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diretto da Romano Luperini

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La critica come didattica: dissenso e verità

 Cari lettori e lettrici, la redazione di LN si prende una pausa estiva per tutto il mese di agosto. Durante questo mese, ripubblicheremo alcuni articoli già usciti nel corso dell’anno. Ci rivediamo a settembre. 

L’intervento è stato presentato al Convegno “Ethos democratico e pensiero critico. Saperi, istituzioni, soggettivazioni”, Brescia 5-6 maggio 2017. Una versione ridotta è uscita sul Manifesto  del 3 giugno 2018

  1. Esiste ancora la necessità della critica e la questione del lavoro critico continua a comportare anche oggi il rischio intellettuale di “dire la verità”. Perché esiste la verità, ineludibile pur nel suo essere relativa, parziale e provvisoria (una verità che riguarda l’etica, l’esistenza, la nostra relazione con il mondo). Edward Said, di cui non condivido il metodo “orientalista” ma di cui ammiro lo spirito critico, in Dire la verità. Gli intellettuali e il potere (1995) argomenta coraggiosamente come la questione della verità pertenga alla funzione dell’intellettuale ridefinito nel contesto dei conflitti del mondo globalizzato e della precarietà del suo riconoscimento sociale. A differenza di quanto accade a figure di intrattenitori-professionisti che pongono il proprio lavoro al servizio dell’ordine costituito, Said riprende Gramsci e Sartre e identifica la vocazione di dire la verità con la critica al potere, in bilico tra solitudine e allineamento. Qualche decennio prima, Elsa Morante in Pro o contro la bomba atomica (1965) poneva in modo radicale la questione della verità dell’arte in rapporto alla “lotta contro in drago dell’irrealtà”: “nel sistema organizzato della irrealtà, la presenza dello scrittore è sempre uno scandalo”. Elsa Morante considerava la bomba nucleare come il “fiore” della società piccolo-borghese, della pulsione di morte dei ceti medi e la letteratura come “il contrario della disintegrazione”. Nulla di ciò che hanno scritto Said e Morante su realtà e verità mi sembra oggi tramontato.
  1. La diagnosi tardonovecentesca riguardante la fine della critica letteraria, da Notizie dalla crisi (1993) di Cesare Segre a Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura (1996) di Giulio Ferroni, dal Tradimento dei critici (2002) di Carla Benedetti a Eutanasia della critica (2005) di Mario Lavagetto, va oggi interamente riformulata. Anche l’antitesi fra teoria letteraria (intesa come puro scientismo strutturalista) e critica (percepita come libertà anarchica della lettura), argomentata in Europa da Steiner e in Italia da Alfonso Berardinelli, è del resto del tutto superata. I veri banchi di prova della tenuta o del collasso del discorso critico oggi sono piuttosto, rasoterra, i soli momenti in cui questo può ancora farsi discorso pubblico: soprattutto la scuola e l’università. Come ha argomentato Romano Luperini in Il professore come intellettuale, è il momento didattico, insomma, il luogo della sopravvivenza culturale per il critico odierno. L’atto critico-didattico è in sé utopico perché prevede che insegnanti e studenti, nell’assenza di un lessico condiviso e nel quadro di classi costituite da migranti e da nativi digitali, condividano le medesime procedure cognitive e interpretative: che esplorino cioè le omologie e le opposizioni fra le opere  e il mondo,  rinominando con consapevolezza i concetti-guida (autore, lettore, temi, forme, storia, valore).
  1. La critica ha bisogno ancora della teoria letteraria, pena  l’ impressionismo e il narcisistico. Credo che la teoria della  letteratura novecentesca sia servita  alla critica perché ha ipotizzato dei modi – non solo soggettivi – per dar conto del nesso o della tensione fra autonomia e eteronomia delle opere, tra testo e mondo. Oggi con il termine Teoria si designa qualcosa di assai diverso da quanto accadeva negli anni sessanta e settanta. Allora ci si riferiva a un insieme di metodi che avevano nella linguistica strutturale, nella psicoanalisi e nel neomarxismo i loro modelli. Nell’ultimo trentennio la Theory è soprattutto data da un insieme di Studies  (postcolonial, gender…) che – semplificando – hanno i loro modelli in Foucault, Derrida e dintorni. Le categorie e i concetti della teoria non vanno mai condivisi supinamente dal critico. E un buon critico è sempre in una certa misura eclettico: non perché pilucca con disinvoltura nel supermercato dei metodi ma perché ascolta le voci più alte dell’estetica, della linguistica, della filologia, della filosofia per tentare di estrarre dal testo che ha davanti una verità e un senso. Se un critico ieri usava supinamente i termini “struttura”, “significante”, “palinsesto” o oggi utilizza altrettanto servilmente, strizzando l’occhio ai propri colleghi e alle proprie reificazioni disciplinari, i lemmi “biopolitica”, “genealogia”, “governamentalità”,  peggio per lui.
