Traduzione e introduzione di Valentina Fedi
Something I’ve been meaning to tell you è la seconda raccolta di Alice Munro. Pubblicata in lingua originale nel 1974, è disponibile in lingua italiana da novembre 2016 con il titolo Una cosa che volevo dirti da un po’.
Il mio progetto di traduzione nasce dalla voglia di trasmettere in italiano la stessa potenza narrativa che questa grande scrittrice riesce a comunicare nell’originale. Il risultato è una versione diversa rispetto a quelle disponibili sul mercato: più fedele allo stile di Alice Munro dal punto di vista sintattico e lessicale e proprio per questo motivo emotivamente più coinvolgente per il lettore.
Dimmi sì o no rappresenta il culmine dei tre racconti: i confini non esistono, tra realtà e finzione, tra corpo e mente. Il lettore è libero di interpretare e trovare in questa storia esattamente quello che sta cercando.
Dimmi sì o no
Continuo a immaginarti morto.
Anni fa hai detto di amarmi. Anni fa. L’ho detto anch’io, ero veramente innamorata di te a quel tempo. Che esagerazione.
All’epoca ero una ragazzina, ma non me ne rendevo conto perché i tempi erano molto diversi da quelli di oggi. All’età in cui adesso le ragazze si fanno allungare i capelli fino alla vita, fanno viaggi in Afghanistan, passano – o almeno così sembra a me – sinuose come anguille attraverso i loro vari, innocenti e transitori amori, io me ne stavo assonnata a lavare pannolini, con indosso una vesteglia di velluto rosso, sempre bagnata all’altezza dello stomaco; spingevo una carrozzina o un passeggino lungo il marciapiede verso il supermercato (succedeva talmente spesso da essere diventata un’abitudine: senza il loro sostegno sentivo le braccia così alleggerite da darmi fastidio, il peso del mio corpo doveva come essere ridistribuito e pendeva tutto all’indietro), la sera mi mettevo a leggere qualcosa e poi mi addormentavo sul divano. Veniamo compatite per aver fatto questo tipo di noiosi lavori in passato, noi donne della mia età, ci autocommiseriamo, ma a dire la verità non erano poi sempre così male, a volte era piacevole: i lavoretti abituali, la piccola gioia di caffè e sigaretta, il disperato, divertente, formale scambio di opinioni con altre donne, i bei sogni fatti mentre dormivamo.
Allora vivevamo in una comunità chiamata Le Capanne, al margine del campus. In effetti erano davvero una schiera di vecchie capanne, che da residenze militari erano diventate l’alloggio per studenti sposati. In quel periodo stavo leggendo La montagna incantata, – impiegai tutto l’inverno per finirlo – e mi addormentavo sempre con il libro sopra allo stomaco. A volte lo leggevo a voce alta anche a Douglas, quando era troppo stanco per continuare a lavorare. Una volta finito ci saremmo dedicati a Alla ricerca del tempo perduto. Inciampavamo spesso nel letto mentre camminavamo abbracciati, uniti dalla stessa voglia di andare a dormire. A volte, però, capitava di dovermi alzare, durante la notte, per andare in bagno a mettere il diaframma. Se guardavo fuori dalla metà superiore della finestra, attraverso la fessura nella tenda di plastica, potevo vedere la luce filtrare anche dalle finestre di altri bagni della colonia, e allora mi immaginavo altrettante mogli alzatesi nel bel mezzo della notte per il mio stesso motivo. Creature che vivono di giorno: inseparabili dai bambini, dai fornelli e dagli elettrodomestici, che adesso adempivano al loro dovere notturno dalla connotazione – pronta a svanire rapidamente – peccaminosa e splendida allo stesso tempo. Mi ricordo che molti anni prima di allora – quattro o cinque a dire il vero, anche se a me sembravano molti di più – avevo una visione apocalittica del sesso (in quel periodo leggevamo Lawrence e molte di noi erano ancora vergini a vent’anni). Poi il tutto si era ridotto a uno sbrigativo, sempre uguale, soddisfacente scambio alla pari, che si consumava in modo abbastanza costante in quei quartieri familiari. Quello che provavo non era vera e propria insoddisfazione. Avevo semplicemente avvertito il cambiamento, allo stesso modo in cui percepivo la diminuzione del fascino del Natale. Credevo che il mutamento fosse avvenuto perché ormai ero un’adulta, una donna di mondo. Allora ero abbastanza giovane da poter pensare una cosa del genere, tutte noi lo eravamo. Una parola che usavamo spesso era “matura”. Incontravamo qualcuno che non vedevamo da un po’ di anni e il nostro commento era: è incredibilmente maturata. Tu sai, tutti sanno, la serie di delusioni a cui ci dobbiamo abituare una volta superati i cinquant’anni; prenderci in giro è troppo facile, asserire che la maturità dipende dal possesso di una lavatrice automatica e dall’aver smesso di lamentarsi della politica, oppure dall’abitudine alle gravidanze e alle station wagons. È troppo facile e non del tutto vero, perché non considera un particolare stuzzicante, almeno secondo me, seppur nella nostra situazione di disagio e ubbidienza: l’amore per i limiti.
Nel nostro quartiere non si commettevano adulterii, o almeno non che io sapessi. Vivevamo così vicini l’uno all’altro, eravamo tutti poveri e sempre indaffarati. Ci lasciavamo andare a qualche fugace momento di trasgressione solo durante le feste; forse perché non reggevamo molto l’alcol. Tu dici che eri innamorato di me e io rispondo che lo ero anch’io, ma la verità era indubbiamente diversa. Più probabilmente avevamo visto qualcosa l’uno nell’altro a cui non stavamo pensando, che ci colse di sorpresa – qualcosa di ormai accantonato, nel tuo caso, e di non ancora scoperto, nel mio.
Uno dei ricordi che avevo più impresso nella mente era lo stesso che avevi anche tu: il giorno in cui ci siamo incontrati per la prima volta due anni fa, in modo del tutto inatteso, in una città dove non viveva nessuno dei due. Parlammo di quell’incontro dopo aver bevuto un sacco di vino durante il nostro pranzo improvvisato sul momento.
