Il mestiere del traduttore / 4 – Ilaria Piperno
Più di un cuore. Tradurre i libri di Ella Frances Sanders
A Sara T.
Si ha la fortuna, a volte, di tradurre un autore che abbiamo scelto, a cui ci siamo appassionati da lettori prima che da traduttori. In altri casi, invece, i libri che abbiamo amato da lettori non sono quelli che abbiamo amato anche tradurre e i libri che abbiamo molto amato tradurre non ci hanno incantato quando li abbiamo letti. Qualche volta, però, i traduttori hanno la grazia di poter accedere a un piacere duplice della parola, quello che nasce dalla lettura e quello che emerge quando analizziamo, interroghiamo, ci scontriamo con le parole mentre le traduciamo.
L’incontro con i libri di Ella Sanders per me è stato un incontro fortunato. Lost in Translation, il suo primo libro, è arrivato nelle mie mani sottoforma di regalo natalizio grazie a un’amica, a cui sarò per sempre grata. Sono stata folgorata dalla leggerezza e creatività con cui un’illustratrice appena ventenne aveva affrontato un tema “scottante” come quello dell’intraducibilità, cogliendo un’intuizione a mio avviso geniale: ciò che si perde in traduzione si può recuperare in immagine o, anche, ciò che non è traducibile si può serenamente non tradurre e riempire di colori. Era una provocazione, un sogno, un desiderio, un’illusione, eppure quante persone hanno amato quel libro oltre a me? Quanti si sono avvicinati a lingue incomprensibili e culture lontanissime, percependole appena più vicine? Quanti lettori hanno scoperto l’esistenza di parole che non si possono tradurre nella nostra lingua se non con lunghe perifrasi, ma che esprimono emozioni, sensazioni universali, che noi proviamo spesso?
Tradurre Lost in Translation e Tagliare le nuvole col naso ha voluto dire tradurre da una lingua all’altra il viaggio avventuroso della comunicazione e della lingua stessa, quando tocca il confine mistico dell’intraducibilità o delle espressioni formulari, dei modi di dire più quotidiani eppure metaforici, analogici, quelli che Google Translator probabilmente non potrà ancora cogliere per molto, molto tempo. “Vorrei mangiarti il fegato” non vuol dire “desiderare di mangiare la ghiandola più grande del corpo umano” ma “ti voglio un bene immenso”, “stare in groppa a un maiale” non vuol dire “trovarsi sopra un suino” ma “sto alla grande” e “tagliare le nuvole col naso” non vuol dire “affettare le nuvole usando il proprio organo olfattivo” ma “essere molto superbo”. La traduzione di questi due libri è stata una traduzione da una lingua a un’altra, dall’inglese all’italiano, ma non solo. L’autrice stessa aveva “tradotto” in inglese parole e modi di dire di tantissime lingue diverse facendo anche una traduzione intersemiotica, se vogliamo, ovvero provando a trasporre le parole e i modi di dire in immagini. In questo caso il compito del traduttore doveva essere tradurre la scrittura dell’autrice, mantenere in un’altra lingua la stessa coesione con le immagini ma anche verificare e fare in modo che i “tentativi di traduzione” in inglese delle parole intraducibili e dei modi di dire da diverse lingue non tradissero il proprio senso profondo una volta ri-tradotti in italiano.
Come prescindere, allora, dal confronto con un testo originale che in questo caso era una sorta di doppio originale, quello in inglese e quello delle altre lingue? Per farlo, non potendo accedere a lingue che mi sono estranee, ho usato prima di tutto l’immensa risorsa dell’amicizia e delle reti amicali, fondamentali per un traduttore non meno dei vocabolari. Gli amici sono i “vocabolari parlanti” dei traduttori. Ho scritto e chiesto ad amici serbi, spagnoli, israeliani, francesi, giapponesi, russi, tedeschi, ma anche ad amici dei loro amici, che mi spiegassero parole come “Naz” e “Razliubit” o modi di dire come “mettersi un gatto in testa” o “guardare i ravanelli da sotto”.
