La “maturità” della scuola. Un secolo di esami di Stato tra scuola, letteratura, politica, e società / 1
A partire da oggi e in quattro capitoli pubblichiamo La “maturità” della scuola.
Un secolo di esami di Stato tra scuola, letteratura, politica, e società, un saggio sulla storia dell’esame di Stato dalla “riforma Gentile” ai nostri giorni scritto da Mario Ambel e Annamaria Palmieri. Ringraziamo vivamente l’autore e l’autrice che hanno voluto destinare in anteprima ai lettori di LN questo lavoro, importante per ampiezza, spessore, implicazioni e spunti di riflessione.
***
Parte Prima. Dalla selezione della classe dirigente all’inclusione per la democrazia (1920-1963)
“Degli esami di maturità mi mancherà sempre quel senso di libertà appena terminati. La credenza di aver finito quando in realtà era l’inizio” (Nick Biussy on Twitter)
Premessa
“Ognuno è un genio. Se si giudica un pesce dalla sua capacità di arrampicarsi sugli alberi, passerà la sua vita a credere di essere stupido”.
Il famoso aforisma attribuito ad Albert Einstein è il modo più semplice per aprire questo scritto sugli esami, la loro evoluzione e il cambiamento di funzioni e scopi, che nel corso di un secolo essi hanno assunto nella storia della scuola italiana.
Selezionare o orientare, verificare quel che si è appreso o dimostrare le capacità critiche acquisite? A cosa è servito e serve ancora l’esame finale della scuola media, inferiore o superiore, ora secondaria di I e II grado?
È la Costituzione al comma 5 dell’articolo 33, che legiferando sull’istituzione della scuola pubblica di ogni ordine e grado puntualizza:
“È prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale”.
Come è ovvio la carta costituzionale non consente di enucleare a quali scopi i Padri costituenti volessero indirizzare questa prescrizione: ma è importante sottolineare che da essa discende quel valore legale del titolo di studio che, di tanto in tanto, e negli ultimi tempi sempre più spesso, viene messo in discussione.
1. Gli esami di Stato nella riforma Gentile
Per rintracciare la genesi dell’esame di maturità o di Stato, così come generazioni e generazioni di studenti l’hanno conosciuto, si deve tornare molto più indietro dei sessant’anni della storia repubblicana e spostarsi almeno ad un secolo fa, a quella riforma Gentile, che rappresenta la prima e forse più completa riforma scolastica organica varata in Italia.
La riforma Gentile, com’è noto, è costituita in realtà da un insieme di provvedimenti che riguardarono aspetti diversi del sistema scolastico: quello ordinamentale nel rapporto fra diversi tipi di scuola, quello organizzativo e strutturale, quello non meno importante dei programmi e degli esami, in questo senso ponendo particolare attenzione al liceo classico, che per Gentile rappresentava il reale centro di interesse per la selezione e la qualificazione culturale delle future classi dirigenti.
A Gentile interessava soprattutto riaffermare il ruolo di una certa cultura idealistica che non escludeva la volontà di ritorno alla centralità dello Stato come ente promotore di un rinnovato spirito nazionale, di cui tutte la nazioni europee avevano bisogno dopo la tragedia della Prima Guerra Mondiale. E in particolare gli stava a cuore l’introduzione dell’esame di Stato alla fine della scuola superiore, di cui peraltro si discuteva da tempo e che già Benedetto Croce aveva tentato di reintrodurre in qualità di Ministro dei governi Giolitti fra il 1920 e il ’21.
È assai probabile che, nel 1922, all’atto di nominarlo Ministro nel suo primo dicastero, Mussolini non conoscesse Giovanni Gentile. Di lui gli aveva certamente parlato Ernesto Codignola in un incontro avvenuto un anno prima e la sua nomina fu probabilmente proposta da Agostino Lanzillo, sindacalista esponente del fascismo milanese. Nell’accettare il dicastero, Gentile chiese il mantenimento della libertà della scuola nella dialettica con lo Stato e l’introduzione dell’esame di Stato. L’esame venne introdotto, mentre la prima questione, ampiamente negata dagli eventi successivi, costituì per tutta la vita del filosofo il terreno dei complessi rapporti con Mussolini stesso, il partito e il regime fascista.