  2. Tra i becchini della critica vi è l’ipertrofia del mercato culturale e la cultura unica del bestseller.  Il mercato come virtuoso momento di incontro fra domanda e offerta è, come si sa, una pura astrazione dell’ideologia liberale. Come ha mostrato André Schiffrin, (Editoria senza editori, 2000)   le case editrici, luoghi di progetto a cavallo fra mercato e cultura, sono da tempo geneticamente mutate: una volta acquistate da grandi gruppi internazionali, immense holding del campo dei media, dell’intrattenimento e dell’informazione, modificano radicalmente la propria natura.  Del resto, anche se l’editoria di cultura e di ricerca diventa possibile solo “non a scopo di lucro”, cioè fuori dal mercato, sostenuta da fondazioni e da aiuti pubblici, si corrono i rischi derivanti dalla completa rinuncia al suo ruolo progettuale. Anche per il lavoro editoriale mi sembra insomma che la sola strategia critica virtuosa oggi possibile sia quella controcorrente, “entro le crepe e gli interstizi” dell’ideologia del mercato.
  1. Franco Fortini ci ha insegnato che non ci si salva da soli. Già nella prima metà degli anni sessanta scriveva (in Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo): “è possibile che il proletariato, la classe operaia, la classe rivoluzionaria non siano mai esistiti o siano immagini di altro, cui non sappiamo dare senso e nome”. La situazione del “miracolo economico” non era dunque troppo lontana da quella di oggi, in cui si dà per scontata l’evaporazione di quei soggetti di cambiamento. La situazione del critico è anche oggi quella (adorniana) di chi si estrae dalla palude tirandosi per il codino. Ma ci sono due modi diversi per fare questo gesto: basarsi sulle proprie indocili, personali idiosincrasie (ipostatizzando l’ io) o farle coincidere con la parte espropriata e invisibile dell’umanità (impiegando  il noi). Credo si possa continuare a leggere criticamente i testi con occhi strabici: con uno sguardo alle forme dell’opera, l’altro ai conflitti del mondo e ai rapporti sociali.
  1. La situazione del critico-docente è dunque quella di chi si estrae dalla palude tirandosi per il codino, nei luoghi collettivi, in dialogo potenziale con la parte espropriata dell’umanità. Le risorse della critica, del resto, sono di per sé pedagogiche: la sua funzione è una terapia collettiva o una guida per un buon uso dell’immaginario. Come ha insegnato Francesco Orlando (in Per una teoria freudiana della letteratura ma nel recente, postumo Il soprannaturale letterario) ), in quanto essere umano ciascuno di noi, psichicamente, è abitato da due diverse logiche, inseparabili: la logica forte che invoca il principio di non-contraddizione (quella che usiamo da grandi e da svegli, che domina il mondo dalle rivoluzioni industriali in poi), e l’altra logica, debole, che tende a pensare per immagini, generalizzare le somiglianze, da cui si affranca a fatica il bambino, che persiste nei sogni o nei sintomi o nei motti di spirito. Entrambe sono irrinunciabili: entrambe permeano il linguaggio dando luogo a figure (“Non c’è che un geometra o uno scemo che possa parlare senza figure”, dice Rousseau). La letteratura è questo intreccio conflittuale tra le due logiche propriamente umane realizzato tramite figure. Riguarda ogni discorso: dall’aneddoto ironico fra amici alle reticenze di un innamorato. Ma quando si formalizza in un codice, e diventa “manufatto” artigianale ben lavorato, ci dà un piacere conoscitivo e identificativo di grande, forse insostituibile rilievo e esperienza: come sanno fare le grandi opere in versi e in prosa, e i grandi film, i dipinti, la musica.  La critica letteraria aiuta a dare senso a questo intreccio conflittuale tra le due logiche propriamente umane, verificandolo nella figuralità delle opere.
