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laletteraturaenoi.it

diretto da Romano Luperini

munro 20080212 0313

Qualcosa che ho sempre avuto intenzione di dirti

  Traduzione e introduzione di Valentina Fedi

Alice Munro scrive Something I’ve been meaning to tell you nel 1974, mentre si trova a Vancouver. In quel periodo insegna scrittura creativa e aiuta il marito, James Munro, a gestire il loro negozio di libri Munro’s books. Soltanto un anno dopo il suo matrimonio finirà e la scrittrice tornerà a vivere dove è nata, in Ontario.

I tredici racconti che compongono questa raccolta – la seconda, in ordine di tempo – forniscono un’importante chiave di lettura del complicato e affascinante universo di Alice Munro. Ingiustamente sottovalutata rispetto alle altre raccolte, la versione in italiano ha tardato ad arrivare ed è stata pubblicata soltanto nel novembre 2016 con il titolo Una cosa che volevo dirti da un po’, traduzione di Susanna Basso.

Il mio progetto nasce otto anni fa, e si concentra su tre dei tredici racconti: Qualcosa che ho sempre avuto intenzione di dirti, Il perdono in famiglia e Dimmi sì o no, quelli che più di tutti – a mio avviso – riescono a trasmettere a pieno la potenza narrativa di Alice Munro.

Tradurre un testo, specie se letterario, non è un’operazione scientifica. Come ha detto Umberto Eco, non esiste «un’unica traduzione accettabile» e quello della fedeltà all’opera originale non è un criterio prestabilito, di qualunque testo o autore si tratti. Leggendo i racconti di Something I’ve been meaning to tell you mi sono appassionata a ogni singola storia; traducendole ho cercato di interpretare le intenzioni dell’autrice, ma anche di mantenere l’uso molecolare che la Munro fa di frasi e parole. Il risultato è una traduzione diversa rispetto a quelle disponibili sul mercato: più fedele, a mio avviso, all’immediatezza narrativa dell’originale e per questo ancora più sorprendente per il lettore.

Tre storie di donne. Un presunto suicidio, una madre crudele e una storia d’amore dietro alla quale si cela un grande segreto sono gli ingredienti di questi tre racconti tratti da Something I’ve been meaning to tell you. I finali aperti lasciano al lettore la libertà di rivivere e interpretare personalmente le vicende narrate, di rileggere, di riscoprirle ogni volta, proprio come ho fatto io traducendole.


 Qualcosa che ho sempre avuto intenzione di dirti

«Comunque ci sa fare con le donne», disse Et a Char. Et non riuscì capire se sentendola pronunciare quelle parole Char fosse impallidita, perché lei pallida lo era da sempre. Adesso che anche i suoi capelli erano diventati bianchi, sembrava proprio un fantasma. Ciononostante non aveva perso la sua bellezza, quella non l’avrebbe persa mai.

«Non gli interessano l’aspetto e l’età», continuò Et. «Per lui è naturale come respirare, credo. Spero solo che qualche poveretta non cada nella sua rete».

«Io non mi preoccuperei», disse Char.

Il giorno precedente Et aveva accettato l’invito di Blaikie Noble a prendere parte a uno dei suoi tour organizzati e ascoltare il suo discorsetto da guida. Era stata invitata anche Char, ma ovviamente lei non ci andò. Blaikie Noble faceva il conducente di autobus. La parte in basso del mezzo era dipinta di rosso e quella superiore a strisce, per dare l’effetto di una tenda da sole. Sul lato era scritto: TOUR DEL LAKESHORE, TOMBE INDIANE, LIMESTONE GARDENS, VILLA DEL MILIONARIO, BLAIKIE NOBLE AUTISTA E GUIDA. Blaikie aveva una stanza all’hotel e, insieme ad un aiutante, faceva anche il giardiniere: tagliava l’erba, le siepi e si occupava di sistemare i vialetti. Come è caduto in basso, aveva detto Et all’inizio dell’estate non appena avevano saputo del suo ritorno. Lei e Char lo conoscevano da molto tempo.

Così Et si era ritrovata schiacciata tra un sacco di sconosciuti dentro all’autobus di Blaikie, prima che il pomeriggio fosse finito aveva già fatto amicizia con alcuni di loro e promesso di allargare un paio di giacche, come se non avesse già abbastanza da fare. Ma tutto ciò aveva poca importanza, lei si trovava lì per osservare lui.

Che cos’è che doveva mostrare? Qualche cumulo su cui era cresciuta dell’erba a coprire indiani defunti, un campo pieno di pietre calcaree dalle forme più strane, grigiastre, deprimenti – inverosimili imitazioni di piante (poteva essere un cimitero, se era questo quello che ci si voleva vedere) – e una vecchia villa mostruosa, costruita con il denaro ottenuto dalla vendita dei liquori. Era lo stesso Blaikie l’artefice della maggior parte di tutto ciò. Prima un discorso storico sugli indiani e poi uno scientifico su Limestone. Et non poteva sapere quanto di quel racconto fosse vero. Arthur l’avrebbe saputo. Ma Arthur non era lì; non c’era nessuno là se non un mucchio di donne sciocche che speravano di camminare assieme a Blaikie in un via vai di sguardi, di chiacchierare insieme a lui durante il tè nel gazebo di Limestone, che attendevano speranzose il contatto della sua mano forte sotto i loro gomiti e dell’altra, più morbida, da qualche parte intorno alla vita, mentre le aiutava a scendere dall’autobus («Io non sono una turista», sussurrò decisa Et quando provò a fare lo stesso anche con lei).

Disse loro che quella casa era infestata dagli spiriti. Era la prima volta che Et ne sentiva parlare, nonostante avesse sempre vissuto a dieci miglia da lì. Una donna ci aveva ucciso il marito lì dentro, il figlio del milionario, o almeno così si credeva.

«E come?» piagnucolò una signora tutta eccitata.

«Oh, tutte le donne muoiono dalla voglia di sapere come», disse Blaikie con voce soave, sprezzante e dolce al tempo stesso. «Lo ha avvelenato, con un veleno che uccide lentamente. O almeno questo è quello che raccontano. Sono tutte dicerie, tutti pettegolezzi locali». (Pettegolezzi locali un corno, pensò Et tra sé e sé). «Sembra che lei non apprezzasse le sue amicizie femminili. Le mogli non lo fanno mai. No».

Disse loro che il fantasma camminava sempre su e giù per il giardino, in mezzo a due file di abeti. A camminare però non era l’uomo assassinato, bensì la moglie, che rimpiangeva il suo gesto.

