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diretto da Romano Luperini

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L’autore, il genere, il pubblico. Intervista a Nicola Lagioia

 Tra l’autunno 2014 e la primavera 2015 la Scuola Galileiana di Studi Superiori di Padova ha ospitato un ciclo di incontri con narratori e poeti intitolato L’autore, il genere, il pubblico, organizzato da Pier Giovanni Adamo e Marco Malvestio, al quale ha partecipato anche Nicola Lagioia. Il testo che segue, preceduto dal questionario che introduceva ogni incontro, è la trascrizione dell’intervento nel corso del quale lo scrittore ha discusso la sua esperienza e la sua idea della letteratura. L’intervista è stata condotta da Pier Giovanni Adamo, Marco Malvestio e Franco Tomasi. Qui potete trovare la precedente intervista a Dal Bianco. 

Questionario

1. Ha senso parlare di “fine dei generi”? Ovvero: pensa che la letteratura, a un secolo dalle avanguardie e dopo oltre trent’anni di importanti tentativi di dissoluzione, abbia ancora un bisogno pratico, non solo concettuale, delle forme?

2. Crede che oggi esista o debba esistere una specificità del genere letterario in relazione al contenuto espresso, come se forme privilegiate potessero veicolare esclusivamente determinati contenuti, altrimenti ineffabili? Due esempi: la poesia contemporanea, soprattutto italiana, è ancora eminentemente lirica? Il romanzo rimane l’epopea del mondo borghese o è semplicemente la possibilità di raccontare qualsiasi storia in qualsiasi modo?

3. Nel suo lavoro di scrittore, sia al momento della creazione autonoma dei testi sia nella prospettiva dell’orizzonte d’attesa dei lettori, ha dato peso all’idea dei generi letterari? Se sì, sarebbe in grado, anche con un esempio tratto dalle sue opere, di quantificare questa influenza?

4. Quanto conta, secondo la sua esperienza, nel rapporto tra un autore, le case editrici e il mercato la scelta di esprimersi in uno o più generi letterari, magari ibridandoli? Perché lei ha scelto quello/quelli che conosciamo?

5. Come si realizza, a suo parere, nella contemporaneità l’incontro tra la letteratura e altre forme discorsive, quali, ad esempio, la storia, la saggistica, l’autobiografia? Quali componenti formali, espressive, tematiche coinvolge, mutandole, questa contaminazione?

Nicola Lagioia

Nicola Lagioia (1973) è autore dei romanzi Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (senza risparmiare se stessi) (2001), Occidente per principianti (2004), Riportando tutto a casa (2010) e La ferocia (2014), oltre che del romanzo collettivo 2005 dopo Cristo (2005), scritto con Francesco Pacifico, Francesco Longo e Christian Raimo sotto il nome di Babette Factory. Lavora per la casa editrice minimum fax ed è tra i selezionatori della Mostra del cinema di Venezia.

LAGIOIA: Rispondendo alla vostra prima domanda, io sarei portato a contrapporre il concetto di forma a quello di genere. Ad esempio, il mio ultimo romanzo, La ferocia, usa la forma del noir senza appartenere al genere. Noi siamo abituati ad associare al genere la serialità – è il caso appunto del noir, per esempio. In altre parole il genere, per la letteratura non di consumo, è un mezzo, non un fine. È interessante come insieme di elementi predefiniti a cui attingere (nello specifico del noir, un mondo in cui il male è radicato), ma ha senso, in letteratura, solo nel momento in cui viene utilizzato per altro.

La letteratura è un’esperienza conoscitiva. Per me è importante, quando scrivo un romanzo, non sapere se sarò in grado di portarlo a termine. Devo avere paura del fallimento per riuscire a ottenere dei risultati. Questa paura con la serialità della letteratura di genere non ce l’avrei, naturalmente; ed è la ragione poi per cui tutti i miei romanzi sono diversi tra loro.

