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diretto da Romano Luperini

len 20080319 0736

Quattro modi per essere insegnante

 In aula docenti

Non mi piace l’aula docenti. Durante le mattinate dell’anno scolastico, se ci sono molti insegnanti, è rumorosa del rumore che tira fuori il peggio dei presenti. Se è vuota è silenziosa di un silenzio fragile, sempre sul punto di essere violato da qualcuno. Impossibile studiarci dentro. Di pomeriggio sa essere inquietante come ogni luogo vuoto della scuola, nei tempi del giorno che non sono i suoi. Per questo preferisco nelle ore libere la biblioteca, un’aula comune o anche il bar, luogo per lo meno onesto con la sua natura. Eppure ogni tanto anche in aula docenti accade il piccolo miracolo di un momento importante, isolato dal tutto, uno scambio con un collega o una collega che diventano amici. È quanto mi è capitato un giorno, durante un’ora buca dovuta a una mia classe in viaggio d’istruzione. Mi ero portato il solito pacco di verifiche da correggere; pur avendo poca voglia ne avevo già valutata qualcuna quando ho incrociato lo sguardo con un’insegnante che conoscevo appena. Abbiamo iniziato a chiacchierare, per una volta non delle malefatte del dirigente o del collega di turno (sarei tornato alla correzione delle verifiche all’istante) ma di qualcosa che avrebbe continuato a ronzarmi in testa per molti giorni. Quella mattina, durante quell’ora buca, è stato un interrogativo apparentemente inconsistente per la sua genericità a mettere in relazione me e la mia collega: abbiamo iniziato a discutere a partire dalla domanda «quali sono secondo te i modi in cui si può essere insegnante?» Non ricordo per filo e per segno le argomentazioni portate da entrambi, ma ricordo le conclusioni a cui siamo giunti insieme. Per raccontarle qui ho deciso di adattare in modo retorico e poco ortodosso un modello assai antico, la cui paternità non dovrebbe sfuggire al lettore attento: alla fine di quella chiacchierata, sono risultati essere quattro i modelli di insegnante su cui io e la mia collega ci siamo trovati d’accordo.

Primo

 

Un primo modo per essere insegnante è quello di farlo per sé.

Per il posto fisso, per il posto fisso vicino casa, per il posto fisso vicino casa meglio se a piedi. Per i «tre mesi di ferie all’anno», perché «tanto chi ti controlla», perché in fondo «sono solo cinque minuti di ritardo». Perché comunque poi ti chiamano «prof», perché «ah no questo non mi è dovuto, quello nemmeno, quest’altro qualcun altro lo farà», perché «oggi mi gira così e io faccio così». Esistono questi insegnanti nella scuola, certo che esistono. Esistono ogni volta che si scrive una programmazione come fosse una lista della spesa, ogni volta che si salta un argomento perché tanto «ma che ne sanno questi e io sono stufo», ogni volta che «adesso prendete il libro e studiate da pagina a pagina perché devo compilare il registro». Esistono ogni volta che il ragazzo diventa il rompipalle, la sua valutazione una crocetta tra tante, il suo fallimento un «gli sta bene». Esistono ogni volta che è colpa del ministro, del dirigente, del collega, punto. E fanno i danni questi insegnanti, certo che fanno i danni. A volte sono come la grandine a maggio, portano sale dove c’è bisogno d’acqua, rompono rami che andrebbero curati. Troppe volte coprono il solco di chi un’ora prima ha arato, tarpano forza e fiducia a chi per età è giusto ancora le cerchi, mettono il tetto a un posto adatto al cielo. Da troppi anni dicono alla società che poi la scuola è quella, che l’insegnante in fondo è quello, che alla fine anche il ragazzo è normale sia quello. Per questi insegnanti resta lo stipendio e la possibilità di passare quarant’anni evitando di esistere. Disattendono la responsabilità che determina la libertà. Rubano il tempo a chi si apparecchia a viverlo. Il primo modo per essere insegnante è farlo per sé, e può essere davvero un mestiere dannoso, anche per chi lo fa.

 

Secondo

 

Un secondo modo per essere insegnante è quello di farlo per l’altro ma per farlo per sé.

Se il primo modo di fare l’insegnante chiama al semplice mantenimento del proprio stato di comodo, esiste un modo meno basso per aderire a quello che comunque rimane un approccio individualistico. Si può fare l’insegnante e magari arrivare a farlo anche in modo apparentemente ineccepibile, ma con il solo scopo di legittimare se stessi. Questo succede ogni volta che la scuola e il suo ambiente diventano il luogo della propria affermazione professionale ed esistenziale fine a se stessa, il luogo dove ciò che conta è l’approvazione, dove anche la classe e l’attività didattica diventano un modo per dire «io faccio, io sono». Di gran lunga preferibile al docente che pensa solo al proprio comodo, è però ambiguo anche colui che vede negli alunni o gli ingranaggi di un progettificio didattico, che dimentica il peso della relazione anche a fronte di una efficienza inappuntabile, o in altro modo pensa che sia il fascino romantico esercitato sui ragazzi a dare ragione del proprio stare in cattedra. Esistono questi insegnanti, per certi versi in modo anche funzionale al contesto, ma con il peso di un interesse che può diventare dannoso. Perché è facile farsi ammaliare dall’approvazione del proprio operato fine a se stesso, perché è semplice rimuovere in tal senso la natura intimamente comunitaria dell’insegnamento, perché anche a un livello più emozionale è facile proiettarsi novelli Keating in piedi sui banchi a cercare il plauso degli alunni. Che sia il fare di un efficientismo produttivo a oltranza o viceversa il fare di un perenne auto-riconoscimento emozionale, ancora più pericoloso perché agito sulla parte esposta dei ragazzi, si può essere insegnanti solo per legittimare se stessi. Il secondo modo per essere insegnante è dunque farlo per l’altro ma per sé, e può essere davvero un mestiere rischioso, anche per chi lo fa.