«Un giorno andammo a fare una passeggiata. Dovetti sollevare quel coso…»
«Passeggino. Allora ci portavo in giro Jocelyn».
«Lo dovetti trasportare sopra rocce e fango. Me lo ricordo bene».
Una giornata di sole, una bellissima e calda giornata di primavera, era aprile o forse marzo. Ero andata all’emporio nel centro commerciale del campus e indossavo il mio cappotto corto da inverno, non credevo che sarebbe stato davvero così caldo come sembrava guardando fuori dalla finestra. Non appena ti vidi desiderai di poter tornare a casa e ricominciare tutto da capo: pettinarmi i capelli con più cura e mettere il mio morbido maglione di lana grigio scuro. Non potevo nemmeno togliermi il cappotto: Jocelyn aveva schizzato del succo d’arancia sulla maglia che indossavo sotto.
Non ti conoscevo bene, abitavi dalla parte opposta delle Capanne. Avevi più anni della maggior parte di noi, eri tornato all’università come studente già laureato, direttamente dal mondo reale del lavoro e della guerra (a dire il vero alla fine non rimanesti nel campus, lo lasciasti e trovasti un lavoro presso un giornale il giorno immediatamente seguente la nostra passeggiata). Tua moglie partiva ogni mattina per andare a insegnare presso una scuola di danza. Era piccola, di carnagione scura, sembrava una gitana, molto sicura di sé, o almeno lo era rispetto alle altre confuse e assonnate mogli casalinghe che vivevano lì.
Ci mettemmo a parlare davanti all’emporio e tu dicesti che quella era una giornata troppo bella per andare al lavoro, dovevamo piuttosto fare una passeggiata.
Non ci dirigemmo verso il campus, con i suoi larghi e facilmente percorribili sentieri, bensì verso quel selvatico e in parte boscoso lembo di terra che passava sopra al fiume, dove gli studenti – quelli non sposati ovviamente – andavano a scambiarsi tenerezze di giorno e ad amarsi senza pudori di notte. Non c’era nessuno quel giorno. Non faceva ancora abbastanza caldo, quella giornata di bel tempo aveva preso tutti alla sprovvista. Era un posto scomodo da attraversare con un passeggino. Come hai detto anche tu, ti toccò trasportarlo sopra alle rocce e alle zone fangose del sentiero. La nostra conversazione si concentrò essenzialmente su questo argomento. Non dicemmo niente di importante. Non ci sfiorammo nemmeno. Più diventava chiaro che la nostra passeggiata non si sarebbe conclusa nel modo in cui fingevamo di volere: un’ora passata in piacevole compagnia durante una bella giornata – né tanto meno in quello che desideravamo veramente – più ci sentivamo a disagio. Quella tensione era una sensazione nuova per me. Non ero in grado di giudicare e manipolare i sentimenti altrui, come invece imparai a fare più tardi con gli altri uomini. Non ero nemmeno del tutto sicura di riuscire a gestire le mie di emozioni. Dopo averti salutato mi sentii come se mi fossi comportata in modo imbarazzante e noioso durante un appuntamento. Il giorno dopo, o quello ancora seguente, mentre me ne stavo come al solito a leggere sul divano, mi sentii pervadere da un dolce senso di lontananza, pensando a te, e quello fu l’inizio, credo, fu il momento in cui realizzai che tra noi ci sarebbe stato di più. Così ti dissi «Ero innamorata».
Vuoi sapere come sono venuta a conoscenza della tua morte? Ero nella cucina dell’università a prepararmi una tazza di caffè prima della mia lezione delle dieci. Dodie Charles, che sta sempre a cucinare qualche dolce, aveva portato un pound cake alle ciliege. (Ciò che noi vecchi professionisti sappiamo riguardo a questo tipo di fantasie è quanto siano importanti i dettagli, la loro solidità; sì, un pound cake alle ciliege).
La torta era avvolta prima in un uno strato di carta oleosa e poi in un giornale. Nel «Globe and Mail» per la precisione, non in un quotidiano locale, che altrimenti avrei già visto. Proprio mentre guardavo distrattamente quella rivista vecchia di settimane, aspettando che l’acqua bollisse, vidi quel piccolo articolo, aveva un titolo modesto: MUORE GIORNALISTA VETERANO. Mi misi a pensare a quella parola, chiedendomi se avesse avuto il significato di veterano nel senso di qualcuno che ha combattuto in guerra, oppure se fosse stata semplicemente un aggettivo, in questo caso sarebbero andate comunque bene entrambe le accezioni: l’articolo diceva che l’uomo era stato un corrispondente di guerra – solo allora realizzai. Il tuo nome. La città dove hai vissuto e dove sei morto. Un attacco di cuore, era stato questo a ucciderti.
Ho l’abitudine di portarmi dietro la tua ultima lettera, la tengo nella borsa. Quando me ne arriva un’altra, la cambio, e metto quella vecchia con tutte le altre arrivate in precedenza in una scatola che tengo nell’armadio. Quando ne ho una arrivata da poco mi piace tirarla fuori, ogni tanto, e mettermi a leggerla; mentre sono seduta a bere un caffè in un piccolo bar, o nella sala d’aspetto del dentista. Dopo che è passato un po’ di tempo però non la tiro assolutamente più fuori, la sua vista mi infastidisce, tutta spiegazzata e malridotta mi ricorda da quante settimane, da quanti mesi ne sto aspettando una nuova. Ma continuo comunque a tenerla in borsa, non la metto nella scatola, non ne ho il coraggio.
Comunque, adesso, dopo aver fatto lezione alla mia classe, aver pranzato con i colleghi, incontrato i miei studenti, una volta adempito a tutti i miei doveri, vado a casa e tolgo la lettera – l’ultima lettera – dalla mia borsa, la metto insieme alle altre e spingo la scatola infondo all’armadio così da non poterla più vedere.