Blaikie sorrise malinconico ai passeggeri sull’autobus. All’inizio Et pensò che le sue attenzioni fossero false, che si trattasse di una cortesia di facciata, tanto per dar loro la convinzione di aver speso bene i propri soldi. Ma pian piano iniziò a cambiare idea. Si chinava verso ogni donna con cui parlava – non importava se fosse grassa, magra o stupida – come se ci fosse in lei qualcosa che sperava di trovare. Il suo sguardo era gentile e sorridente, ma anche serio, penetrante (era forse quella l’espressione che gli uomini avevano dopo aver fatto l’amore? Quell’espressione che Et non avrebbe mai visto?); simile a quello della strolaga quando si butta in picchiata, nel vuoto, nel freddo, tra i rottami, per afferrare l’oggetto del suo desiderio: piccolo e prezioso, difficile da localizzare, come un rubino sul fondo dell’oceano. Avrebbe voluto descrivere quell’occhiata a Char. Senza dubbio lei la conosceva già. Ma sapeva anche quanto facilmente veniva dispensata?

Quell’estate Char e Arthur avevano organizzato un viaggio per visitare il parco di Yellowstone e il Grand Canyon, ma alla fine non erano partiti. Ad Arthur erano venuti una serie di attacchi di vertigine non appena finita la scuola, e il dottore gli aveva ordinato assoluto riposo. Aveva parecchi problemi di salute. Era anemico, il battito del suo cuore era irregolare, soffriva di disturbi ai reni. Et temeva che fosse leucemia. Le capitava di svegliarsi durante la notte, preoccupata.

«Non essere sciocca», diceva Char serena, «È solo molto stanco».

Arthur si alzava dal letto solamente verso sera e se ne stava seduto in vestaglia. Blaikie Noble andò a fargli visita. Disse che la sua stanza in hotel era un buco sopra la cucina e che stavano cercando di cuocerlo a vapore.

Anche per questo motivo sembrò apprezzare particolarmente il fresco della veranda. Si misero a giocare ai giochi che Arthur amava, i classici giochi da maestro di scuola. Ne fecero uno sulla geografia, e poi si sfidarono nel formare il maggior numero di parole dal nome Beethoven. Arthur vinse. Ne trovò trentaquattro. La vittoria lo rese immensamente felice.

«Pensi di aver trovato il santo Graal?» tagliò corto Char.

Poi giocarono a “Chi sono?”: ognuno sceglieva un personaggio da impersonare – reale o immaginario, vivente o defunto, umano o animale – e gli altri dovevano provare a indovinarlo in venti domande. Et indovinò chi era Arthur alla tredicesima. Sir Galahad.

«Non avrei mai immaginato che ci saresti arrivata così presto».

«Ho ripensato alla battuta di Char sul Santo Graal».

«La mia forza è come la forza di dieci uomini», disse Blaikie Noble, «Perché il mio cuore è puro». «Non sapevo di ricordarmelo ancora».

«Avresti dovuto scegliere Re Artù», disse Et. «avete anche lo stesso nome».

«Sì effettivamente avrei dovuto. Re Artù era sposato con la donna più bella del mondo».

«Ah», concluse Et. «Sappiamo come va a finire questa storia».

Char andò in salotto e si mise a suonare il piano, immersa nell’oscurità.

I fiori che nascono in estate, tra-la,

Non hanno niente a che vedere col caso…

Quando a giugno Et era arrivata, senza respiro, e aveva esclamato «Indovina chi ho visto per strada, giù in centro» Char, che stava piegata sulle ginocchia a raccogliere le fragole, disse: «Blaikie Noble».

«Lo hai visto».

«No», rispose Char. «L’ho soltanto intuito. Penso di averlo capito dal tono della tua voce».

Blaikie Noble: un nome che non era stato menzionato tra di loro per trent’anni. Et in quel momento era ancora troppo eccitata per pensare alla risposta che le aveva dato sua sorella. Perché avrebbe dovuto essere una sorpresa per Char? In fondo esisteva il servizio postale in quel paese.

«Gli ho chiesto di sua moglie», continuò Et. – «Quella con la bambola». (Come se Char non se lo ricordasse). «Ha detto che è morta molto tempo fa. Non solo. Dopo si lei si è risposato ed è morta anche lei. Ma se nessuna delle due è riuscita a ereditare la sua ricchezza, dove sono finiti tutti i soldi dei Noble, quelli che hanno fatto con l’hotel?»

«Non lo sapremo mai», rispose Char mettendosi in bocca una fragola.

L’hotel era stato riaperto da poco. I Noble lo avevano lasciato negli anni Venti e la città lo aveva usato come ospedale per un po’. I nuovi proprietari erano di Toronto; avevano ristrutturato la sala da pranzo, ricavato una sala da cocktail, bonificato i prati e il giardino, il campo da tennis invece era ancora in pessime condizioni. Il set da croquet era stato tirato fuori di nuovo. Le persone arrivavano durante l’estate, ma non erano lo stesso tipo di clienti che erano soliti venire in passato. Coppie in pensione. Molte vedove e signore non sposate. Nessuno avrebbe fatto un passo per andare a vederli scendere dalla barca, pensò Et. Non che esistesse ancora una barca. Quella prima volta in cui incontrò Blaikie Noble per strada si era imposta di non farsi prendere alla sprovvista. Lui indossava un completo color crema e i suoi capelli, che erano sempre stati schiariti dal sole, adesso erano schiariti dal tempo, di bianco.

«Blaikie. Non sapevo se fossi tu o un cono gelato alla vaniglia. Scommetto che non mi hai riconosciuta».

«Sei Et Desmond e l’unica cosa di diverso in te è che non hai più le trecce». Poi le baciò la fronte, sfacciatamente, come sempre.

«E così sei tornato a visitare i vecchi posti», disse Et, chiedendosi chi avesse assistito a quella scena.

«Non a visitarli, a frequentarli». Le raccontò come avesse saputo che l’hotel era stato riaperto e quale fosse la sua attuale occupazione: guidava un autobus turistico, in Florida e nel Banff. Quando glielo chiese, le disse delle sue due mogli. Non le domandò se fosse sposata, dando per scontato di no. Non chiese nemmeno se lo fosse Char, fu lei a dirglielo. 

Et ricordava bene la prima volta che capì quanto Char fosse bella. Stava guardando una fotografia che le avevano fatto assieme a Char e al loro fratellino morto affogato. All’epoca lei aveva dieci anni, Char ne aveva quattordici e Sandy sette, era stata scattata appena un paio di settimane prima che lui morisse. Et stava seduta su una sedia senza braccioli e Char era dietro di lei, teneva le braccia conserte appoggiate sullo schienale della sedia, con Sandy nel suo completo da marinaio seduto a gambe incrociate sul pavimento – quello di un terrazzo di marmo, si direbbe dalla foto, grazie all’effetto dato da un paravento polveroso e giallognolo, che però in quell’immagine prendeva le sembianze di una colonna, di una tenda drappeggiata, di una scena di pioppi recisi e fontane. Per l’occasione Char si era appuntata i capelli che di solito portava sciolti sulla fronte, indossava un vestito di seta blu acceso, lungo fino alle caviglie – ovviamente il colore non si vedeva nella foto – con complicati inserti di velluto nero. Sorrideva leggermente, con grande compostezza. Avrebbe potuto avere diciotto anni così come ventidue. La sua bellezza non somigliava a quella delle donne che apparivano sui calendari e sui pacchetti di sigarette dell’epoca, timide e sensuali; lei era raffinata, delicata, superba, provocatoria.

