dai communitarians. Nondimeno, la mia resistenza alla pressione disciplinante che avvertivo nel senso comune liberale («orsù, non vorrai mica dirmi che vivresti bene in un maso in mezzo alle Dolomiti: come te la cavi con gli incesti?»; «sì, pero, bello mio, così commetti la fallacia naturalistica: la natura umana non c’entra nulla con l’etica, te ne devi fare una ragione…»; «ah, quindi tu vorresti farmi credere che sul mio corpo e sui miei desideri non dovrei essere io l’autorità ultima? Vai a dirlo a qualcun altro, neandertaliano!») mi sembra oggi rivelatrice. Quando rifletto sulla crisi odierna del senso comune liberale, che va ben di al là delle riflessioni dei filosofi di professione e riguarda direttamente, anche se in maniera non sempre limpida, la nostra vita quotidiana, mi torna spesso alla mente la sottile consolazione che provavo negli anni di università leggendo i romanzi di Dostoevskij, i cui personaggi avevano una vita interiore che mi sembrava francamente incompatibile con una civiltà liberale, ma le cui contraddizioni entravano in risonanza con la mia esperienza del mondo molto più di qualsiasi veto contro i residui della mentalità premoderna – insomma contro gli «uomini del sottosuolo».
Sarà forse per questo che, sebbene rispecchino nella sostanza il mio stile di vita, i precetti del politicamente corretto mi suscitano sempre qualche brivido. Il risentimento delle persone in mezzo a cui sono cresciuto mi sembra quasi di vederlo prendere forma sotto i miei occhi. Me le immagino infatti schiacciate da un peso disciplinare che non è ancora diventato «abitudine del cuore» (Tocqueville), anche se non soprattutto perché le persone che ne sono l’emblema e i portavoce non sanno nemmeno che cosa sia un’abitudine del cuore.
DLV. Nonostante quanto abbiamo detto fin qui, bisogna però dire con altrettanta chiarezza che la modernità esiste, che l’epoca in cui viviamo è diversa dalle altre; insomma che “qualcosa” è successo nella storia, e questo qualcosa ci ha allontanato definitivamente da società e culture entro le quali la dimensione religiosa era totalizzante o molto più pervasiva di quanto non sia oggi, per farci entrare in un nuovo orizzonte di senso in cui sono stati posti al centro il soggetto, la realizzazione di un progetto di vita compiuto qui e ora e non domani e altrove, la cultura dell’autenticità personale. È quella che Charles Taylor chiama la «cornice immanente», che ha portato con sé una apertura di possibilità per le nostre vite mai sperimentata prima nella storia, un incremento netto della libertà di ciascuno. Scrivi che «siamo divenuti metafisicamente democratici».
P.C. Nel nuovo dibattito sulla secolarizzazione c’è spazio anche per chi, soprattutto tra gli storici e i sociologi, ritiene che la tesi della secolarizzazione sia stata smentita dai fatti perché troppo discontinuista. Tutto sommato, è la classica obiezione empirista: nella storia non accade mai nulla di veramente nuovo perché la natura umana resta sempre la stessa e quindi, scava scava, riaffiorano puntualmente gli stessi moventi primordiali rispetto ai quali i mutamenti storici sono come l’increspatura delle onde sulla superficie delle profondità placide degli oceani. A mutare, tutt’al più, sarebbero i modi in cui vengono di volta in volta soddisfatti tali moventi arcaici.
Nel libro ho dedicato poco spazio a questa posizione perché mi sembra filosoficamente sterile. Potrebbe anche essere vera, ma non c’è un modo di dimostrarla che prescinda da un ragionevole conflitto di interpretazioni. Questo è il motivo principale per cui nella mia ricostruzione ho privilegiato invece le prospettive discontinuiste, quelle cioè che danno per scontato che la modernità o qualcosa di analogo esista e che la tesi della secolarizzazione avanzi appunto la pretesa di cogliere un aspetto essenziale di tale discontinuità.