Il romanzo è il mezzo per esplorare una verità, e, una volta esplorato un campo, va da sé che io mi interessi a uno diverso. In poesia invece la verità è sempre da sottoporre a verifica, ma ha un suo alto tasso di visione. Chi scrive prosa non può ragionare astrattamente, per categorie platoniche: queste categorie devono incarnarsi in qualcosa di unico e terreno. La verità della prosa, per così dire, è come se fosse una piccola ampolla al centro di una città assediata, un elemento cardine nascosto da qualche parte che bisogna riuscire a trovare. Ad esempio, ne I fratelli Karamazov questa ampolla sono le pagine in cui Ivan sostiene che se dovesse barattare la sofferenza di un bambino con la felicità del genere umano sceglierebbe di condannare l’umanità – e naturalmente tutto il resto del romanzo, lungo, esorbitante, complesso, fa massa e ha il fine di dare significato a quelle poche pagine.

La ricerca stilistica è essenziale per la letteratura. Spesso il lettore italiano la vive come un impedimento incidentale, ed è il motivo del relativamente scarso successo di autori come Busi, Siti o Moresco, ma per me è il nucleo stesso della letteratura. In questo senso, sono molto poco legato alla neoavanguardia, benché il mio primo romanzo, Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj, vi ammiccasse un poco. Sono invece estremamente legato al modernismo, e ho l’impressione che la grande lezione di Proust, Musil, Woolf, faccia sembrare ingenui gli esperimenti, per dire, del Gruppo 63. Eppure ancora non è stato metabolizzato a sufficienza, il modernismo.

Purtroppo, a differenza della scienza, la storia della letteratura non è una progressione. Sarebbe impensabile per un fisico ignorare la lezione di Einstein, ma non vale lo stesso per uno scrittore con le conquiste del modernismo letterario. La letteratura viva oggi è quella che si rifà al modernismo – McCarthy, Littell, Sebald, Bolaño. Fuori da queste forme, non è letteratura. Sono forme, naturalmente, che si prestano poco a essere divulgate, che richiedono un impegno attivo da parte del lettore, e questo la mette in minoranza nei mezzi di comunicazione mainstream come i telegiornali o, più recentemente, i festival letterari. La letteratura non è la continuazione con altri mezzi del linguaggio quotidiano, ma è proprio un’altra cosa.

ADAMO: Leggendo La ferocia, ho pensato spesso al Faulkner – quello di Palme selvagge, piuttosto che a L’urlo e il furore. Quali sono stati i tuoi modelli per questo libro?

LAGIOIA: Rispondo partendo un po’ da lontano. Io ho avuto un rapporto un po’ complesso con il postmodernismo, sia per motivi anagrafici che biografici. Infatti, ho cominciato a lavorare nel 1999 a minimum fax, che è stata una delle case editrici che con più forza hanno fatto circolare l’opera di David Foster Wallace. L’Italia infatti è stato il primo paese fuori dagli USA a pubblicare Infinite Jest, che in Francia sta uscendo ora. Ecco, in Wallace e nei suoi compagni di strada a me è sempre parso di ravvisare un limite: è come se non si rendesse conto che una mappatura puntuale del mondo non è sufficiente, è come un marxismo senza escatologia. Ecco, per un autore come Bolaño il discorso non è assolutamente così. Non è un caso che Bolaño abbia frequentato così intensamente l’Europa, anche a livello di ispirazione, mentre Wallace no. Anche la generazione precedente a Wallace aveva radici europee (anche letteralmente, come DeLillo), per non parlare di autori come Fitzgerald e Hemingway.

Tra i miei modelli, invece, devo menzionare decisamente Dostoevskij ed Emily Brontë, anche se non so se traspare alla lettura. Invece alcuni recensori, con la scusa che il libro parla della rovina di una famiglia, ne hanno parlato come de «I Buddenbrock pugliese», ma in realtà non credo assolutamente che la famiglia Salvemini de La ferocia abbia qualcosa a che fare con la borghesia posata e protestante di Lubecca. Il patriarca è un contadino arrivato, avido, energico, che non ha neanche il tempo di intravedere i propri doveri sociali verso la comunità che li ha fatti arricchiti – più che i Buddenbrock, quindi, direi gli Uzeda de I vicerè. Anche De Roberto, in effetti, è un’ispirazione.  Tra gli italiani, va menzionato anche Busi, almeno per Seminario sulla gioventù, Vita standard di un venditore provvisorio di collant e Sodomie in corpo 11, oltre a Bufalino e Fenoglio.