Et aveva osservato a lungo quella foto e poi era andata in cucina da Char. Era giorno di bucato. La signora che era venuta a dare una mano stava passando i vestiti nello strizzatoio, la loro madre invece si era seduta a riposare, con lo sguardo perso nel vuoto, oltre la porta (non aveva mai superato la morte di Sandy, nessuno si aspettava che lo avrebbe fatto). Char stava inamidando i colletti del padre. Aveva un negozio di tabacco e caramelle nella piazza principale del paese e indossava un colletto pulito ogni giorno. Et si aspettava che fosse avvenuta una qualche metamorfosi, come quella nello sfondo della foto, ma non fu così. Char, piegata sopra alla bacinella con l’amido, silenziosa e di cattivo umore (odiava il giorno di bucato, il caldo, il vapore, sbattere le lenzuola, la confusione della lavatrice – in realtà, non amava nessun tipo di lavoro domestico), mostrava dal vivo la stessa armonia, quasi sprezzante, che ostentava nella foto. Questo fece capire a Et, in modo non del tutto piacevole, che le qualità narrate nelle leggende esistevano veramente e che apparivano dove e quando meno te lo aspetti. Aveva quasi creduto che le belle donne fossero un’invenzione. Ogni domenica, lei e Char, andavano a vedere quelli che scendevano dalla barca e rientravano in hotel dopo l’escursione. Tutto quel bianco faceva male agli occhi: i vestiti delle signore, i parasole, i completi estivi degli uomini e i cappelli di Panama, per non parlare dell’abbagliante riflesso del sole sull’acqua e della banda che suonava. Guardando attentamente quelle signore, Et riusciva sempre a trovare un difetto. Poteva essere la pelle ruvida, il sedere grosso, il collo di gallina, i capelli aggrovigliati e spenti, probabilmente perché cotonati. Non si lasciava sfuggire niente, giovane com’era. A scuola era rispettata per la sua sicurezza e la sua lingua tagliente. Era lei l’unica a dirti se eri stata alla lavagna con un buco sulle calze o con un orlo scucito. L’unica a fare l’imitazione del maestro mentre leggeva The Burial of Sir John Moore (ma sempre in un angolo sicuro del cortile della scuola, lontana da orecchie indiscrete).

Per Et sarebbe stato più semplice se avesse trovato bella una di quelle signore, invece di Char. Sarebbe stato più conveniente. Più appropriato di Char con il suo grembiule bagnato e la sua espressione irritata, chinata sulla bacinella con l’amido. Et era una persona a cui non piacevano le contraddizioni, non piacevano le cose fuori posto, non piacevano i misteri e gli estremi.

Non gradiva neanche avere attaccata a sé la tetra notorietà dovuta all’annegamento di Sandy, né che le persone continuassero a ricordare la scena di suo padre che riportava a casa il corpo del fratellino dalla spiaggia. La si poteva vedeva in giro verso l’ora del tramonto, con indosso i suoi pantaloni da ginnastica, a fare le ruote nel prato della casa demolita. Un giorno, al parco, fece una smorfia di cui nessuno si accorse, quando Char disse «Era il mio fratellino quello che è affogato».

Il parco si affacciava sulla spiaggia. Erano lì con Blaikie Noble, il figlio del proprietario dell’hotel, quando lui disse «Quelle onde potrebbero essere pericolose. Tre o quattro anni fa c’è affogato un bambino».

E Char rispose (a dire il vero non lo disse in modo tragico, ma in tono quasi divertito, probabilmente dal fatto che lui sapesse così poco degli abitanti di Mock Hill): «Era il mio fratellino quello che è affogato».

Blaikie Noble non era più grande di Char – in tal caso sarebbe stato a combattere in Francia – ma non aveva dovuto trascorrere tutta la vita a Mock Hill. Non conosceva gli abitanti del paese così bene come i clienti abituali dell’hotel di suo padre. Ogni inverno se ne andava in California con i suoi genitori, in treno. Aveva visto i surfisti del Pacifico e giurato fedeltà alla loro bandiera. I suoi modi di fare erano democratici, la sua pelle abbronzata. E a quel tempo le persone non si abbronzavano nel tempo libero, ma solamente a lavoro. I suoi capelli erano schiariti dal sole. Era bello quasi quanto Char, ma non aveva il suo fascino.

Quello era il periodo d’oro di Mock Hill, così come di tutti gli altri paesi intorno ai laghi e di tutti gli hotel che negli anni avvenire sarebbero diventati campi scuola per bambini di città, sanatori per i malati di tubercolosi o caserme per l’addestramento di piloti della R.A.F. durante la Seconda guerra mondiale. Ogni estate l’hotel veniva imbiancato, ciocchi incavati e riempiti di fiori venivano sistemati lungo la ringhiera, altri vasi di fiori appesi a delle catene gli dondolavano sopra. I set da croquet e le altalene di legno venivano sistemate nei prati e il campo da tennis veniva spianato. Le persone che non potevano permettersi di alloggiare in hotel – come i giovani lavoratori o le commesse e le operaie provenienti dalla città – alloggiavano in una fila di piccoli cottage disposti molto lontano dalla spiaggia, collegati tra loro da delle grate che servivano a coprire i bidoni della spazzatura e i bagni pubblici. Alle ragazze di Mock Hill, o almeno a quelle con una madre che diceva loro che cosa fare, veniva proibito di andare laggiù. A Char non l’aveva mai vietato nessuno, così, i pomeriggi in cui faceva troppo caldo, andava a camminare lungo la passerella lì di fronte portandosi Et con sé a tenerle compagnia. I cottage non avevano i vetri alle finestre, c’erano solo gli infissi delle persiane in legno che venivano chiuse durante la notte. Da quei buchi neri arrivavano uno o due vaghi, mesti e strascicati inviti, tutto qua.

L’aspetto e lo stile di Char non attiravano gli uomini, piuttosto li intimidivano. Durante tutta la durata delle scuole superiori a Mock Hill non aveva avuto nessun fidanzato. Blaikie Noble fu il primo, se è questo quello che fu.