Ora, non appena si affronta il tema da questa angolazione, la prima cosa che si nota è quanto sia diventata più complessa e sfaccettata la nostra comprensione della transizione moderna rispetto alla polarizzazione tipica, per esempio, del dibattito tra moderni e postmoderni, in cui mi sono per altro formato come filosofo. Si potrebbe riassumere la faccenda dicendo che la dialettica tra moderno e postmoderno è stata sostituita o assorbita da una visione dell’identità moderna che la ritrae come originariamente dialettica – voglio dire, dialettica fin dal principio. Nella nuova ottica, illuminismo e controilluminismo, razionalismo e romanticismo sono co-originari e il loro dualismo è soltanto un altro segno della vera caratteristica dell’età nuova: il suo dinamismo, la sua scommessa sul fatto che sia possibile vivere non senza un centro, ma senza un centro occupato stabilmente da un unico marcatore identitario, da una forza stabilizzatrice che funga da contrappeso alla simultanea spinta all’accelerazione in ogni ambito dell’esistenza. Al posto di questo antidoto tradizionale all’accelerazionismo, nell’età moderna vediamo continuamente all’opera quella che Hartmut Rosa ha giustamente descritto come la logica della «stabilizzazione dinamica». Detto in poche parole, noi moderni dobbiamo continuamente accelerare anche solo per mantenerci in equilibrio.
Come sia potuta nascere una civiltà del genere (oggi, chiamandola «antropocene», le abbiamo conferito addirittura una rilevanza geologica) è un bel mistero, tenuto conto di come aveva funzionato fino ad allora l’evoluzione umana. Certo, il modo di produzione capitalistico l’ha resa materialmente possibile, ma una serie di trasformazioni «spirituali» l’hanno trasformata poi in una forma di vita umanamente praticabile, cioè sensata dal punto di vista interno degli agenti.
La storia della nascita dello Stato moderno e delle sue pratiche disciplinari conta sicuramente parecchio in questa vicenda storica enigmatica. Come pure la parallela riscoperta dell’ideale classico dell’autogoverno democratico, come ha mostrato in particolare Claude Lefort. Ma un ruolo va riconosciuto anche al cosiddetto «processo» di secolarizzazione. Tuttavia un’interpretazione a somma zero del conflitto moderno tra fede e ragione non sembra in grado di rendere giustizia al dinamismo spirituale moderno, cioè all’incredibile mobilitazione di energie intellettuali e passioni civili che ha animato i secoli delle rivoluzioni moderne. Meglio allora interpretare questa transizione storica nei termini di un’innovazione culturale genuina – la nascita dell’opzione secolare, della cornice immanente o dell’umanesimo autosufficiente – che avrebbe finito per modificare radicalmente gli immaginari moderni e il campo di forze ideali entro cui hanno preso forma la nuova mentalità e il nuovo stile di vita.
Questa mi pare una novità teorica autentica prodotta dal dibattito recente sulla secolarizzazione che anche i manutentori del teorema della secolarizzazione hanno dovuto in qualche modo metabolizzare, rendendo più sofisticata la loro visione, a seconda dei casi, «sottrattiva» (il cambiamento era solo questione di tempo, alla fine la verità della condizione umana doveva in qualche modo venire alla luce) o «metamorfica» (gli esseri umani sono mossi solo da passioni irrazionali quindi una qualche forma di «religione» deve essere sempre alla base di tutto, sebbene negli ultimi secoli si sia travestita da «ragione», «sovranità», «filosofia della storia», o «messianismo politico»).
Se la mia ricostruzione è corretta, le ultime due chiavi di lettura hanno perso recentemente parte della loro forza persuasiva e se questo è successo è anche perché la realtà ha per così dire presentato il conto, allargando gli orizzonti, proponendo nuove sfide e facendo piazza pulita di molte tesi filosofiche avventate o affrettate. Questo è il motivo principale per cui ha senso secondo me definire «nuovo» in un senso paradigmatico il dibattito recente sulla secolarizzazione.
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