
I modi della poesia italiana nel Duemila: un tentativo di avvicinamento
La poesia oggi
Esiste ancora, oggi, la poesia? Chi cercasse la risposta a questa domanda tra le pagine dei manuali scolastici, ne uscirebbe forse più confuso di prima. Avrebbe l’impressione che a partire dalla seconda metà del novecento sia possibile parlare della poesia solo come di un’arte in via di estinzione, esclusa dal mercato editoriale e sostituita, nell’immaginario comune, da altre forme espressive, legate (loro sì, a doppio nodo) all’industria discografica. Oppure no: la poesia resiste, invece, a dispetto del mercato editoriale; anzi: è viva e libera proprio perché ignorata dalle logiche mercantili che tanto inquinano le prose narrative (soprattutto il romanzo).
In questo affacciarsi, oscillante e incerto, sulle strade accidentate dei destini attuali della poesia, due riferimenti ricorrono più di altri: il discorso (intitolato appunto È ancora possibile la poesia?) pronunciato da Eugenio Montale in occasione della consegna del premio Nobel, nel 1975, e la provocazione di Pier Vittorio Tondelli, che nei tardi anni ottanta scriveva: “Il contesto rock ha prodotto i più grandi poeti degli ultimi decenni”. La postura dubitativa di Montale viene portata a reagire con quella asseverativa di Tondelli, per giungere a un discorso che, per quanto declinato in vario modo, finisce spesso per avvitarsi alla retorica dell’estinzione: la poesia è stata, tout court, soppiantata dalla canzone; la poesia non c’è più, ma è possibile trovarne i residui sotto le mentite spoglie di altre forme (canzone in primis); la poesia sopravvive e, libera com’è da ogni tipo di condizionamento economico, raggiunge risultati di alto valore, che tuttavia sono destinati a scarsa o nulla visibilità.
La retorica dell’estinzione rischia di soffocare in partenza ogni possibilità di avvistare la poesia nel presente. Proviamo allora a contraddirne la ragion d’essere e partiamo dal presupposto, peraltro ormai assodato, che la canzone d’autore sia un genere artistico autonomo, che non sostituisce ma affianca la poesia (da cui – ecco il dato significativo – molto attinge, in un rapporto che oggi si configura anche nei termini di una reciproca influenza). E prendiamo atto anche della fine, questa sì, del mito della purezza della poesia rispetto al mercato: è fin troppo facile portare l’esempio di Guido Catalano, i cui libri vengono venduti in abbondanza, così come i biglietti degli spettacoli nei quali legge i suoi testi. Consapevoli, certo, del ruolo in ogni caso marginale che la grande editoria riserva alle opere poetiche e tuttavia liberi da ogni retorica dell’estinzione, ci accorgeremo che la poesia esiste ancora e anzi corrisponde oggi a un sistema molto complesso e interessante di fenomeni, dai confini mobili e sfrangiati, che vale la pena provare ad avvicinare.
Tra nuovo secolo e tardo novecento: le specificità della poesia del duemila
Esiste una specificità della poesia italiana del duemila? Oppure la poesia italiana attuale si trova in un persistente tardo novecento? È fuor di dubbio che l’ombra lunga del secolo scorso arrivi fino al primo ventennio del duemila. È evidente, per esempio, la forza di alcuni modelli del secondo novecento (Zanzotto, Sereni, Pagliarani, Rosselli, Giudici, Balestrini – per fare qualche nome). Ma questa linea di continuità germina al suo interno tratti discontinui più o meno marcati, che inducono a formulare qualche ipotesi sulle specificità della poesia italiana del duemila.
L’impressione, cioè, è che certi tratti di matrice novecentesca si declinino ora in modo nuovo. È il caso di quelli (inclusività, abbassamento prosastico, tic del parlato, immissione di voci e parole altrui) che Enrico Testa ha descritto come peculiari di una poesia, tra anni sessanta e novanta, “dopo la lirica”, ma oggi presenti in molte poesie non altrimenti descrivibili che con la categoria di lirica e come tali intese dai loro autori. D’altra parte anche la rielaborazione dell’eredità della poesia sperimentale e novissima si colloca in un terreno che non è quello dell’avanguardia novecentesca, sebbene faccia tesoro di certe sue acquisizioni. Sarebbe, insomma, fuorviante applicare la categoria di avanguardia all’area della poesia del duemila che viene chiamata “di ricerca” e che si articola in due grandi filoni (talvolta intrecciati), l’uno tutto per l’orecchio (la poesia cosiddetta “performativa”), l’altro tutto per l’occhio (la “prosa in prosa” e dintorni).
Se la poesia di questi anni si mette in dialogo con la prosa e con altri linguaggi artistici (la musica, le arti visive, il teatro), lo fa non tanto per abbattere i confini tra generi rigidamente canonizzati o per stemperare la propria identità ibridandola con altri codici allo scopo di spiazzare il lettore, quanto, piuttosto, per verificare la propria tenuta e le proprie possibilità di dire il presente, di confrontarsi con l’orizzonte culturale, sociale, immaginativo e linguistico del nostro tempo, passando per un ripensamento e una ridefinizione dei confini della propria identità.
L’insofferenza o la reticenza nei confronti del verso, la sua ridefinizione e rifunzionalizzazione, lo sconfinamento che è insieme verifica, il primato della percezione visiva, l’attenzione per i luoghi, la ricerca di nuove forme di soggettività e l’allestimento di scenari di fondazione dell’identità sono alcuni dei tratti della poesia italiana del duemila che sollecitano un ritorno alla riflessione teorica e reclamano un ripensamento delle categorie critiche. Partiamo dal commento ai testi: attraverso una serie di affondi testuali, tenterò un primo avvicinamento alla poesia del nuovo secolo.
A partire dal mese di settembre pubblicheremo una serie di commenti a testi poetici del Duemila.
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