Che cosa c’era stato tra Char e Blaikie Noble, nell’estate del 1918? Et non era ancora riuscita a capirlo. Lui non aveva mai telefonato a casa, o almeno non più di una volta o due. Era molto impegnato con il suo lavoro all’hotel. Tutti i pomeriggi guidava un furgone – coperto nella parte superiore da una tenda da sole – per le escursioni all’aperto. Il percorso si estendeva lungo la riva del lago: portava le persone a vedere le tombe degli indiani, il Limestone garden e a dare un’occhiata attraverso gli alberi alla villa di pietra in stile gotico, costruita da una distilleria di Toronto e conosciuta nel posto come Grog Castle. Si occupava anche dei vari show che l’hotel organizzava una volta alla settimana grazie alla partecipazione di alcuni artisti locali, di ospiti ingaggiati per l’occasione e di cantanti e attori arrivati appositamente per lo spettacolo.

L’unico momento per lui e Char sembrava essere la tarda mattinata. «Muoviti», diceva lei ad Et, «Devo andare giù in città», e in effetti era vero, avrebbe dovuto ritirare la posta e percorrere un pezzo di strada intorno alla piazza prima di poter deviare verso il parco. Blaikie Noble sarebbe apparso poco dopo dalla porta laterale dell’hotel, balzando lungo il sentiero scosceso. A volte non passava dalla strada e saltava direttamente la staccionata sul retro, nel tentativo di stupirle. Nessuna di queste due cose, balzare lungo il sentiero o saltare la staccionata, erano fatte alla maniera di un qualsiasi ragazzo di Mock Hill, in modo impacciato eppure naturale. Blaikie Noble si comportava come un uomo che imita gli atteggiamenti di un ragazzo; a volte si prendeva in giro, ma lo faceva comunque con grazia, come un attore.

«È talmente pieno di sé, non lo pensi anche tu?» disse Et a Char, vedendolo arrivare. La posizione che aveva preso fin da subito su Blaikie era che a lei non piaceva.

«Certo che lo è», affermò Char.

Poi si rivolse a Blaikie. «Et pensa che tu sia un tipo pieno di sé».

«Cosa?!»

«Io le ho risposto che dovevi esserlo per forza».

A Blaikie non importava. Aveva deciso che Et gli piaceva. Con una mossa svelta le sciolse le trecce rovinandole l’acconciatura. Raccontò loro alcuni aneddoti sugli artisti che si esibivano in concerto. Disse che la cantante scozzese era un’ubriacona e portava i corsetti, che l’imitatrice indossava anche nella sua stanza in hotel una camicia da notte blu con delle piume, che la ventriloqua parlava con le sue bambole – si chiamavano Alphonse e Alicia – come se fossero persone reali, e che le teneva sedute sul letto accanto a lei, una per lato.

«Come lo sai?» Chiese Char.

«Le porto su la colazione».

«Credevo lo facessero le cameriere».

«La mattina dopo lo spettacolo lo faccio io. Gli porto anche la busta con la paga e la lettera con la comunicazione che il loro lavoro è finito. Alcuni resterebbero tutta la settimana se non li informassi. Lei si siede sul letto e cerca di dargli da mangiare pezzettini di bacon, parla con loro e le fa rispondere, ti prenderebbe un colpo se la vedessi».

«Sarà pazza», disse Char tranquillamente.

Una notte, quell’estate, Et si svegliò ricordandosi di aver lasciato il suo vestito rosa di organza appeso al filo dopo averlo lavato. Le era sembrato di sentire delle gocce di pioggia. Si sbagliava, era solamente il fruscio delle foglie, ma dopo essersi svegliata in quel modo era ancora troppo confusa. Si alzò e scese le scale, accese la luce in fondo alla cucina, uscì dalla porta sul retro, e in piedi sulla veranda tirò il filo dei panni verso di sé. Poi, quasi sotto ai suoi piedi, dal prato proprio dietro la veranda, dove una pianta di lillà era cresciuta e si era ingrandita – nonostante nessuno se ne fosse occupato – fino a raggiungere la dimensione di un albero, si stagliarono due figure: non erano in piedi né sedute, alzavano a malapena la testa come se fossero a letto, continuando in qualche modo ad aggrovigliarsi. La lampada in fondo alla cucina non faceva luce direttamente sul prato, ma illuminava il giardino abbastanza da permetterle di vedere i loro volti. Blaikie e Char.

Non guardò in che stato fossero i loro vestiti, per capire fino a che punto si fossero spinti o si stavano spingendo. Non voleva saperlo. Vedere le loro facce era stato abbastanza per lei. Le loro labbra erano grandi e gonfie, le loro guance schiacciate, ruvide, i loro occhi profondi come crateri. Et lasciò andare il vestito, sgattaiolò velocemente in casa ed entrò nel suo letto, dove con sua sorpresa si addormentò. Char non proferì parola al riguardo il giorno seguente. Tutto quello che disse fu, «Ho portato dentro il tuo vestito, Et. Ho pensato che avrebbe potuto piovere». Come se non l’avesse vista lì fuori mentre tirava il filo dei panni. Continuò a farsi un sacco di domande. Sapeva che se le avesse detto «Tu mi hai vista», probabilmente Char le avrebbe risposto che era stato un sogno. Le lasciò pensare che si fosse convinta di aver sognato anche lei, sempre che questo fosse veramente quello che Char le avrebbe detto. E così rinunciò a saperne di più; rinunciò a sapere come sua sorella apparisse priva di difese, una volta abdicato.

Sandy era affogato, le alghe verdastre che gli tappavano le narici lo facevano sembrare ancora più indifeso.

Prima di Natale arrivò a Mock Hill la notizia che Blaikie Noble si era sposato. Aveva preso in moglie la signora che faceva la ventriloqua, quella con Alphonse e Alicia. Il ricordo di quelle bambole, con indosso vestiti da sera e acconciature patinate simili a quelle di Veronon e Irene Castle era più nitido di quello della donna stessa. L’unica cosa che la gente si ricordava con certezza di lei era che non doveva avere meno di quarant’anni. Lui ne aveva solo diciannove. Questo era successo perché non era stato cresciuto come gli altri ragazzi, gli era stato permesso di occuparsi dell’hotel, era stato portato in California, gli era stato concesso di frequentare ogni tipo di persona. Il risultato era stata la depravazione, come prevedibile.

Char inghiottì del veleno. O quello che lei credette essere veleno. Era sbiancante per panni. La prima cosa che era riuscita a tirare giù dallo scaffale in fondo alla cucina. Et arrivò a casa dopo la scuola (aveva sentito la notizia a mezzogiorno, da Char stessa in effetti, che mettendosi a ridere aveva detto «Non ti ucciderebbe una cosa del genere?») e la trovò in bagno a vomitare. «Vai, prendi il libro di medicina» le disse Char. Poi emise involontariamente un terribile gemito. «Leggi che cosa dice riguardo al veleno». Et invece corse a chiamare il dottore. Char uscì dal bagno barcollando, stringendo la bottiglia di candeggina che tenevano dietro alla bacinella dei panni. «Se non abbassi il telefono berrò tutta la bottiglia», disse serissima, con un filo di voce. Nel frattempo, la loro madre stava probabilmente dormendo, dietro la porta chiusa della sua camera.