Lo faccio volutamente, senza provare quasi alcun dolore, avendo programmato tutto in anticipo. Mi preparo un drink. Vado avanti con la mia vita.
Ogni giorno, di ritorno da scuola, guardo la cassetta delle lettere e a dire la verità provo una sorta di piacere: non ho nessuna aspettativa. Per due anni quella scatola di latta è stata l’oggetto al centro della mia vita e adesso vederla di nuovo come una cosa priva di importanza, capire che non contiene né promette niente, è come la cessazione di un dolore. Nessuno sa quello che ho perso, nessuno conosceva quella parte della mia vita, ne sapevano solo qualcosa in generale, grazie a qualche pettegolezzo; quando venivi qua non vedevamo nessuno. Posso farcela, posso andare avanti come se non fosse mai accaduto, tu non sei mai esistito. A dire il vero dopo un po’ ne ho parlato con qualcuno, un uomo che lavora con me, Gus Marks. Si è separato dalla moglie recentemente. Mi ha portato fuori a cena, abbiamo bevuto e ci siamo raccontati le nostre storie e poi, principalmente per mia iniziativa, siamo finiti a letto insieme. Lui è stato rozzo, un incapace, io invece ero incontrollabile. Mi sono sorpresa di me stessa. Qualche giorno dopo mi ha invitata a prendere un caffè e mi ha detto «Sono preoccupato per te, e mi stavo chiedendo se non faresti meglio a… vedere qualcuno».
«Intendi uno psichiatra?»
«Be’ sì, per parlare».
«Lo prenderò in considerazione».
Ma dentro di me ridevo di lui, avevo in mente ben altro. Non appena si sarà concluso il trimestre, alla fine di aprile, ho intenzione di venire a trovarti, di visitare la città dove sei morto. Non ci sono mai stata. Nessuno me l’ha mai consigliata come meta per una vacanza. Non vedo l’ora di fare questo viaggio, divento ogni giorno più allegra. Ho comprato degli occhiali alla moda e alcuni vestiti nuovi, più leggeri e adatti alla stagione estiva. L’amore non è inevitabile, è una scelta.
L’unica difficoltà sta nel riuscire a rendersi conto quando questa scelta è stata fatta, e capire il momento in cui – nonostante possa sembrare frivolo – è diventata irreversibile. Non esiste un vero e proprio consiglio al riguardo. Mi ricordo che una volta, mentre stavamo pranzando, mi dicesti «Ti amavo. E continuo ad amarti anche adesso». Guardai il mio riflesso nello specchio del ristorante alle tue spalle e mi sentii imbarazzata per te. Pensai, Dio sa perché, che tu stessi solo cercando di fare il galante; non presi quelle parole seriamente, e mi convinsi che da un momento all’altro mi avresti guardata e avresti capito che avevi fatto quel discorso alla persona sbagliata, a una donna che aveva completamente perso la buona postura e il lessico forbito, in nome di queste adulazioni. È passato un po’ di tempo prima che riuscissi a rinunciare a questi intrighi, a queste ansiose macchinazioni. Ho smesso di tingermi i capelli di nero, non mi metto più nemmeno la chiara dell’uovo, né l’impacco di farina d’avena e miele, o la crema di ormoni, o il fard, né nient’altro del genere sulla faccia.
Solo in seguito capii che eri consapevole del senso delle tue parole, e allora mi convinsi più che mai che dovevi esserti sbagliato.
«Sei sicuro di non sbagliarti con qualcun’altra?»
«La mia mente non si è deteriorata fino a questo punto».
Prima di questo scambio di battute stavamo parlando tranquillamente. Ti chiesi di tua moglie.
«Non balla più. Ha avuto un’operazione al ginocchio».
«Deve essere dura per lei stare senza far niente».
«È molto impegnata. Ha un’attività. Un negozio di libri».
Mi domandasti di Douglas e io ti risposi che avevamo divorziato. Aggiunsi che i bambini erano fuori casa, tutti e due quest’anno, per la prima volta. Dicesti che tu invece non avevi avuto figli. Ero un po’ ubriaca e così aggiunsi anche che durante gli ultimi due anni Douglas non faceva che parlare da solo.
Mi nascondevo dietro alle tende e lo ascoltavo blaterare tra sé e sé, ridacchiare, assumere espressioni ora soddisfatte ora di disgusto, mentre tagliava l’erba. Per non parlare dei fluenti e infervorati discorsi con se stesso che metteva su mentre si radeva la barba, credendo che la sua voce venisse mascherata dal suono del rasoio elettrico. Ti dissi che avevo realizzato, alla fin fine, di non voler scoprire che cosa stesse dicendo.
Il mio aereo partiva alle quattro e mezza. Salimmo in macchina e ti dirigesti fuori città, verso l’aeroporto. Il pensiero di lasciarti e non rivederti mai più non mi rendeva infelice, nonostante ciò ero comunque molto contenta di essere in macchina insieme a te in quel momento. Era novembre e in quel periodo dell’anno il sole tramonta presto, appena dopo le tre del pomeriggio, i fari dell’auto erano accesi.
«Puoi prendere anche un volo che parte più tardi, lo sai…»
«Non lo so».
«Potresti venire in hotel con me, fare una telefonata, cancellare quello che dovresti prendere adesso e prenotarne un altro più tardi».
«Non lo so. No, non penso di poterlo fare. Sono troppo stanca».
«Non sono un tipo così estenuante».
«No». Ci stringevamo la mano da quando eravamo saliti in macchina. Liberai la mia dalla tua presa, quel gesto stava a indicare che non ero stanca di te, ma di qualcos’altro – di queste avventure forse? – e poi la lasciai ricadere all’indietro liberamente. Non ero completamente sicura di ciò che intendevo comunicarti, ma mi aspettavo, con ragione, che tu invece lo avresti capito alla perfezione.
Girammo su una superstrada a nord della città. Non appena imboccata la rampa di accesso ci ritrovammo a ovest. Le striature del cielo tra le nuvole erano di un rosa acceso. Le luci delle automobili sembravano confluire tutte insieme, miglio dopo miglio.
