
(S)consigliati per l’estate. Una storia nera di Antonella Lattanzi
In questo periodo dell’anno si rincorrono sugli inserti letterari dei maggiori quotidiani le liste, più o meno nutrite, di libri “da mettere in valigia”, da “leggere sotto l’ombrellone”, di titoli che possano, insomma, degnamente accompagnare il tempo libero dei lettori nel corso dell’estate. Con questa rubrica “a tempo” si procederà, invece, all’operazione inversa, invitando a tenersi alla larga da alcuni titoli apparsi in questi mesi in libreria: a favore di un’“ecologia della letteratura” e in difesa dall’ipertrofica pressione editoriale che caratterizza l’odierna produzione romanzesca.
Una storia nera di Antonella Lattanzi, apparso nel marzo di quest’anno nella collana “Scrittori italiani e stranieri” di Mondadori, fin dal paratesto sembra proporsi come un romanzo che intende andare oltre il semplice intrattenimento: se il titolo e l’immagine di copertina alludono infatti al genere noir, la quarta promette di sondare addirittura il “crinale che separa bene e male, colpa e giustizia, amore e violenza” e la citazione in esergo – tratta da Memoriale di Paolo Volponi – apparenta indirettamente la protagonista Carla, per anni vittima delle violenze del marito al punto da premeditarne l’uccisione, all’operaio-contadino visionario protagonista del celebre romanzo sull’alienazione di fabbrica (“A quel punto – si legge nella citazione – ho capito che nessuno può arrivare in mio aiuto”).
In realtà, a ben guardare, Lattanzi ha confezionato un prodotto “furbo”: coniugando la sua abilità di sceneggiatrice – evidente nel ritmo incalzante, nei frequenti dialoghi e nel montaggio del plot – con l’argomento caldo del femminicidio ha costruito una parabola romanzesca caratterizzata da un immancabile colpo di scena conclusivo, la cui prevedibilità non sfugge, tuttavia, a un lettore accorto. Inoltre nel romanzo Carla, rea confessa, conosce durante il processo un trattamento mediatico che la trasforma repentinamente da “mantide” a Madre Coraggio. Se tale scelta, nella costruzione del personaggio, ben rappresenta la creazione del Mostro o, viceversa, della Vittima cui, in effetti, tanta recente cronaca nera ci ha abituato, il coup de théâtre su cui si chiude il romanzo non riabilita lo spessore della protagonista che rimane, come i comprimari e le comparse, costruita a tavolino e pronta per la trasposizione in una fiction televisiva da prima serata.
Funzionale al montaggio tra tematiche cronachistiche e banalità familiare è la scena stessa della violenza e del crimine: l’accostamento delle candeline di compleanno e dell’evento tragico. Infatti il lettore apprende presto che è stata proprio Carla, stanca delle continue minacce nonostante la separazione, ad ammazzare Vito in una notte d’estate caldissima, dopo averlo attirato nella trappola della festa di compleanno della loro terzogenita, di appena tre anni. Dunque, mentre Lattanzi non riesce ad andare davvero al cuore del rapporto malato e ossessivo di Carla e Vito – un “macho” che nel corso del matrimonio ha condotto una doppia vita con Milena – questa “storia nera” sembra dirci che oggi i prodotti di intrattenimento hanno bisogno di una vernice nobilitante, tratta dalla ”cattiveria” del modo di cui si nutre il giornalismo mediatico.
La stessa costruzione dello spazio narrativo – una Roma asettica e scontata, attraversata nei dodici mesi compresi tra l’agosto del 2012 e l’anno successivo – risulta uno sfondo incolore e inodore su cui spicca un banalizzato Castel Sant’Angelo. Solo le descrizioni della discarica di Spinaceto appaiono più marcate, ma in senso macabro e ancora una volta “televisivo”, appesantite dalla presenza di gabbiani voraci e violenti che volteggiano sui rifiuti e che fanno scempio dei resti di Vito. Sono figure animali che caratterizzano moltissime pagine del romanzo col risultato di indulgere su una presenza torbida e minacciosa che non riesce però ad assumere una valenza “altra”.