Et dovette abbassare il telefono e guardare nel brutto e vecchio libro dove molto tempo prima aveva letto come nascono i bambini e anche qualcosa sulle sintomatologie mortali, e dove aveva imparato come guardarsi dentro la bocca con lo specchietto. Sbagliando, credeva che Char avesse già bevuto dalla bottiglietta di candeggina, così lesse tutto quello che c’era scritto a riguardo. Poi scoprì che aveva bevuto lo sbiancante. Quello sul libro non c’era, ma la cosa migliore da fare sembrava farla vomitare, così consigliava il manuale per la maggior parte dei veleni – Char lo stava già facendo, non aveva bisogno di essere aiutata – e poi farle bere un quarto di latte. Una volta bevuto il latte Char si sentì di nuovo male.

«Non l’ho fatto per Blaikie Noble» mormorò tra uno spasmo e l’altro. «Non penserai questo. Non sono così stupida. Un pervertito come lui. L’ho fatto perché sono stanca di vivere».

«E come mai sei stanca di vivere?» Disse Et con dolcezza dopo che Char si fu pulita la faccia.

«Sono stanca di questa città e di tutte le stupide persone che ci vivono, e di mamma, e della sua idropisia, e di prendermi cura della casa, e di lavare le lenzuola ogni giorno. Non credo di dover vomitare ancora. Forse potrei bere un po’ di caffè. Il libro dice di bere del caffè».

Et fece il caffè e Char tirò fuori due delle tazze più belle. Cominciarono a ridere non appena iniziarono a bere.

«Io sono stanca del latino», esordì Et. «Sono stufa dell’algebra. Penso che berrò dello sbiancante per panni».

«La vita è un peso», continuò Char. «O vita, dov’è il tuo dardo?»

«O morte. O morte, dov’è il tuo dardo?  »

«Ho detto vita? Scusami volevo dire morte. O morte, dov’è il tuo dardo? »

Un pomeriggio Et si ritrovò in casa da sola con Arthur, Char era andata alla Biblioteca a prendere dei libri e a renderne altri. Le venne in mente di  preparargli dello zabaione, e andò a cercare della noce moscata nella credenza. Al suo interno, insieme alla vaniglia, all’estratto di mandorle e al rum artificiale, trovò una piccola bottiglia contenente uno strano liquido. Fosfato di zinco. Lesse l’etichetta e se la rigirò tra le mani. Rodenticida. Un veleno per topi. Non sapeva che Char e Arthur avessero problemi con i topi. Avevano persino un gatto, il vecchio Tom, che in quel momento stava dormendo ai piedi di Arthur. Svitò il tappo e annusò il contenuto per sentire che odore avesse. Nessun odore, ovviamente. Non doveva avere nemmeno sapore, non avrebbe potuto ingannare i topi altrimenti.

Lo rimise dove lo aveva trovato. Fece ad Arthur il suo zabaione, glielo portò e lo guardò mentre lo beveva. Un veleno che uccide lentamente. Le tornò alla mente pensando alla stupida storia di Blaikie Noble. Arthur intanto beveva avidamente, come un bambino, soprattutto per farle piacere, pensò Et, ma anche perché doveva piacergli molto. Avrebbe bevuto qualsiasi cosa gli fosse stata offerta. Con naturalezza.

«Come stai in questi giorni, Arthur?»

«Oh, Et. Ci sono periodi in cui mi sento un po’ più forte, e poi mi sembra di peggiorare di nuovo. Ci vuole tempo».

Non era mai stata usata, la boccetta sembrava piena. Che terribile sciocchezza. Come qualcosa che leggi in un libro, come in un romanzo di Agatha Christie. Ne avrebbe parlato con Char e lei le avrebbe dato una spiegazione.

«Vuoi che ti legga qualcosa?» chiese Et ad Arthur, e lui rispose di sì. Si sedette vicino al letto e gli lesse una parte di un libro sul Duca di Wellington. Lo stava leggendo da solo, ma le sue braccia si erano affaticate nel tenerlo su. Tutte quelle battaglie, quelle guerre, quelle cose terribili, che cosa ne sapeva Arthur, come mai ne era così interessato? In realtà, non ne sapeva niente. Né come mai era accaduto tutto ciò, né perché le persone non si erano comportate bene. Lui era troppo buono. Conosceva bene la storia, ma non aveva la minima idea di quello che era accaduto davanti ai suoi occhi, in quella casa o in qualsiasi altro posto. Et invece sapeva quello che era successo, anche se non riusciva a capirne il perché; lei era pienamente consapevole che esistessero persone di cui non potersi fidare.

Alla fine non disse niente a Char. Ogni volta che si trovava in casa cercava qualche scusa per rimanere sola in cucina, così da poter aprire la credenza, mettersi in punta di piedi e dare un’occhiata dentro, per vedere quella boccetta meglio delle altre, per controllare che il livello del suo contenuto non fosse sceso. Pensò che stesse diventando strana, un po’ come i vecchi matti; questa sua paura era come gli assurdi e innocui timori che le giovani ragazze hanno a volte: saltar giù da una finestra, strangolare un bambino mentre è seduto nel suo passeggino. Sebbene non fossero i suoi comportamenti quelli che le facevano paura.

Et guardò Char, Blaikie e Arthr seduti in veranda mentre erano intenti a decidere se tornare dentro, accendere la luce e mettersi a giocare a carte. Voleva convincersi della sua stupidità. I capelli di Char, e quelli di Blaikie risplendevano nell’oscurità. Arthur ormai era quasi calvo e quelli di Et erano fini e scuri. Char e Blaikie le sembravano due animali appartenenti alla stessa specie: alti, lucenti, potenti, con una pericolosa esuberanza. Erano seduti lontani ma splendevano insieme. Amanti. Non una parola dolce, come pensa la gente, ma crudele e violenta. Arthur stava seduto sulla sedia a dondolo con una coperta sulle ginocchia, la sua espressione era priva di vita, quasi come fosse un essere che non è riuscito a crescere completamente, che non ha sviluppato l’ultimo strato di pelle. Eppure, in un certo senso, erano proprio le persone come lui a creare più problemi di tutti .

«Io amo il mio amore con la R, perché è spietato. Il suo nome è Rex, e vive in un – Ristorante».

«Io amo il mio amore con la A, perché è distratto. Il suo nome è Arthur, e vive in una pattumiera ».

«Ma come Et», disse Arthur. «Non me lo sarei mai immaginato. Comunque non so se mi piace la storia della pattumiera».

«Penserai che abbiamo tutti dodici anni», asserì Char.