Quella visione del mondo – fluida, pacifica, del tutto rassicurante – somigliava a quella che di solito avevo quando ero ubriaca. E così mi dissi, perché no? Devo avere fiducia, vivere il presente, questa situazione potrebbe anche prolungarsi per sempre. Non ero ubriaca. Lo ero stata durante il pranzo, ma in quel momento non lo ero più.
«Perché no…»
«Perché no cosa?»
«Perché non fermarsi in un hotel, chiamare e prenotare un altro volo più tardi?»
«Speravo che ti riferissi a questo», dicesti tu.
Credi che fu quello il momento in cui scelsi? Quando vidi il cielo e le luci delle macchine? A me sembrò solo una decisione presa a cuor leggero, niente di più. L’hotel/motel era fatto di mattoni bianchi. I muri interni erano uguali a quelli esterni, così che le tende e i tappeti – che a prima vista sembravano di buona qualità – e la pacchiana mobilia di imitazione spagnola, davano l’impressione di essere stati messi insieme per caso, come se fossero solo stati depositati temporaneamente in una sottospecie di squallido magazzino. Sul quadro che vedevamo dal letto erano dipinte delle navi arancioni, degli edifici – sempre arancini, soltanto un po’ più scuri – e il loro riflesso sull’acqua nero-blu. Mi raccontasti una storia su un certo tuo amico che pitturava quadri esclusivamente per i motel. Dipingeva navi, fenicotteri e nudi sui toni del marrone, nient’altro; aggiungesti anche che ricavava molti soldi da quel lavoro.
Gli aeroplani passavano rumorosamente sopra alle nostre teste. A volte non riuscivo nemmeno a capire quello che mi dicevi, nonostante la tua faccia fosse appiccicata alla mia. Non ti avrei mai chiesto di dirmelo di nuovo, mi sarei sentita ridicola, e comunque, di solito queste non sono il genere di cose che uno può ripetere. E se mi avessi fatto una domanda? E non ricevendo nessuna risposta non ti fossi sentito di farmela di nuovo? Questa eventualità mi tormentò molto in seguito, nel momento in cui mi sentii pronta a darti tutte le risposte che desideravi.
Tremavamo insieme. Riuscivamo a malapena a gestire quei fremiti tanto eravamo sopraffati – lo eravamo entrambi, tutti e due – dalla gratitudine e dallo stupore. Ci sentivamo come se fossimo stati inondati dalla fortuna, da una felicità immeritata, indescrivibile, quasi incredibile. I nostri occhi erano colmi di lacrime. Impossibile negarlo. Lo erano.
Se tu fossi sempre stato l’uomo che incontrai quel giorno, o comunque in quel preciso momento della mia vita, avrei potuto amarti sul serio? Non così tanto. Non direi. Non così tanto. Ti amavo perché tu rappresentavi il collegamento con il mio passato, con il tempo in cui la giovane me spingeva il passeggino lungo i sentieri del campus, innocente e priva di colpa. Se allora fossi riuscita a innamorarmi tanto da continuare a esserlo anche adesso, ci sarebbe stato molto meno sconforto nella mia esistenza di quello che avrei mai potuto immaginare. Molto meno di quello che avrei mai immaginato. La mia vita non sarebbe finita in mille pezzi, non si sarebbe rivelata un assoluto fallimento.
Dunque, ho deciso di partire il primo di maggio. Ho quasi due mesi di tempo prima che i miei figli tornino a casa da me, prima che inizi il semestre estivo. Ho intenzione di andare nella città dove per tutto questo tempo ho spedito le mie lettere. Quelle lettere gioiose, piene di parole e di segreti, colme di apprensione e in fondo anche supplichevoli. Voglio visitare il posto nel quale continuerei ancora a scriverti, se non fossi stata così arguta da prendere nota della tua morte.
La città dove vivevi, di cui mi parlavi ironicamente nelle tue lettere, ma anche con grande soddisfazione. Piena di vecchi e sciocchi turisti, dicevi tu. Anzi no. Piena di vecchi ruderi, come me, ripetevi, considerandoti come al solito più anziano di quanto in realtà fossi. Lo amavi molto, ti piaceva fingere di essere un uomo stanco e svogliato, per sottolineare ancora di più la tua freddezza. Ho sempre ritenuto che il tuo fosse solo un atteggiamento, a dirti la verità. Quello che non riuscivo a credere, che non potevo neanche immaginare di credere, era che fossi realmente così. Una volta mi hai detto che per te non avrebbe fatto assolutamente nessuna differenza se fossi morto di lì a poco o se avessi continuato a vivere per altri venticinque anni. Il che per una persona innamorata equivale a una blasfemìa. Dicesti anche che non pensavi alla felicità, il resto del mondo per te non esisteva. Quanta presunzione, pensai, sentir dire certe cose da un uomo così giovane, non riuscivo ad accettare il fatto di dovermi sforzare a capire una persona per la quale queste affermazioni rappresentavano la pura verità, in cui l’energia che pensavo di trovare si era logorata, se non addirittura completamente scomparsa. Nonostante abbia smesso di tingermi i capelli e abbia imparato a vivere (o almeno così credevo), ho continuato a riporre in te una speranza, una gigantesca speranza. Mi sono rifiutata, mi rifiuto, di vederti nel modo in cui tu stesso ti sei sempre descritto.
Penso a te come alla personificazione di un fiume in piena – come mi hai scritto una volta – e ho l’umana preoccupazione di venire travolta, perché è questo quello che fanno i fiumi in piena.
Ti risposi che io invece ero soltanto un piccolo e tranquillo ruscelletto che avresti potuto guadare senza problemi. Ma tu questo lo sapevi meglio di me.
A quel tempo cercavo in tutti i modi di affascinarti, di confonderti, sia quando ti scrivevo sia quando ci vedevamo! Il mio più grande pensiero riguardo all’amore era diventato come riuscire a mascherarlo, come renderlo qualcosa di innocuo, di divertente.