 

Terzo

 

Un terzo modo per essere insegnante è quello di farlo per l’altro e solo per l’altro.

Apparentemente sembrerebbe l’insegnante modello e in effetti per alcuni lo è: si tratta di quei docenti che si immolano letteralmente per la scuola, gli alunni e spesso e volentieri sono quelli che riescono a tenere in piedi l’istituzione. Eppure anche questo modo di pensare l’insegnamento al limite dell’oblazione nasconde seri rischi. Perché spesso si tratta di un investimento emotivo del tutto incontrollato e assolutamente permeabile ai propri vissuti personali, perché si incardina su una presa in carico che a volte perde di lucidità, perché alla lunga prosciuga letteralmente le riserve umane e intellettuali di chi incarna questa modalità. L’insegnamento, come tutti i mestieri (osando un termine ambiguo e che personalmente rifiuto) vocazionali, può rischiare di annullare la propria personalità all’interno della funzione che si svolge. Si possono creare dei veri e propri cortocircuiti esistenziali per cui, per quanto nobile possa sembrare, chi fa l’insegnante è portato a ritenere che si possa esistere solo in quanto insegnanti. Il discorso non è ozioso se si pensa a quanto spesso vengano meno i confini chiari su ciò che un insegnante possa e non possa fare per uno studente; a quanto consumarsi acriticamente dal punto di vista emotivo porti facilmente al burnout; a quanto il primo mandato dell’insegnante sia soprattutto quello di consegnare ai ragazzi una visione adulta ed equilibrata della gestione dei rapporti personali; a quanti insegnanti, magari incredibilmente motivati e motivanti, abbiamo visto consumarsi fino a esaurirsi negli anni, addirittura fino a rigettare quella professione che sembrava fosse l’unica a dare un senso alla propria esistenza, magari a fronte di una delle tante delusioni educative di cui la scuola è continua dispensatrice. Essenziale è capire dove inizi la nostra funzione e dove finisca. Il terzo modo per essere insegnante è perciò farlo per l’altro e solo per l’altro, e può essere davvero un mestiere pericoloso, anche per chi lo fa.

 

Quarto

 

Un quarto e ultimo modo per essere insegnante è quello di farlo per sé per farlo per l’altro.

Per dirlo con parole ancora più semplici (e seminare un ulteriore indizio sull’antica fonte) l’unico modo per volere veramente bene a qualcun altro è quello di volersi anzitutto bene. Traslato, un insegnante potrà davvero rendere giustizia alla propria funzione partendo dalla cura positiva di se stesso, con il fine consapevole di fare transitare positivamente questa cura sull’altro. E i modi giusti per volersi bene non dovrebbero essere troppo oscuri se si parte dall’analisi di quale funzione, ben più del ruolo, si è chiamati a esercitare. Essere onesti, corretti, preparati significherà stare bene in un luogo che chiede onestà, correttezza, preparazione. Curare attraverso una curiosità mai sopita la propria voglia di conoscenza significherà fare transitare con soddisfazione la stessa voglia di conoscere e di aprirsi al mondo. Cercare con volontà bellezza, equilibrio, armonia in un verso, in uno snodo storico, in un’equazione, significherà insegnare senza troppa inerzia la stessa bellezza, lo stesso equilibrio, la stessa armonia a chi detiene in potenza lo stesso desiderio. È stata proprio questa la conclusione cui siamo giunti quella mattina io e la mia collega più anziana: l’unico modo per essere veramente un buon insegnante dovrebbe essere quello di tenere come prezioso il proprio essere, per poter essere preziosi per gli altri. La generosità verso noi stessi, la cura verso le nostre capacità, l’amore attraverso lo studio per il nostro sapere non dovrebbero mai lasciare spazio né al basso egoismo, tanto meno all’egolatria, men che meno all’onnipotenza degli aspiranti salvatori. Essere autenticamente donne e uomini ancora prima che insegnanti e darsi animo perché il nostro essere insegnanti si innesti anzitutto su un’umanità, un sapere, un trasmettere curati e custoditi: su questo ci è sembrato di convenire, io e la mia collega, alla fine di quella chiacchierata in un’ora buca. Il quarto modo per essere insegnante è allora farlo per sé per farlo per l’altro, e può essere davvero un mestiere bello, anche per chi lo fa.

 

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Fotografia di G. Biscardi, Negozio in ristrutturazione, Palermo 2008.

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