Con Eating the Sun, il terzo libro di Ella Sanders appena uscito in Italia con il titolo Piccolo libro illustrato dell’universo, la traduzione ha richiesto un lavoro parallelo di documentazione, che spessissimo i traduttori si trovano a fare, anche se altrettanto spesso resta invisibile o comunque idealmente lontano da come più comunemente è immaginata la pratica del tradurre. Un traduttore può diventare un fine conoscitore di navigazione, droghe, cavalli e ippica, baseball, regole nei duelli di cappa e spada, vita vegetale, nel momento in cui si trova a tradurre romanzi o saggi che necessitano di una conoscenza più o meno approfondita in uno di questi campi. Prima del lavoro sulla lingua, sul ritmo, il registro, la questione dei dialetti o la traduzione della punteggiatura da una lingua all’altra, il traduttore deve capire di cosa si parla e capirlo senza possibilità di errore (o, almeno, provarci). E così, ognuno di noi s’immerge nei mondi che quella specifica traduzione porta con sé: i traduttori discutono di tutto, non so se esista una categoria professionale così puntigliosa e pedante come lo diventano i traduttori quando parlano fra loro e si confrontano. Se non si è appassionati di cavalli, si può andare alla ricerca per giorni delle singole parti che compongono una sella (a me è capitato), o fare inimmaginabili ricerche per capire di quale pianta acquatica si stia parlando (mi è capitato anche questo). In questo terzo libro la sfida era il linguaggio scientifico, era tradurre l’universo stesso: le tipologie di nuvole, la tavola degli elementi chimici, la composizione degli atomi, le varietà dei modi di suddividere il tempo, le galassie, la morte delle stelle, la teoria cinetica, le aurore e le specie animali che possiedono più di un cuore. Così, giusto per fare alcuni esempi. Una sfida niente male per una persona come me che ha rotto i rapporti con il mondo scientifico più o meno dopo l’esame di maturità.
Eppure, tradurre non è sapere ma è anche apprendere, acquisire conoscenze in funzione di quel mestiere creativo e al contempo severo e artigianale che è la traduzione. Non esiste traduzione senza mediazione culturale, ma per mediare devi prima capire e per capire devi prima sapere o imparare, se non sai. Ogni traduttore è anche un ricercatore, di parole, di voci, di inflessioni ma anche di interi settori di conoscenza.
Più di tutto, però, oltre ai vocabolari, lemmari, siti web fra i più disparati, ho cercato di tradurre i libri di Ella Sanders con più di un cuore, in senso concreto e metaforico. Concreto, perché i cuori dei parlanti che mi hanno aiutata a capire le parole più complesse di lingue estranee battevano in lingue diverse; metaforico, perché per me questa è stata la chiave della traduzione di questi libri, qui mi ha portato la varietà del linguaggio. E di due cuori che battono all’unisono io ho sempre bisogno per godere del legame profondo, quanto leggero, che Ella Sanders sa creare tra la lingua e l’illustrazione, tentando di far percepire lo stesso, imprescindibile legame anche al lettore in lingua italiana. Anche in questo terzo libro Ella Sanders non ha rinunciato alle illustrazioni, anzi. E io mi sono commossa davanti alla Terra e alla Luna che si abbracciano o alla piovra gigante che guarda ironicamente la piccola imbarcazione dagli abissi marini. I libri di quest’autrice non sono facilmente classificabili nel mercato editoriale, e questa era una delle obiezioni sollevate quando dicevo che avrei voluto proporre Lost in Translation in Italia. Questi libri non sono fumetti, non sono graphic novel, non sono albi illustrati. Eppure, il legame tra la lingua e l’illustrazione è irrinunciabile.
Così come per leggere questi libri, anche per tradurli bisogna avere più di un cuore, si devono possedere cuori ampi e variegati, cuori nomadi, in grado di viaggiare e cogliere tutte le sfumature della dolcezza, dell’ironia, dello sguardo gentile e appassionato di Ella Sanders sulle relazioni, il funzionamento, la natura, l’essenza polimorfa e sempre mutevole della lingua come di questo nostro universo.
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