Che umiliante farsa. E tu, tu sorridevi con fare sicuro, ma dolce allo stesso tempo; credo che ti vergognassi un po’ per me.
Ho trovato un appartamento in un condominio vicino al mare, in un edificio costruito suppongo intorno agli anni Venti, ricoperto di stucco giallo crema e con dei davanzali sul punto di cadere a pezzi, sopra alla porta c’è una targhetta senza nome e un indecifrabile ornamento. Molte persone anziane, proprio come dicevi tu, passeggiano immerse nelle scintillanti luci del paesaggio marino. Sono scesa in strada e ho camminato ovunque. Non mi preoccupo di andare al cimitero. In ogni caso non saprei nemmeno dove cercare la tua tomba. Passeggio su marciapiedi sui quali potresti aver camminato anche tu e guardo cose che quasi sicuramente ti sei soffermato a osservare. Le finestre che un tempo rispecchiavano la tua immagine adesso riflettono la mia. È come un gioco. Trovo questa città un po’ differente rispetto a quelle a cui sono abituata. Le strade scoscese, le case decorate in stucco chiaro, molte delle quali con il tetto a terrazza, costruite secondo quel bizzarro stile a stazione di servizio che veniva considerato “moderno” prima della Seconda guerra mondiale. Le oblunghe finestre ornamentali fatte di spessi mattoni di vetro. Ogni tanto si vedono una casa col tetto alla spagnola, delle finestre rotonde e dei terrazzi, così fuori posto in questa città. I famosi giardini: rododendri, azalee e ortensie, rosse, arancio e viola, colori così brillanti da disturbare gli occhi. Tulipani grossi quanto calici, dall’eterna bellezza. E poi i negozi, così strani per chi viene da una città industrializzata e universitaria, alcuni tra quelli di abbigliamento invece di vestiti alla moda vendono capi più modesti e funzionali. Baracchini dei gelati come quelli di fine secolo. Insegne con scritto: ATTREZZATURE SPORTIVE DEL SELVAGGIO WEST. ABBIGLIAMENTO CASUAL HAWAIANO, con palme nei vasi stampate sopra agli abiti. Negozi di tè in stile Tudor dai tetti sottili. Una vetrina con esposti dei sandali dalle solette di corda, sistemanti in una sottospecie di caverna dalla quale proviene un suono registrato che ricorda il rumore della giungla. Negozi di caramelle dalle finte facciate, con l’intento di riprodurre quella di un castello in miniature. Ma queste finte architetture sono troppe e sarebbe esageratamente stancante elencarle tutte. Un giorno sono andata in un supermercato a comprare del pane e delle arance e la ragazza alla cassa indossava un sacco di iuta, aveva la faccia imbrattata di fango e pittura rossa e un osso di plastica infilato tra i capelli. C’era una promozione di uva e carne di manzo proveniente dall’Australia. A un certo punto però quella ragazza mi ha sorriso, e il suo sguardo così umano e stanco, nonostante il fango e la vernice, mi ha rassicurato; riesci a trovare qualcuno capace di tranquillizzarti con un’espressione del viso quasi sempre in posti del genere.
Percorro queste strade perché mi ricordano qualcosa di te, una volta ho cercato alcuni indizi sui luoghi che frequentavi, negli articoli che hai scritto per alcuni giornali e riviste, e nei libri che hai redatto con così grande efficienza, sempre per accontentare il volere di altri però, mai il tuo. Sei così divertente e colto, così esperto nell’esprimerti da rasentare la bravura di un “fuoriclasse”, ma ti trattieni dal mostrare anche questo.
«È tutto qui?» Riesco a sentire la mia voce pronunciare queste parole e tu che ridi in modo indulgente e mi rispondi «Che cos’altro dovrebbe esserci?» Ma io non ne sono convinta, continuo a inseguirti, voglio la verità.
Se dovessi fare una tua descrizione per come realmente e segretamente ti vedo, direi che sei una persona intransigente. E tu ribatteresti con impazienza di essere sceso a compromessi per tutta la vita. Ma non è questo quello che intendo. Te lo dirò più chiaramente: sei un testardo, totalmente irremovibile (nel corpo e nello spirito), severo, sei gentile ma non compassionevole. Vorrei però sottolineare che c’è anche qualcosa di cavalleresco in te. Ti vedo capace, proprio come un cavaliere, di atti di auto-sacrificio all’antica e di gesti dalla spettacolare brutalità, ti immagino fare questo genere di azioni con rigore, come se appartenessi a qualche ordine segreto e dovessi sottostare al loro codice.
Tu, d’altra parte, descriveresti te stesso come un uomo geniale, viziato, e di solito egoista oltre che amante del piacere. Mi guarderesti da sopra i tuoi occhiali come un qualsiasi umile e inflessibile insegnante, infastidito dalla mia visione estremista delle cose. Dovremmo considerare anche il fatto che io sono innamorata, e soprattutto il modo in cui lo sono: per me l’amore è come una stravaganza a cui si può porre rimedio, o un’affermazione troppo forte in un tema.
Fin dall’inizio ovviamente sapevo che questo mio modo di vivere era pericoloso. Ero consapevole anche del fatto che la corda si sarebbe potuta rompere in qualsiasi momento, avrebbe potuto essere tagliata, non c’è modo di capire dove ha origine la rottura, né di distinguere quando dipende dal tuo stesso volere e quando invece non è sotto il tuo controllo; non c’è nessuno con cui potersela prendere. Ma appena prima dell’ultimo istante, era arrivata la salvezza. La mia breve e azzardata lettera, l’ultimo disperato tentativo, e poi la tua, scherzosa, in qualche modo anche tenera, di scuse, in cui mi dici che non c’è stato mai nessun pericolo. Sono sempre stata su un terreno solido, non mi hai mai abbandonata. È come se questa voragine in cui sono precipitata, rappresentata dalla tua assenza, non sia nient’altro che un incubo, o al massimo un luogo nel quale, per ricevere aiuto, devo solo gridare abbastanza forte e in modo convincente, e quell’aiuto arriverà.