Dopo l’episodio dello sbiancante era diventata popolare. Venne coinvolta nell’associazione di attori drammatici amatoriali e nel circolo dell’oratorio, nonostante non fosse né un’attrice né una cantante. Negli spettacoli interpretava sempre il ruolo dell’eroina fredda e bellissima, o la fragile e squisita giovane donna di società. Imparò a fumare, dato che doveva farlo sul palco. Durante uno spettacolo, che Et non aveva mai dimenticato, recitò il ruolo di una statua. O meglio, interpretò una ragazza che fingeva di essere una statua, un giovane uomo si innamorava di lei ma alla fine scopriva la verità, confuso e forse deluso dal fatto che lei fosse solo un essere umano. Char doveva stare in piedi sul palco perfettamente immobile per otto minuti, avvolta in un drappo di carta pesta, e mostrare al pubblico il suo sottile e indifferente profilo. Tutti si meravigliarono di come ci fosse riuscita.

La mente che stava dietro all’associazione di attori drammatici amatoriali e al circolo dell’oratorio era un professore della scuola superiore arrivato da poco a Mock Hill: Arthur Comber. Aveva insegnato storia a Et durante il suo ultimo anno. Tutti dicevano che le aveva dato una A perché era innamorato di sua sorella, ma Et sapeva che gliel’aveva data perché aveva lavorato più duramente di quanto avesse mai fatto prima; imparò la storia del Nord America come non aveva mai imparato nient’altro nella sua vita. Il Missouri Compromise. L’arrivo di Mackenzie nel Pacifico, 1793 – non lo aveva mai dimenticato.

Arthur Comber aveva trent’anni o giù di lì, la fronte alta e calva e la faccia rossa (che poi sarebbe diventata pallida) nonostante non bevesse, si comportava in modo goffo e agitato. Una volta rovesciò una boccetta di inchiostro dal suo tavolo e il pavimento della sala di Storia rimase macchiato per sempre. «Ohimè, ohimè», continuava a ripetere, accovacciato sull’inchiostro che si stava espandendo, mentre lo tamponava con il suo fazzoletto. Et gli faceva l’imitazione. «Ohimè, ohimè!» «Oh santo cielo!» Sapeva imitare tutte le  sue  espressioni concitate e i suoi gesti impacciati. In seguito, quando con la faccia rossa piena di entusiasmo, lui le prese il compito sulla porta dell’ufficio, dimostrando una così grande approvazione sia per il suo lavoro sia per lei stessa, Et si sentì in colpa. Era questo il motivo per il quale aveva lavorato così duramente, pensò lei, per compensare il fatto di averlo preso in giro.

Sopra al suo abito, quando insegnava, indossava una toga scolastica. Ma Et poteva vedergliela addosso anche fuori da scuola. Mentre correva lungo la strada per uno dei suoi innumerevoli incarichi presi con gioia, mentre si precipitava dai cantanti dell’Oratorio, mentre saltava sul palco – così da far tremare tutto il pavimento – per dimostrare qualcosa agli attori di una commedia, le sembrava che avesse sempre quelle lunghe e ridicole ali da cornacchia che penzolavano dietro di lui, che fosse così diverso dagli altri uomini, così assurdo e allo stesso tempo così intrigante, come un parroco dell’ordine della Santa Croce.

Dopo che si furono sposati Char gli fece abbandonare la toga del tutto. Aveva saputo che una volta ci era inciampato mentre correva sugli scalini della scuola. Era finito a gambe all’aria. Fu la sua fine: Char gliela strappò.

«Avevo paura che uno di questi giorni ti saresti fatto male sul serio». Ma Arthur disse «Ah. Tu pensavi che sembrassi uno stupido».

Char non lo negò, nonostante i suoi occhi e il suo ampio sorriso la supplicassero di farlo. La sua bocca si contrasse agli angoli, a dispetto di lei, che restò immobile. Sprezzante. Infuriata. Et vide, entrambi videro, una grande onda di disprezzo e rabbia attraversare Char prima che riuscisse a sorridergli e dire «Non essere sciocco». Allora il suo sorriso e i suoi occhi cercarono di tenersi stretti a lui, di aggrapparsi alla sua bontà (che lei vedeva, così come tutti gli altri, ma che alla fine la faceva solo arrabbiare, pensava Et, come tutto ciò che lo riguardava, come la sua fronte sudata e il suo galoppante ottimismo), prima che quell’onda bollente potesse tornare di nuovo, stavolta portandosela via completamente.

Char ebbe un aborto spontaneo durante i primi anni del suo matrimonio, dopo questo episodio continuò a non sentirsi bene per molto tempo. Non rimase mai più incinta. Et non viveva a casa a quel tempo; aveva un posto tutto suo nella piazza principale del paese, ma una volta si trovava lì durante il giorno di bucato, per aiutare Char a ritirare le lenzuola. I loro genitori erano entrambi morti allora – la loro madre era morta prima del matrimonio e il loro padre dopo – ma a Et quelle sembravano le lenzuola per due letti.

«Deve procurarti un sacco di bucato da fare».

«Che cosa?»

«Cambiare le lenzuola come fai tu».

Et si trovava spesso lì la sera, a giocare a ramino con Arthur mentre Char, nell’altra stanza, suonava il piano nell’oscurità. O a parlare e a leggere libri della con Char, mentre Arthur correggeva i suoi compiti. Poi lui la accompagnava a piedi a casa. «E comunque, perché devi andartene e vivere da sola?» la rimproverava. «Dovresti tornare a vivere con noi».

«Non conosci il detto “Tre persone sono una folla”?».

«Non sarebbe per molto tempo. Qualcuno, uno di questi giorni, sta per arrivare e innamorarsi pazzamente di te».

«Se fosse così stupido da farlo non mi innamorerei mai di lui, e così saremmo di nuovo al punto di partenza».

«Io sono stato lo stupido che si è innamorato di Char allora, ma lei alla fine mi ha sposato».

Solo il modo in cui pronunciò il suo nome chiarì quanto Char per lui fosse al di sopra di tutto, fuori da ogni ordinaria considerazione – un prodigio, un mistero. Nessuno poteva sperare di capirla, loro erano fin troppo fortunati ad avere il permesso di contemplarla. Et fu sul punto di dire «Ha ingoiato dello sbiancante per panni una volta, a causa di un uomo che non la voleva», ma poi pensò che non ne sarebbe scaturito nulla di buono: Char sarebbe solo apparsa ancora più splendida agli occhi di Arthur, come un’eroina uscita da una tragedia di Shakespeare. Lui strinse la vita di Et come per sottolineare la loro comune incertezza, la loro involontaria obbedienza nei confronti di sua sorella. Et avvertì forte la pressione delle sue dita come se avessero lasciato un segno appena sopra al punto in cui era allacciata la sua gonna. Le sembrò lo stesso tocco di qualcuno che distrattamente giocherella coi tasti di un pianoforte.