TOMASI: Anche in riferimento all’ibridazione, io passerei alla nostra quinta domanda.

LAGIOIA: L’importante, nel rapporto con altre forme discorsive come la saggistica, è che non sia un traslato, ma un adattamento, una conversione ai codici del romanzo. L’esempio principe è quello di Tolstoj, che scrive Guerra e pace, in cui la grande quantità di scrittura saggistica è asservita al grande fine filosofico del romanzo. Altri ottimi esempi di conversione in codici romanzeschi di linguaggi particolari (il giornalismo, nello specifico) sono Musil, e Balzac con Illusioni perdute.

Sull’autobiografia, invece, credo che il meglio che si possa dire è che nessun giornale praghese ha mai riportato la trasformazione di un uomo in scarafaggio, ma che non c’è romanzo più autobiografico de La metamorfosi. Tutto quello che viene filtrato dal mezzo letterario non è più credibile.

TOMASI: E a tuo giudizio, per quali modelli italiani vale questa capacità?

LAGIOIA: Senza dubbio il Walter Siti di Troppi paradisi, che unisce romanzo, autobiografia, cronaca e riflessione sulla società dei costumi. Quello che in Scuola di nudo era solo un espediente linguistico diventa forte critica sociale in Troppi paradisi. Poi, tra gli altri, devo dire che non mi è dispiaciuta la tetralogia di Elena Ferrante – ne L’amica geniale c’è il romanzo rosa, ma c’è anche Elsa Morante.

TOMASI: E cosa pensi del rapporto di Siti con Pasolini? Perché Siti sostiene di averlo superato, di esserselo lasciato alle spalle.

LAGIOIA: Credo che non sia vero. Quando qualcuno afferma di essersi lasciato qualcosa alle spalle, di solito non è vero. Anche il suo cinismo, l’esibizione del proprio cinismo per non ricadere nel buonismo di sinistra, è ancora una polemica verso Pasolini.

PUBBLICO: Io sono stato molto colpito dal fatto che l’immaginario collettivo di Riportando tutto a casa è costruito in modo serio, non viziato, come in Siti, dall’ironia.

LAGIOIA: Dici bene. Non credo che l’ironia sia una postura efficace per raccontare il reale, perché, almeno in Italia, si rende complice col potere – pensate a Drive In e al modello che ha lanciato, che non mette in crisi il linguaggio dominante ma vi si appiattisce. È vero che l’ironia serve a esorcizzare le difficoltà sistemiche di una generazione (la vostra, ma anche quelle immediatamente precedenti) che è messa sotto scacco da circostanze stagnanti, ma è anche vero che poi l’ironia non ha alcuna incidenza sulla realtà.

MALVESTIO: È interessante quanto dici sull’abbandono dell’ironia, che nella tua scrittura è decisamente palpabile. Allo stesso modo è interessante quello che dici sul recupero del modernismo, che mi richiama molto da vicino le ultime pagine di Teoria del romanzo di Guido Mazzoni. Avrei invece una domanda. Mi chiedevo per prima cosa, oltre alla letteratura, se avessero un’influenza le serie televisive – noi abbiamo visto molto di Twin Peaks e di Lynch in generale. Che rapporto può avere uno scrittore con queste forme che sono, tutto sommato, nuove?

LAGIOIA: Ecco, non credo che siano forme nuove, tanto per cominciare. Twin Peaks è qualcosa di nuovo, il resto no. Poi l’idea che le serie tv siano la nuova letteratura, perché avrebbero una temporalità non letterale, è ridicola, sono cose che la letteratura e il cinema fanno da secoli. Per Twin Peaks è diverso, si vede l’occhio dell’artista, lì, e le stranezze che si possono trovare in altre serie sono episodiche, non sistematiche come nel lavoro di Lynch. Le serie televisive che girano oggi sono come la parafrasi di Twin Peaks: per quanto estreme, mantengono un fondo di ragionevolezza che gli impedisce di avvicinarsi alla vertigine che crea Lynch.