Mi sono ritrovata a leggere alcuni articoli su delle riviste femminili. Storie di donne. Nei periodi in cui mi sento fiduciosa, in cui va tutto alla grande, evito di leggere queste cose per superstizione; quando invece la mia speranza cade in basso, molto in basso, le leggo per confortarmi, è alquanto incoraggiante, infatti, scoprire che le esperienze altrui non trasmettono un particolare senso di angoscia, quanto piuttosto la consapevolezza di dolori passati e circoscrivibili. Ci sono anche interventi di altre donne pronte a offrire il loro aiuto una volta superato il periodo di crisi. Marta T.: compagna per cinque anni di un uomo che l’ha ingannata, presa in giro e allo stesso tempo affascinata. Mi sono innamorata di lui perché sembrava così gentile, scrive lei. Emily R.: il suo fidanzato non era scapolo come diceva di essere. Oh, quanto spesso parlando di questi argomenti, sia con uomini sia con donne, mi sono ritrovata a esprimere pareri arguti, ma anche rassegnati del tipo: come fanno le donne a costruire i loro castelli su fondamenta che non sono abbastanza resistenti nemmeno per sostenere una capanna; oppure: come mai ingannano sé stesse e soffrono inutilmente, lasciandosi sfruttare dagli uomini solo a causa del senso di vuoto che c’è nelle loro vite e di qualche profonda lesione dentro di loro – impossibile da definire e non del tutto irrimediabile! E così via, il genere di cose che tutti, al giorno d’oggi, conoscono a memoria proprio come i versi di una canzone famosa. Nel frattempo il mio cuore si è spezzato, come quello della canzone, si è prosciugato, è caduto in pezzi, allo stesso modo in cui si frantumano le zolle di terra corrose dai canali di scolo. Piango insieme a Marta T. e a Emily R., e mi chiedo in che modo siano riuscite a riprendersi. Imparando a fare il macramè ? Respirando profondamente? Una volta una mia amica – una donna, ovviamente – mi ha detto che dal momento che il dolore si genera guardando al passato e pensando al futuro, lei aveva eliminato completamente il problema iniziando a vivere alla giornata; ogni istante doveva essere riempito dall’assoluto silenzio. Ho tentato di farlo, proverei a fare qualsiasi cosa, ma non capisco come funzioni.
Ho comprato una mappa. Ho trovato la tua strada, l’isolato dove si trova la tua casa. Non è molto lontano dal mio appartamento. Si deve camminare per dieci blocchi su per giù. Non ci sono ancora andata. Quella è la casa che non hai mai avuto intenzione di farmi vedere. (Per quanto riguarda i luoghi in cui vivo io invece era esattamente l’opposto; li ho preparati aspettando il momento in cui i miei racconti sarebbero diventati reali, quello in cui saresti venuto a visitarli). Adesso posso vederla se voglio. Posso camminare lungo il lato opposto della strada, con il cuore che batte forte, riuscendo solo a lanciargli un paio di occhiate, e poi, soltanto dopo aver preso un po’ di coraggio, ricominciare a camminare più lentamente. Il momento della giornata che sceglierei sarebbe il crepuscolo, a quell’ora potrei gironzolare vicino alle finestre aperte, ascoltare la musica e le voci provenienti dall’interno. Immagino che sia vera, una vera casa, dove la gente lava i piatti e dorme fino a tardi. Durante la notte, se lei non tira le tende, potrei guardare che cosa c’è dentro alle tue stanze. I quadri li hai scelti tu? O lei? Nessuno dei due. Entrambi. Queste scoperte sono ovviamente dolorose per me.
Una volta ho letto una storia, una storia vera, in un giornale – poteva anche essere uno di quelli per i quali lavoravi tu – parlava di una donna che aveva perso tutte e due le sue bambine in un incidente automobilistico, e tutti i giorni quando gli altri due figli tornavano a casa da scuola, lei usciva e percorreva tutta la strada, quasi aspettandosi di veder tornare anche le due femmine. Non arrivò mai fino alla scuola però, né guardò dentro all’aula dove c’erano i loro due banchi vuoti, non si sarebbe mai arrischiata a tanto.
Ho deciso di andare al negozio di tua moglie, questo posso farlo. Non so quale sia. Ho dato un’occhiata alle librerie che sono nell’elenco telefonico. IL MERCATO DEI LIBRI DI BARBARA, deve essere questo. A giudicare dal nome mi sarei aspettata qualcosa di ricercato e bizzarro; mi ha sorpresa scoprirlo un posto spazioso, luminoso, affollato, come una qualsiasi libreria. Nessuna decorazione medievale o in stile Tudor; né di nessun altro tipo. Un’attività solida, aperta tutto l’anno, non un negozio addobbato per catturare l’attenzione dei turisti.
L’ho riconosciuta subito, nonostante sia cambiata. Ha i capelli grigi, più grigi dei miei, tirati su in uno chignon. Quell’acconciatura li fa sembrare più corti di quanto lo siano in realtà, niente trucco, la pelle giallastra, e nonostante tutto si possono ancora intravedere in lei alcuni sprazzi di fascino intenso; quel suo stile frenetico, sbarazzino, irritante. Indossa una camicetta viola scolorita con alcuni inserti di ricami indiani. Si muove rigidamente, perché dopo l’operazione in cui le è stata asportata la cartilagine dal ginocchio è come se avesse dovuto imparare a camminare di nuovo. Ed è più grassa, proprio come mi avevi detto; insomma: una qualsiasi, tarchiata, donna di mezza età.
È uscita dal retro del negozio con in mano un paio di grossi libri d’arte. Adesso è dietro al bancone, ha appoggiato i libri su uno scaffale, sta parlando con la sua aiutante, il loro discorso sembra iniziato in precedenza. «Dunque, non so come – inviagli la fattura se vuoi – ma chiamali e di’ loro che questo non è il modo in cui si fanno affari qua, che diavolo! Informali che rimanderemo indietro tutto il carico».