Et faceva la sarta. Viveva in una lunga e stretta stanza nella piazza del paese, che una volta era stata un negozio, lì prendeva le misure, cuciva, tagliava, stirava e, dietro a una tenda, dormiva e cucinava. Poteva starsene sdraiata nel letto e guardare i quadrati di alluminio cesellato sul suo soffitto, la loro fantasia floreale, tutti i suoi averi. Arthur non aveva approvato la sua decisione di diventare sarta, pensava che fosse troppo intelligente per questo. Tutto il duro lavoro che aveva fatto per il corso di storia gli aveva fornito un’idea esagerata delle sue capacità.

«Oltretutto», gli disse lei una volta «Serve più cervello per tagliare e prendere le misure, se lo fai bene, che per spiegare alle persone la guerra del 1812. Perché quella, una volta imparata, è un concetto assimilato, e non apporterà in te nessun cambiamento. Mentre ogni articolo di abbigliamento che fai è una competenza totalmente nuova che acquisisci».

«È stata comunque una sorpresa», disse Arthur, «vedere come ti sei sistemata».

Tutti erano rimasti stupiti dalla trasformazione di Et, tutti tranne lei. Il cambiamento era avvenuto naturalmente: la ragazzina che faceva le ruote nei prati era diventata una figura di riferimento in città. Aveva fatto fuori dal commercio tutte le altre sarte. Loro erano state modeste, o comunque banali: si erano accontentate di lavorare casa per casa, di cucire nel retro, ed erano grate ai loro clienti per i pasti che gli offrivano. In tutti quegli anni per Et c’era stata una sola vera rivale, una donna finlandese che si faceva chiamare stilista. Alcuni fecero un tentativo con questa sarta finlandese, perché le persone non sono mai soddisfatte, ma presto venne fuori che aveva stile ma non sapeva prendere le misure. Et non la nominò mai, lasciò che le persone scoprissero da sole questo suo limite, ma in seguito, quando la donna lasciò la città e si trasferì a Toronto – dove, per quello che Et aveva visto per strada nessuno sapeva distinguere chi prendeva bene le misure e chi no – non seppe trattenersi. A una cliente a cui stava prendendo le misure disse «Vedo che indossi ancora quello straccio che la mia amica forestiera ti ha imbastito. Ti ho vista per strada».

«Oh, lo so» rispose la donna. «Ma devo pur consumarlo».

«Già, e a ogni modo non puoi vederti da dietro, quindi che differenza fa?»

I clienti accettavano anche questo genere di affermazioni da lei, c’era da aspettarsele. È terribile, dicevano, Et è terribile. Aveva un vantaggio su di loro, li aveva di fronte in mutande e corsetto. Signore che fuori sembravano decise e forti lì erano immobilizzate, remissive, tremolanti, personcine modeste strizzate nei loro corsetti, con il seno sfatto ed aggrinzito, la pancia gonfia e rovinata da parti e operazioni.

Et chiudeva sempre le tende ben strette, tappando i buchi.

«Lo fai per non far sbirciare gli uomini?»

Ripetevano le signore ridacchiando nervosamente.

«Lo faccio per evitare che Jimmy Saunders zoppichi fin qua per dare un’occhiata».

Jimmy Saunders era un veterano della Prima guerra mondiale che aveva un piccolo negozio accanto a quello di Et, vendeva briglie e articoli in pelle.

«Oh, Et. Jimmy Saunders ha una gamba di legno».

«Ma i suoi occhi non sono di legno. Né nient’altro oltre la gamba, che io sappia».

«Et, sei terribile».

Et faceva vestire sua sorella splendidamente. Le due critiche più frequenti che muovevano a Char a Mock Hill erano che si vestiva in modo troppo elegante, e che fumava. Era la moglie di un insegnante, e avrebbe dovuto trattenersi dal fare entrambe le cose, ma Arthur ovviamente le lasciava fare tutto quello che voleva, le aveva anche comprato un bocchino come quello delle modelle nei giornali. Al ballo della scuola fumò, quella sera indossava un vestito da sera nero, di seta, che le lasciava la schiena scoperta, ballò con un tipo che aveva messo incinta una ragazza della scuola, ma per Arthur tutto ciò non aveva importanza. Non riuscì a diventare Preside. Per due volte il consiglio scolastico lo scartò e scelse un forestiero. Quando finalmente gli dettero l’incarico – nel 1942 – fu solo temporaneamente, e perché molti insegnanti erano partiti per la guerra.

Char aveva combattuto duramente negli anni per mantenere la sua forma fisica. Nessuno a parte Et e Arthur sapeva quanto sforzo le costasse. Nessuno a parte Et conosceva tutta la storia. Entrambi i loro genitori erano di costituzione robusta, Char aveva ereditato la tendenza a ingrassare, Et invece era sempre stata magra come un chiodo.

Faceva degli esercizi e beveva un bicchiere di acqua calda prima di ogni pasto. Ma a volte finiva per mangiare esageratamente. Et sapeva che si era abbuffata buttando giù dozzine di bignè alla crema uno dietro l’altro, chili di croccante agli arachidi o un’intera torta di meringa al limone. Poi pallida e spaventata buttava giù del sale amaro, una dose tre o quattro volte superiore a quella che le era stata prescritta. Per due o tre giorni sarebbe stata male, si disidratava per purificarsi dai suoi peccati, diceva Et. Durante questi periodi non poteva neanche vederlo il cibo. Et doveva andare a cucinare la cena ad Arthur. Lui non sapeva della torta né del croccante di arachidi o qualunque altra cosa fosse, non era neanche a conoscenza del sale amaro. Pensava che avesse messo su un chilo o due e avesse intrapreso una fanatica fase di dieta. Si preoccupava per lei.

«Qual è la differenza? Che importa?» diceva Arthur a Et. «Sarebbe comunque bella».

«Non si farà alcun male», gli rispondeva lei assaporando il suo cibo, felice di vedere che lui mangiasse nonostante la preoccupazione. Preparava sempre delle buone cene. 

Era la settimana prima del week end del Labor day. Blaikie era andato a Toronto, “per un giorno o due” aveva detto.

«C’è silenzio senza di lui», disse Arthur.

«Non mi ero mai resa conto che fosse un così grande amante della conversazione» esclamò Et.

«Volevo soltanto dire che mi sono abituato alla sua presenza».

«Forse dovremmo iniziare a farne a meno invece».

Arthur era infelice. Non era tornato a scuola; aveva ottenuto un permesso fino a dopo le vacanze di Natale, ma nessuno credeva che sarebbe rientrato nemmeno una volta finita quella pausa.

«Suppongo che abbia dei progetti per l’inverno» continuò lui.

«In realtà potrebbe avere dei progetti anche in questo momento. Sai che ho dei clienti nell’hotel. Ho le mie conoscenze. Da quando sono andata a fare quell’escursione sento molte cose».

Nemmeno Et sapeva dove avesse preso l’ispirazione per dirlo, dove l’avesse trovata. Non l’aveva minimamente programmato, eppure le era venuto così spontaneo, aveva pronunciato quelle parole in modo così credibile.