  1. Non credo che, a scuola, il vero pericolo per la letteratura e per la critica sia dato ancora oggi dalle griglie strutturaliste applicate alla didattica ma casomai dall’erosione degli spazi dell’educazione umanistica a opera di discipline considerate dal senso comune più ‘spendibili’ e dalle iniziative extracurricolari più parcellizzate e servili (da ultimo, la più arrogante, l’alternanza scuola-lavoro). E, infine, dal completo disorientamento o ignoranza a scuola e nell’università davanti alle operazioni più semplici e necessarie: storicizzare l’opera nel suo tempo, descriverne le forme, interpretarne e attualizzarne il senso. E’ fin troppo evidente come la “ragione didattica” egemone non possieda più nemmeno i termini per dare cittadinanza, fra le proprie tabellari “competenze”, a simili esperienze critiche, aperte, plurali e conflittuali. Oltre alla retorica della valutazione e dell’eccellenza nell’ università (ben radiografata da Federico Bertoni in Universitaly) è soprattutto la neolingua della nuova pedagogia didattica a distruggere lo spazio residuo del critico-docente: le procedure da problem solving divenute il modello delle riforme e il presupposto che sovraintende alla formazione degli insegnanti oggi ritenuti di qualità, nei TFA e nei FIT, secondo i canoni che considerano il docente come l’addetto all’ “implementazione” del processo antropotecnico, dissolvono i contenuti stessi e la funzione critica appiattendola sul ruolo. (Cfr. Mino Conte, Didattica minima. Anacronismi della scuola rinnovata)
  1. C’è chi, davanti alla conclamata e proterva assimilazione della formazione all’impresa, esplicitamente invita a rinunciare alla critica (a esempio Claudio Giunta in E se non fosse una buona battaglia?) denunciandola cinicamente come velleitaria. Da parte mia, credo che l’insegnamento della letteratura (la critica nel senso etimologico del termine) sia, in fieri,  un atto di opposizione, perché allena a  mettere in dubbio la pratiche dominanti  in una situazione in cui, nel campo dell’ educazione e nelle forme del dissenso, è interamente da risemantizzare il significato stesso,  individuale-collettivo, della parola libertà. Tradotta nell’habitat didattico, la critica comporta inoltre l’utopia concreta di una possibile “controstoria” permanente, vale a dire dell’uso da parte degli studenti e degli insegnanti, di uno strumento adatto a verificare il rapporto contraddittorio tra storia sociale e invenzione letteraria. La critica come didattica, finché potrà farlo,  dovrà dunque disubbidire alla buona scuola e all’università dell’eccellenza, e clandestinamente continuare a porsi il compito di rinegoziare la funzione  della letteratura come «unità della percezione del reale e dell’ immagine del possibile» (René Wellek,  Storia della critica moderna) in un sistema culturale e economico (neoliberista) sempre più ostile, sempre più incapace di riconoscere la funzione sperimentale, fittizia e insieme concreta (Thomas Pavel, Mondi dell’invenzione) assunta in occidente dall’invenzione letteraria. Soltanto proponendo alle “masse” di studenti (magari per brevi frammenti “radianti”) Montaigne, Manzoni, Leopardi, Baudelaire, Flaubert, Kafka o Svevo si possono intercettare i (pochi?) che li desiderano  intendere (in ogni epoca diversamente) restituendo così, ogni anno nuovi significati a quelle opere. A volte, del resto, sono proprio gli studenti provenienti dagli istituti tecnici i più propensi a farsi catturare dalle ombre di quelle opere. Con il loro italiano stentato le ravvivano oltre il conformismo e le verità accademiche sclerotizzate. E ne estraggono ancora il contenuto di verità. La letteratura dei grandi modernisti nel contesto ipermoderno non è finita: e la lettura di Leopardi e di Kafka sopra ogni altra.
  1. La critica come didattica non è morta anche perché la letteratura non è esangue. Importanti critici militanti delle precedenti generazioni (da Berardinelli a Mengaldo) hanno scoraggiato l’uso del romanzo italiano negli anni zero (criticandone la pulsione sia a produrlo che a leggerlo), data l’ipertrofia della produzione editoriale Midcult che inibisce qualunque seria ricognizione, e data la presunta debolezza della nostra narrativa più recente (a confronto con quella americana, irlandese, israeliana). Tuttavia, prosatori come a esempio Alessandra Sarchi, Giorgio Falco, Nicola Lagioia, Giorgio Vasta, Walter Siti, Laura Pugno sono a mio parere scrittori del nuovo millennio su cui vale la pena di spendere forze ricognitive. Al contempo, lo sono a esempio Fabio Pusterla, Eugenio De Signoribus, Milo De Angelis, Valerio Magrelli, Antonella Anedda, Umberto Fiori, Franco Buffoni o Cristina Alziati nel campo della poesia. I loro libri vanno indagati e discussi, in tutti i luoghi in cui collettivamente è ancora possibile farlo. Per via stilistica e per via tematica, infatti, ci danno un’immagine complessa dell’antropologia ipermoderna italiana: nuove soggettività, forme del territorio, nessi generazionali, educazioni sentimentali, rapporti di lavoro e conflitti di potere.

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