ZINATO: Tanto per cominciare, vorrei comunicarti la mia stima per un libro, La ferocia, che penetra le viscere del paese come pochi altri sanno fare. Vorrei poi segnalare un paio di cose: l’impiego martellante della paratassi; e la grande diffusione di elementi animali. Ecco, puoi dirci qualcosa su come li hai interpretati tu? Poi avrei un’altra domanda: la generazione di Pasolini, Moravia, Bianciardi, a te sembra la riserva indiana di una casta accademica che non sa vedere il prima e il dopo, o ha ancora qualcosa di imitabile, di vivo?

LAGIOIA: Senza dubbio è una generazione che ha ancora molto da dire, e io ho molto amato questi autori. Ho amato meno i loro esegeti, che limitano la loro visione a quella generazione e non oltre.

Gli animali invece credo che abbiano un duplice significato. Il primo, di tipo etico, è legato al libero arbitrio: gli animali non possono sottrarsi alla loro natura ferina, violenza, mentre alcuni personaggi de La ferocia riescono ad andare oltre la loro natura, a sradicare il proprio istinto di prevaricazione. Il secondo invece ha a che fare con una paura – col timore, cioè, che se la sociologia è potuta essere la scienza del Novecento, la biologia possa esserlo del Ventunesimo secolo. Noi vediamo una duplice ferocia, quella ovvia, immediata, della violenza armata, magari dell’ISIS, e quella nascosta dell’accaparramento di risorse, che porta all’allargamento folle della forbice tra ricchi e poveri. Gli animali, poi, sono una dimostrazione viva del fatto che il realismo non esaurisce la realtà: sono forme di vita che hanno una percezione del mondo enormemente diversa dalla nostra, e in alcuni casi anche ferma a milioni di anni fa.

ILLETTERATI: Io ho l’impressione che il libro sia costruito attraverso una logica dell’ineluttabile – storico, familiare, ma anche genetico; e dall’altra parte c’è anche la forza di reagire all’inevitabile con un gesto energetico. A me è parsa una reazione forte anche alle logiche del postmodernismo, del suo appiattimenti sull’ineluttabile. In questo senso, apprezzo anche la volontà di leggere un conflitto, cosa che negli ultimi decenni si è persa.

LAGIOIA: È vero. Io credo molto nella grande capacità diagnostica del postmodernismo; e tuttavia non posso accettare che ci si fermi là. La scelta finale di Michele, che condanna tutta la propria famiglia, è anche una reazione a quella logica della purezza che si è tanto diffusa in Italia anche a livello politico: il rifiuto di mettersi in gioco per evitare la possibilità di essere colti in fallo. A fare del pensiero debole ci si mette sempre dalla parte della ragione, ma si rifiuta di incidere sulla realtà: io credo invece che sulla realtà si possa e si debba incidere.

MALVESTIO: A me interesserebbe invece che affrontassi la terza domanda, ampliandola in riferimento al tuo lavoro editoriale.

LAGIOIA: Il giudizio e l’attesa dei lettori pesano sempre dopo. Io attribuisco grande importanza ai feedback dei lettori, anche dei lettori online. Non scrivo con in mente il mio pubblico, però attribuisco grande importanza ai suoi giudizi per il lavoro successivo.

Su minimum fax, devo dire che abbiamo la fortuna di essere una piccola casa editrice che non deve fare grandi numeri. I risultati, tra le altre cose, sono sempre venuti per caso – per fare un esempio, Dieci micron di Marta Baiocchi, su cui avevamo molto puntato, vendette poco, e Il tempo materiale di Giorgio Vasta, che ci aspettavamo vendesse poche copie, ha venduto moltissimo, ed è stato anche tradotto negli Stati Uniti.

Se minimum fax esistesse per arricchirci, il discorso sarebbe diverso, certo: è quello che accade ai grandi gruppi editoriali, che hanno svenduto completamente la qualità della loro produzione col fine di aumentare il fatturato, e ora pagano la poca lungimiranza di quelle scelte.

ZINATO: Puoi dirci qualcosa su Babette Factory?

LAGIOIA: Fu un’esperienza molto divertente. Nacque tutto per iniziativa di Raimo, e il mio ruolo fu soprattutto di coordinazione, perché per come sento io la scrittura è un lavoro individuale. Cionondimeno, il lavoro collettivo mi affascina molto – nel cinema, per esempio – per il piacere che dà dividere con altri i risultati. 


Fotografia: G. Biscardi, 2016, lettura in treno

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