«Ho sentito che ha iniziato a frequentare una signora benestante giù all’hotel».

Athur era l’unico a essere interessato, al contrario di Char.

«Una vedova?»

«Due volte vedova, credo. Come lui. E ha ereditato i soldi da entrambi i mariti. Si sospetta da un po’ questa tresca e lei ne parla apertamente anche se lui non ha mai detto niente al riguardo. A te ha mai detto qualcosa, Char?»

«No», rispose lei.

«Questo pomeriggio ho sentito dire che se n’è andato, e se n’è andata anche lei. Non sarebbe la prima volta che fa una cosa del genere. Char e io ce lo ricordiamo bene».

A quel punto Arthur volle sapere a che cosa si riferisse ed Et gli raccontò la storia della ventriloqua, si ricordò anche i nomi delle bambole, ovviamente omise tutto ciò che riguardava la sorella. Char sopportò il racconto fino alla fine, contribuendo anche un po’.

«Potrebbero tornare, ma credo che si sentirebbero troppo in imbarazzo. Di sicuro lui lo sarebbe. Lo imbarazzerebbe venire qui, almeno».

«Perché?» disse Arthur, che aveva anche un po’ sorriso durante la storia della ventriloqua. «Non abbiamo mai posto alcun divieto contro gli uomini che stanno per sposarsi».

Char si alzò ed entrò in casa. Dopo poco sentirono il suono del pianoforte.

Negli anni Et si era fatta quella domanda molte volte: che cosa avrebbe fatto quando Blaikie sarebbe tornato? Perché non c’era ragione di credere che non lo avrebbe fatto. La risposta fu che non ne aveva assolutamente idea. Non aveva pianificato niente. Supponeva che avrebbe potuto voler creare problemi tra lui e Char – fare in modo che lei ci litigasse, alimentare i suoi sospetti anche se non fossero venute fuori delle chiacchiere, metterla in condizione di capire che cosa ancora avrebbe potuto fare, alla luce di quello che aveva già fatto in passato. Et non sapeva che cosa voleva. Le interessava solo confondere le cose, perché in quel momento era convinta che qualcuno dovesse farlo, prima che fosse troppo tardi.

Arthur si riprese tanto bene quanto ci si poteva aspettare da un uomo della sua età, tornò a insegnare storia alle ultime classi, lavorando mezza giornata, fino a quando venne per lui il momento di andare in pensione. Et continuò a vivere nel suo appartamento in piazza e cercò, allo stesso tempo, di darsi da fare e di cucinare e pulire per Arthur. Alla fine, dopo che fu andato in pensione, ritornò a vivere a casa, tenendo l’altro posto solo per il lavoro. «Lascia che le gente pensi ciò che vuole» diceva lei. «Alla nostra età».

Arthur continuò a vivere, nonostante fosse debole e spossato. Scendeva in piazza una volta al giorno, andava a far visita a Et, faceva delle passeggiate e stava seduto nel parco. L’hotel aveva cessato la sua attività ed era stato venduto di nuovo. Girava voce che fosse stato sul punto di riaprire ed essere usato come centro di riabilitazione per tossicodipendenti, ma che la città aveva fatto una petizione e il progetto era fallito. Probabilmente sarebbe stato demolito.

La vista di Et non era più buona come prima, dovette darsi una calmata. Fu costretta a mandare via delle persone. Continuava comunque a lavorare, tutti i giorni. Di sera Arthur si metteva a guardare la televisione o a leggere, mentre lei stava seduta in veranda, quando faceva caldo, o in sala da pranzo, in inverno, a dondolare e a riposarsi gli occhi. Arrivava e guardava con lui il telegiornale, poi gli preparava la sua bevanda calda, cacao o tè.

Non c’era traccia della boccetta. Et andò a guardare nella credenza non appena poté, il giorno in cui corse a casa dopo la telefonata di Arthur di prima mattina e trovò il dottore, il vecchio McClain, che stava arrivando in quello stesso momento. Corse fuori e guardò nell’immondizia, ma non la trovò. Char poteva aver avuto il tempo di sotterrarla? Era sdraiata sul letto, vestita bene e di tutto punto, i capelli raccolti. Non ci fu alcun scalpore sulla causa della sua morte, come succede in alcuni racconti. Si era lamentata con Arthur di sentirsi debole la notte precedente, dopo che Et se n’era andata, aveva detto che pensava le stesse venendo l’influenza. Così il vecchio dottore disse che era stato il cuore, e lasciò perdere. Nemmeno Et avrebbe mai saputo la verità. Cosa poteva esserci in quella boccetta da lasciare un corpo così ben conservato, come era quello di Char? Forse non conteneva quello che c’era scritto sull’etichetta. Non era nemmeno sicura che fosse stata lì quell’ultima sera, si era lasciata troppo prendere da quello che stava raccontando per andarci a guardare, come faceva di solito. Probabilmente era già stata gettata via, Char poteva aver preso qualcos’altro, pillole forse. Magari era stato davvero il suo cuore. Tutte quelle purghe avrebbero indebolito il cuore di chiunque. 

Il funerale fu per il Labor day. Arrivò anche Blaikie Noble, annullò il tour per quel giorno. Arthur, nel suo dolore, si era dimenticato della storia di Et e non fu sorpreso di vederlo. Era tornato a Mock Hill il giorno in cui Char fu trovata morta. Troppo tardi per poche ore, come in una tragedia. Et, nello stato confusionale in cui si trovava, non riuscì a ricordare quale. Romeo e Giulietta, le venne in mente più tardi. Ovviamente Blaikie non si uccise, tornò a Toronto invece. Per un anno o due spedì un biglietto di auguri per Natale, poi di lui non se ne seppe più nulla. Et non si sarebbe sorpresa se la storia sul matrimonio di Blaikie si fosse rivelata vera alla fine. Si era sbagliata solo sui tempi.

Molte volte si era trovata sul punto di dire ad Arthur «C’è qualcosa che dovresti sapere. Qualcosa che ho sempre avuto intenzione di dirti». Non poteva credere che lo stava lasciando morire senza fargli sapere. Non avrebbe potuto permetterlo. Arthur teneva una foto di Char nel suo ufficio. Era quella scattata con il costume per lo spettacolo in cui aveva interpretato il ruolo della ragazza-statua. Giorno dopo giorno, Et lasciò perdere. Lei e Arthur continuarono a giocare a ramino e a prendersi cura del giardino, insieme alle piante di mirtilli. Se fossero stati sposati, tutti avrebbero detto che erano molto felici.

 


Valentina Fedi è nata nel 1982. Ha conseguito una laurea triennale in Lettere moderne e una laurea magistrale in Competenze testuali per l’editoria e i media presso l’Università per Stranieri di Siena. Dal 2010 lavora nell’editoria scolastica presso la casa editrice G.B. Palumbo editore.


Fotografia: G. Biscardi, Riflessi, Palermo 2008, 

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