La sua voce non mi è nuova, me la ricordo, è la stessa che ho sentito un sacco di tempo fa a una o forse due feste del campus – il tono è chiaramente provocatorio, quasi esasperato, e aumenta di volume nel pronunciare frasi come: Mio Dio! Ma a che cosa pensano questi idioti!
È possibile che riconosca la mia voce o la mia faccia? No, non penso. Non è il tipo di persona che si ricorda quelli che vivono al margine, perché lei è sempre stata al centro, e inoltre non conosce niente di me, non è così? Non può aspettarsi la mia presenza qui.
Tuttavia mi sento di dare nell’occhio, oltre che colpevole e strana. Eppure rimango dentro la libreria a lungo, mi metto a girovagare per tutto il negozio. È terrificante, ci sono così tanti libri. Ho come l’impressione di fermarmi sempre davanti a quelli che spiegano alle persone come raggiungere la felicità, o come arrivare a essere in pace con se stessi. Non hai idea – beh, forse ce l’hai – di quanti libri ci siano su questo argomento. Non sono una persona sprezzante. Dovrei leggerli. O se non tutti, almeno alcuni. Ma tutto quello che riesco a fare è fissarli con aria stupefatta. Altri libri invece si occupano di magia, ci sono centinaia di testi su streghe, incantesimi, chiaroveggenza, rituali e ogni tipo di trucco e prodigio. A me sembrano tutti uguali – quelli che parlano di felicità e pace e quelli sulle meraviglie della magia – non mi sembrano assolutamente diversi tra loro, ecco perché non riesco a toccarli. Tutti insieme formano un flusso multicolore intorno al negozio, come fosse un fiume profondo, e io non riesco più a comprendere che cosa c’è scritto nelle loro pagine, così come non riuscirei a respirare sott’acqua.
Vado alla libreria ogni giorno. Ho comprato qualche libro in edizione economica. Rimango lì dentro a curiosare per ore, questo è quello che anche loro – i libri – devono pensare di me: che sono una ficcanaso. Una volta tua moglie mi ha guardata, e mi ha sorriso, ma è stato solo il sorriso frettoloso e impersonale che si riserva al cliente, la ascolto parlare con la sua aiutante, ridere, scherzare, ma anche fare discorsi seri, litigare con qualcuno al telefono, ordinare il suo tè con il miele, fare battute taglienti riguardo al carico di torte che ha rimandato indietro. La guardo mentre fa la prepotente con i clienti, a volte con vigore, altre con più grazia. Immagino di diventare sua amica, di sentire le sue confidenze. Mi vergogno di queste fantasie. Quando sono di fronte a lei provo invidia, ma anche un temporaneo senso di superiorità, oltre a una disperata e frivola curiosità nei confronti di ciò che la riguarda; ripensandoci mi vergogno di tutto ciò.
Vado al negozio anche di sera – è aperto fino alle nove – ma lei a quell’ora di solito non c’è. Una volta invece l’ho trovata lì, da sola. Dentro non c’era nessun altro. La vedo andare nel retro, quando esce ha qualcosa in mano e viene dritta verso di me.
«Credo di sapere chi sei».
Mi guarda dritta negli occhi. Deve alzare il mento per farlo, essendo molto più bassa.
«Ci siamo accorti tutti che ti aggiri qua intorno. All’inizio ho creduto che tu fossi una ladra. Ho detto a tutti di tenerti d’occhio. Ma tu non sei una ladra, giusto?»
«No».
Poi mi dà quello che ha in mano: una busta di carta marrone piena di fogli.
«È morto». Mi dice sorridendo, con la stessa espressione che hanno le maestre quando ti sorprendono impreparato. «È per questo che non hai più avuto sue notizie. È successo a marzo. Ha avuto un attacco di cuore, a casa, mentre era seduto alla sua scrivania. Sono stata io a trovarlo, quando sono rientrata all’ora di cena».
Non riesco a pronunciare neanche una parola, ed è giusto così.
«Dovrei forse essere dispiaciuta nel dirtelo? Non lo sono. Come puoi capire per me non è importante. Non lo è affatto. Non voglio vederti qua. Addio».
Me ne vado senza dirle una parola.
Una volta nel mio appartamento apro la busta e tiro fuori le lettere. È questo che sono: lettere, tutte senza il loro involucro. È esattamente quello che credevo ci avrei trovato dentro, sapevo che ci sarebbero state le mie lettere. Non voglio leggerle, ho il terrore di farlo, penso che le metterò via. Ma poi noto che quella non è la mia scrittura. Inizio a leggere. Queste non sono le mie lettere, non sono state scritte da me. Comincio a sfogliarle tutte, nel panico, per vedere la firma. Patricia. Pat. P.
Dopodiché mi fermo e ricomincio da capo, inizio a leggerle una per una.
Amore mio,
Mi ha resa così felice, anche dopo che te ne sei andato ho continuato a esserlo. Sono stata al parco con Samantha ed è stato bellissimo. L’ho spinta sull’altalena, l’ho guardata mentre faceva lo scivolo e ho pensato che amerò questo posto per sempre, perché ci sono venuta in un momento di gioia e dopo una giornata passata insieme a te.
Tesoro,
Ti ricordi il mio vecchio vicino pazzo? È sceso in giardino e si è mangiato i frutti attaccati all’albero rosa. Intendo quello di susine, quello che sta lì come ornamento, devono per forza essere frutti di ornamento, sono duri come sassi e a nessuno è mai passato per la testa di mangiarli, ne sono sicura, ma a lui sì: ho visto che li ha raccolti e ne ha ingoiati una manciata intera. Io ero seduta sul pavimento del soggiorno, sopra ai cuscini viola, dove io e te abbiamo…
Mio caro,
La scorsa notte ti ho sognato. È stato bello e strano allo stesso tempo. Mi stringevi i capelli tra le mani e dicevi: sono troppo pesanti per te, dovrai tagliarli, o ti indeboliranno. E il modo in cui lo dicevi era così dolce, così premuroso, come se ti riferissi a qualcosa di ben più importante dei miei capelli. Ma amore mio, che senso ha raccontarti che cosa dici nei miei sogni se non mi scrivi mai? Quindi per favore, scrivimi e dimmelo tu quello che fai nei miei sogni…
Amore,
Ho provato e riprovato a non scriverti, perché in fondo credo che sia tu a dover prendere una decisione, non voglio darti la caccia né tormentarti ma è così difficile, da quando sei scomparso dalla circolazione mi sento terribilmente sola. Se mi dicessi che non vuoi più vedermi o sentirmi lo accetterei, penso che riuscirei a farlo, il mio disagio deriva dal senso di impotenza che mi dà il non sapere. Quando devo, so gestire i miei sentimenti così come sono in grado di smettere di amarti, ma se non mi ami e non mi vuoi più devi dirmelo tu quindi per favore, per favore, dimmi sì o no.