Analogamente, il rapporto che lega i due figli maggiori di Carla, Nicola e Rosa, è allusivamente equivoco e morboso: Nicola pare assumere il ruolo di capofamiglia autoritario e possessivo del padre e più di qualche passaggio lascia intendere che tra i due fratelli serpeggi un’attrazione che va oltre il rapporto fraterno (“«Rosa, che succede», Nicola si inginocchiò al suo fianco, «Rosa.» Lei lo guardò, e lo riconobbe, «Niente» disse, «scusate, solo un sogno.» E con lo sguardo spaesato, gli occhi azzurri come quelli di sua madre, i lunghi capelli biondissimi arruffati sulle spalle, era così sua, era così bella. Nicola la prese tra le braccia. Lei gli poggiò la testa sulla spalla. «Oh, come sei caldo» disse. Lui la stringeva e l’accarezzava e il cuore di entrambi batteva così forte «Tu sei calda, Rosa, sei calda» p. 240).
Stereotipata e prevedibile appare anche la rappresentazione di zia Mimma, la sorella maggiore ossessivamente legata a Vito: la donna incarna la tipica figura femminile del sud, strenua paladina del focolare domestico e acerrima nemica della cognata. Gli interni domestici di Massafra, il paesino pugliese da cui Vito proviene, dove avrebbe voluto che Carla si ambientasse con i figli e dove Mimma è rimasta, ossessiva custode dei Lari, presenta i tratti abusati di un sud visto mille volte e sempre uguale a sè stesso.
La narrativa d’intrattenimento più scontata, insomma, si ammanta oggi di marche “sapienziali” (quel crinale del bene e del male che consente indulgenza verso chi non ama i propri aguzzini http://www.iodonna.it/attualita/in-primo-piano/2017/03/27/antonella-lattanzi-non-amate-i-vostri-aguzzini/) e addirittura di rimandi alla migliore letteratura di ricerca dello scorso secolo (Volponi, seguito a introdurre le altre parti del romanzo da Lowry e Pavese). Ma, facendo ciò, imbroglia il suo pubblico e cerca di comprometterne definitivamente la capacità di distinzione: esattamente come in prima serata, ma con un pizzico di malizia in più.
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same old story
Ogni volta che uno scrittore o una scrittrice potenzialmente di talento sceglie di fare un noir o un giallo per alzare due spiccioli, un letterato muore.
Resistere bisogna e serve serve
Caro Volponi,
francamente non sono così certa che Lattanzi abbia del talento come Scrittrice (dove la maiuscola sta ad indicare una narratrice di valore); forse ha il talento per una sceneggiatrice per fiction da prima serata, ossia per quel facile intrattenimento che anestetizza e rassicura il pubblico di spettatori. Il problema è che sempre più l’editoria acquisisce, enfatizza e spaccia come “letterari” ingredienti che caratterizzano altri linguaggi narrativi – come quelli filmici e televisivi di largo consumo – azzerando quella complessità e quell’alterità che lo specifico letterario porta con sè. E’ una “catastrofe dolce” rispetto alla quale la critica deve essere baluardo e la didattica luogo di formazione dello spirito critico dei giovani lettori: [b]resistere bisogna e serve[/b].
right
Sono d’accordo, ma gli esordi di Antonella Lattanzi mi pare promettessero qualcosa. Ora si cerca – e questa, pure sono d’accordo, è probabilmente l’editoria – di combinare appeal “colto” con fruibilità “di genere”, naturalmente privilegiando nella sostanza quest’ultima. Mi chiedo quindi se non sia appunto l’editoria a spingere autori potenzialmente validi, ma magari non premiati subito dal venduto, verso questa direzione, penso ai non pochi, e tutti abominevoli, “marescialli” e “commissari” tentati da autori partiti con altre ambizioni.