Nella riforma gentiliana del 1923, l’istruzione classica era infatti considerata il punto centrale e la sintesi della preparazione culturale del giovane. La scuola elementare, obbligatoria e gratuita, era suddivisa in due corsi: inferiore (fino alla 3° classe) e superiore (4° e 5°). Per l’ammissione al corso superiore bisognava superare un apposito esame di Stato. Dopo la scuola elementare, che si concludeva con l’esame per conseguire il “certificato di compimento”, lo studente che desiderava proseguire la carriera scolastica doveva sostenere un altro esame: quello di ammissione al Ginnasio. Anche il Ginnasio era suddiviso in due corsi e il passaggio dal corso inferiore a quello superiore comportava un esame, che si sosteneva alla fine della terza. Alla fine del quinto anno di Ginnasio lo studente doveva poi sostenere gli esami conclusivi della scuola ginnasiale, che avevano il nome di “esami di ammissione al liceo”. E consentivano l’iscrizione al Liceo Classico, triennale. Infine, ultima tappa, il conseguimento del diploma di maturità classica, che era l’unico che permetteva l’accesso a tutte le facoltà universitarie (R.D. n.1054/1923, art.71). Il giovane che arrivava all’Università aveva quindi superato un numero di sbarramenti non indifferente: sei esami nei primi tredici anni di studi. E non va dimenticato che tutti questi esami erano più di ammissione che di licenza, ovvero valeva la regola che a esaminare e giudicare dovesse essere la scuola che accoglieva gli allievi e non quella che li licenziava. Non è un caso che nel 1932 gli studenti universitari fossero circa 50.000, quanti ne conta oggi un ateneo di medie dimensioni (su una popolazione residente di circa 40 milioni) e che nel 1932 i candidati agli esami di maturità fossero solo 19.654, ovvero 4 su 10.000.
A una struttura scolastica così selettiva in verticale corrispondeva una visione gerarchica della società: il cursus honorum della classe dirigente era riservato a pochi eletti, scelti con rigore e severità estremi ma anche appartenenti agli ottimati, i soli che potessero sostenere i costi di un percorso così difficile e periglioso.
Il complesso della riforma scolastica, che segnò la convergenza tra cultura neoidealista e buona parte degli ambienti cattolici e della borghesia conservatrice, venne varato e il fascismo ne guadagnò il consenso delle vecchie classi dirigenti. La scuola gentiliana coltivava una concezione aristocratica della cultura e dell’educazione, scarsa considerazione aveva invece la cultura tecnica, né tantomeno si valorizzava la formazione professionale, lasciata al ruolo di formazione post-elementare per le classi sociali escluse dalla scuola vera e propria. Trascurando i settori del sistema scolastico più orientati al sostegno della produttività economica, ribadiva una cesura che nella storia del nostro sistema scolastico è rimasta viva nell’accezione proverbiale che ha assunto il concetto di “gentiliano”.
2. La fascistizzazione del sistema scolastico e le testimonianze letterarie
È bene ricordare, a tal proposito, che quando si identifica scuola gentiliana e scuola fascista in realtà si commette una semplificazione storica: la scuola “fascistizzata” nasce infatti qualche anno dopo, e allarga di molto le maglie della partecipazione per così dire “popolare” al sistema scolastico, alimentando il progetto mussoliniano di usare lo strumento dell’educazione e dell’istruzione come potente chiave di condizionamento ai valori e ai miti del regime: ciò avviene attraverso una nuova riforma, quella del ministro Bottai (1939-40), che investì i diversi ordini di scuola.