E poi l’ultima lettera – nonostante non lo sembrasse affatto –, un grande scarabocchio in mezzo alla pagina, senza alcun saluto o firma:
Per favore scrivimi o telefonami, sto diventando matta. Odio comportarmi così, ma tutto ciò è molto di più di quanto io riesca a sopportare quindi ti supplico.
«Non ho scritto queste lettere».
«Non sei lei?»
«No. Non so chi sia questa persona. Non lo so proprio».
«Come mai te le sei prese allora?»
«Perché non avevo capito. Non sapevo a che cosa ti stessi riferendo. Poi mi è dispiaciuto, è solo che a volte io… non presto molta attenzione».
«Devi aver pensato che sono pazza».
«No. Non sapevo che cosa pensare».
«Vedi, è successo che …mio marito è morto. Lo scorso marzo. Bhe, te l’ho già detto. Queste lettere hanno continuato ad arrivare. Non c’è l’indirizzo del mittente. Non c’è nemmeno il suo cognome. Il timbro postale è di Vancouver, ma quanto può essere d’aiuto? Ho pensato che si sarebbe fatta viva. Sembra così disperata».
«Sì».
«Le hai lette tutte?»
«Sì.»
«E hai impiegato così tanto tempo per renderti conto che c’era stato un errore?»
«No. Ero soltanto curiosa».
«La tua faccia mi è familiare. Molte altre lo sono, è per via di questo lavoro. Vedo così tanta gente».
Le dico il mio nome, il mio vero nome, perché no? Non significa niente per lei.
«Vedo così tanta gente». Tiene sospesa la busta con dentro le lettere sopra al cestino, poi ce la butta dentro. «Non voglio più tenerle in giro».
«No».
«Lascerò che soffra».
«Magari si farà viva».
«E se non lo farà? Non è un mio problema».
«No».
Non voglio più parlare con lei, né sentire quello che ha da dire. L’alone che la circonda si è sbiadito, come se il suo bagliore si fosse consumato.
Poi mi guarda. «Non so perché ho pensato che fossi tu. Non sembri molto più giovane di me. E io ho sempre saputo che le sue amanti invece lo erano».
Poi dice «Sai più cose tu riguardo alla mia vita della ragazza che lavora con me, o dei miei amici, o di chiunque altro, a parte lei, credo. Mi dispiace, ma preferirei non vederti mai più».
«Non vivo qua. Me ne sto andando. In effetti dovrei partire domani».
«Questa è la vita, si sa. Fa parte di quello che capita di solito. Il nostro non è stato un brutto matrimonio. Non abbiamo avuto figli, ma li avremmo voluti. Era un brav’uomo, era facile trovarsi bene con lui. Ha avuto successo nella vita. Ho sempre pensato che ne avrebbe anche potuto avere di più se avesse fatto maggior pressione su se stesso. Ma è andata bene anche così. Se ti dicessi il suo nome capiresti di sicuro chi è».
«Non c’è bisogno che tu lo faccia».
«No. Oh, no. Non lo farei mai».
Fece una smorfia di amarezza, quella di chi ha appena incassato un colpo, e per finire fece un sorrisetto, con il quale si sarebbe liberata definitivamente anche di chiunque altro. Io mi voltai appena in tempo per non vederlo.
Uscii per strada, le giornate erano ancora lunghe e non si era ancora fatto buio. Camminai molto. In quella città che esisteva solo nella mia immaginazione; superai muri di pietra, andai su e giù per ripide colline, nella mia testa c’era ancora l’immagine di quella ragazza: Patricia. Ma dovrei dire donna, il tipo che chiamerebbe sua figlia Samantha: molto magra, capelli scuri, vestita alla moda, leggermente nevrotica, dall’aspetto un po’ artefatto. Riesco a vedere i suoi lunghi capelli neri. Quei lunghi capelli neri tutti spettinati, il viso truccato. Passa da stanza a stanza. Cerca di sorridere a se stessa mentre si guarda allo specchio. Prova a truccarsi. Si confida con un’altra donna, va a letto con un altro uomo. Porta sua figlia al parco, ma non in quel parco. Evita di passare per certe strade, non apre mai alcuni tipi di riviste. Soffre e si comporta secondo delle regole che noi tutti conosciamo: incomprensibili e assolute. Quando penso a quella donna vedo e comprendo il senso di amore e devozione che anche tu devi aver visto in lei, o forse dovrei dire che ancora vedi, come qualcosa che continua a distanza; uno strano, ma non compassionevole dispendio di energia; la misteriosa cerimonia di una fede a te sconosciuta. Ho ragione? Sono andata vicina a quello che pensi? È vero?
Ma sei stato tu, continuo a dimenticarmelo, lo hai detto tu per primo.
Come possiamo arrivare a capirti?
Non importa. Me la sono inventata quella donna. Mi sono inventata anche te, era questo il mio scopo. Ho architettato nella mia mente il mio amore per te e la tua morte. Ho anche io i miei trucchetti e le mie scappatoie. Attualmente non capisco ancora il loro funzionamento, ma devo stare attenta, quindi non ne parlerò.
Fotografia: G. Biscardi, Palermo 2015, Rosa.
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