Così si esprime il Ministro per l’Educazione Nazionale in una circolare del 12 febbraio 1939 rivolta ai provveditori, ai presidi e ai direttori didattici:
“Il Fascismo intende la scuola in senso totalitario, non come semplice distributrice di sapere, ma come strumento politico di educazione, che concorre anche alla preparazione dei fanciulli e dei giovani ai complessi compiti politici e militari del Fascismo… Nei quadri della GIL (Gioventù Italiana del Littorio, la nuova denominazione della già “Opera Nazionale Balilla” [ndR]) l’insegnante realizza e completa il frutto della sua opera. Scuola e GIL devono essere organismi in perpetua collaborazione, che mirano a formare il corpo e l’anima delle nuove generazioni del Fascismo.”
Nel 1941 il Ministro Bottai mise così a punto la “Carta della Scuola”, progetto di riforma radicale di tutta l’organizzazione scolastica che il successivo precipitare degli eventi bellici avrebbe reso vano. Ma, in quest’ottica, nasceva con Bottai la scuola media, seppure non unica, che superava la distinzione tra i primi tre anni del ginnasio, dell’istituto tecnico inferiore e dell’istituto magistrale inferiore, che, all’epoca, consentivano il proseguimento degli studi. Vi si accedeva dopo il superamento dell’esame di licenza elementare e dopo il superamento dell’esame di ammissione. Il latino rimaneva un insegnamento obbligatorio, come nelle tre scuole precedenti e i programmi erano frutto dell’incontro tra i tre indirizzi: le discipline del vecchio ginnasio (italiano, latino, storia, geografia, etc), con l’aggiunta dello studio delle scienze naturali, come nell’istituto tecnico, e della musica e del disegno, come nel vecchio istituto magistrale.
La riforma mirava dunque ad allentare il rigido sistema selettivo previsto dalla riforma Gentile. Fu mantenuto l’esame di ammissione, eredità gentiliana; chi non lo superava doveva completare l’obbligo scolastico, fino a 14 anni, nella scuola di avviamento professionale. Alla fine del terzo anno era previsto un Esame di Stato comprendente prove scritte e orali. Per latino si affrontavano ben due prove scritte: una traduzione dal latino all’italiano e una traduzione dall’italiano al latino, che solo nel 1959 verrà abbandonata.
Anche per le scuole superiori, con il pieno compimento del fascismo come dottrina di stato, la forma dell’esame veniva fortemente semplificata e la rigidità dell’impianto gentiliano abbandonata: nel 1937 Cesare Maria De Vecchi, allora Ministro, aveva già ridotto il programma d’esame a quello dell’ultimo anno. Bottai introdusse i “giudici naturali”, ovvero una commissione composta dai docenti dei candidati e solo il presidente (un professore universitario) e vicepresidente (un preside) erano di nomina ministeriale. Ancora, a causa della guerra, apportava molte semplificazioni nelle procedure dell’esame di maturità di Gentile, fino a prevederne, negli anni 1940 e 1941, la sostituzione con lo scrutinio finale. Per queste ragioni scuola gentiliana e scuola fascistizzata non sono del tutto sovrapponibili. Nella prima c’era un’idea della società rigidamente verticale che non corrispondeva all’idea “conformistica” perseguita dal regime, che voleva forgiare menti e corpi in forme omologanti e dunque aveva ampio interesse a estendere la platea dei destinatari.
Per avere un ritratto di quest’ultima un grande aiuto ci viene dalla letteratura, attraverso luci ed ombre, spesso con rappresentazioni retrospettive consegnateci da tanti grandi autori. Si va dal racconto del conformismo dei programmi e dell’atteggiamento (un po’ ridicolo) dei docenti e capi d’istituto in camicia nera attraverso le narrazioni di Marcella Olschki, Terza liceo 1939, del 1954; Luigi Meneghello, Fiori italiani, 1976; Paolo Volponi, Il lanciatore di giavellotto, 1981, fino alla memoria dei grandi docenti da cui si è sviluppata la coscienza antifascista.
“27 ottobre. La data, per il profano, non significa nulla. E invece per noi ragazzi, essa aveva un doppio significato: di gioia e di noia. Gioia, perché il giorno dopo sarebbe stata vacanza; noia, perché una ricorrenza dal significato così profondo non avrebbe potuto passar sotto silenzio, e a noi sarebbe stata inflitta la penosa anteprima della commemorazione. Da tredici anni. Dalla prima elementare alla terza liceo. Ogni 27 ottobre, in tutte le classi, si sarebbe improvvisamente aperta la porta, e dopo uno scambio di saluti col professore, seccatissimo per la lezione interrotta, il Preside si sarebbe seduto in cattedra e con aria solenne avrebbe incominciato il discorso di rito. Lo avrebbe cominciato invariabilmente col pronunciare una grande verità: “Domani è il 28 ottobre”. Questo 28 ottobre! Quanti discorsi, quante chiacchiere, quanta retorica per il 28 ottobre, e quanti temi!
Dal Come avete trascorso la giornata del 28 ottobre di seconda elementare, al Significato storico ed etico della Marcia su Roma di terza liceo. Il Duce, il Duce, il Duce! Il 28 ottobre, il 28 ottobre, il 28 ottobre! Non avevamo davvero altra ragione che quella della vacanza, per amare il 28 ottobre, ma per odiarlo sarebbe bastata l’innumerevole serie di temi su cui abbiamo dovuto sudare. Argomento, sempre lo stesso: ma col passare degli anni doveva essere infiorettato di aggettivi, agghindato da frasario elegante, punteggiato di esclamativi, bardato di voli pindarici, infiocchettato come un bove che va alla fiera. Ma a trascinare il bove riluttante alla fiera, non visti, sarebbero stati anche i genitori delle vittime che, stanchi del quotidiano lavoro, si sarebbero visti arrivare i ragazzi la sera, con l’aria di chi non sa più che pesci prendere, e un quaderno in mano. “Papà, non mi riesce il tema, Mamma, mi aiuti un pochino?” E i poveri genitori, messo da parte il giornale o il libro, mormorando sottovoce (per carità, che nessuno senta!): “Vai, ci risiamo”, avrebbero cominciato, anche loro, press’ a poco così: “Il 28 ottobre 1922, alla testa di una colonna di intrepidi, un Uomo, Benito Mussolini…” ecc. ecc. ecc.
Beppe Fenoglio, in Primavera di bellezza (1959), racconta l’altra faccia della medaglia: il debito di riconoscenza del partigiano Johnny, suo alter ego, verso il professore di lettere del liceo Leonardo Cocito, divenuto nella narrazione professor Corradi. Indicando il ritratto del Duce alle sue spalle, questi commenta:
“Il gentiluomo alle mie spalle, in alto a destra, si appresta a combinare uno scherzetto per effetto del quale dovremo tutti occuparci di cose ben più importanti dell’Esame di Stato”.
Non diversamente Luigi Meneghello, che ci consegnerà uno splendido ritratto dei suoi docenti, come Antonio Giurolo, commenta gli anni di scuola cogliendo la connessione tra la volontà politica di tenere sotto controllo ideologico il sistema e la costrizione a non “innovare” sul piano dei contenuti. In altre parole, una scuola fatta di nozioni, di parole-parole e non parole-cose, era funzionale ad impedire la nascita di un pensiero critico, non omologato e costretto nei vincoli della gerarchia.
“Molti dei nostri insegnanti erano persone per bene, serie e oneste, e, in un mondo in cui mancavano di fatto le buone idee, non avevano altra scelta che di rifiutarsi almeno di propagare quella parodia di idee che erano le “idee” ufficiali, o di improvvisarne loro di posticce. “Idee importanti oggi non ce n’è”, diceva tacitamente l’ insegnamento dei migliori, Dal Piaz, Marin; si poteva solo insegnare cosucce, cos’è un Hysteron-proteron, la struttura delle graminacee, etc.
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