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Le otto montagne

 Inizio con una premessa: questa che segue non è una recensione al libro di Paolo Cognetti Le otto montagne (Einaudi, 2016), ma una sorta di riflessione ad alta voce rispetto alle mie impressioni di lettore. Ciò che mi ha portato a scrivere queste righe e le successive è appunto legata a una domanda secondo me fondamentale: “Cosa chiedo come lettore a un libro che leggo?”. È naturale che la risposta a questo interrogativo produca per rimando una sorta di definizione di cosa sia la letteratura, ovvero di quella cosa che ironicamente e con estrema distrazione continuo ad amare e praticare in questi anni. Quindi nessuno si aspetti un discorso generale e o una teoria complessiva, perché non sono un critico né ho gli strumenti per esserlo, al massimo vi propongo una serie di riflessioni alcune volte idiosincratiche di uno scrittore che legge un libro.

Le otto montagne, in cinquina allo Strega di quest’anno e vincitore dello Strega giovani, è un libro praticamente perfetto. La lingua che usa Cognetti è misurata e precisa, la trama e la storia si sviluppano secondo una coerenza interna, che fa pensare a un lungo lavoro di riscrittura e di messa a fuoco dei diversi nuclei narrativi; anche i personaggi sono tratteggiati con maestria e sapienza.  Scalfita questa superficie, però, accade che il lettore si chieda perché debba leggere questo romanzo, cosa produca dentro di lui.

Spesso negli strilli o nelle fascette o nelle quarte di copertina leggiamo “romanzo necessario”, altrettanto spesso sorridiamo di questa moda. È chiaro che siamo di fronte a una semplice strategia pubblicitaria, ma sarebbe forse più utile ragionare sul perché si senta il bisogno di sottolineare costantemente la “necessità” di un testo. La risposta non più ovvia e immediata è che quegli strilli sono un sintomo. Essi certificano la povertà, o l’assenza, di libri necessari; si dice che ogni libro è necessario perché nessun libro realmente lo è, così di volta in volta, di quel determinato libro, si invoca la necessità a giustificazione dell’opposto.

 

Le otto montagne tenta di essere un libro “realmente” necessario, ma non riesce nell’intento. Ora provo a chiarire il mio pensiero.

Il libro di Cognetti è un romanzo che pone una serie di risposte alle questioni della vita. Lo fa in forma ellittica, come ellittici sono i suoi personaggi muti e scontrosi che, mai apertamente, trasmettono tutto quel che serve a capire.

Io osservavo le case diroccate e mi sforzavo di immaginarne gli abitanti. Non riuscivo a capire come mai qualcuno avesse scelto una vita tanto dura. Quando lo chiesi a mio padre lui mi rispose nel suo modo enigmatico […]: Non l’hanno mica scelto. Se uno va a stare in alto, è perché in basso non lo lasciano stare.

Spesso nel testo incontriamo stralci simili, in cui per via dialogica o tramite il discorso indiretto libero, si possono sottolineare sentenze gnomiche, frasi sul senso della vita e dell’esistenza. E credo che questo substrato sia stato quello che ha convinto molti ragazzi e molti professori a votare questo romanzo perché appunto è un libro che non pone interrogativi, ma dà delle risposte.

Il romanzo di Cognetti è soprattutto un testo edificante. Lo è anche dal punto di vista propriamente narrativo, perché il momento centrale di tutta la storia ha a che fare con il costruire una casa sulla roccia (c’è in questo passaggio un’evidente eco evangelica). Inoltre i diversi personaggi, l’io narrante e l’amico Bruno, tirando su muri e tetti e travi, si ricostruiscono e poco alla volta si scoprono più saggi e forti.

Vorrei spendere due parole sulla descrizione del rapporto tra i protagonisti de Le otto montagne, perché, analizzando loro due, si può rilevare il prestito letterario più dichiarato di Cognetti, ovvero il racconto Ferro de Il sistema periodico di Primo Levi. In realtà il libro contiene al suo interno una serie di rimandi e di piccole spie dell’importanza di questo scrittore per Cognetti; ad esempio il padre del protagonista è un chimico che lavora in fabbrica e ama la montagna. Questo basterebbe di per sé a far di Levi il nume tutelare di queste pagine, ma è nella descrizione del rapporto con Bruno che il calco con l’exemplum leviano è importante. Che Bruno debba molto alla figura di Sandro Delmastro in Ferro è innegabile. Sandro e Bruno sono entrambi uomini che appartengono alla montagna, Ne Le otto montagne questa immedesimazione è esplicitamente dichiarata in un brevissimo dialogo

-E per cos’è che sei nato?

-Per fare il montanaro.

Nello stesso tempo Bruno, e prima di lui il personaggio leviano, rappresentano la concretezza, la capacità di adattarsi alle dure leggi della montagna, mentre il protagonista, un po’ come il Levi de Il sistema periodico, è descritto come colui che più che vivere osserva, più che agire viene agito. Non è un caso che il protagonista voglia fare come mestiere il documentarista, proprio per mettere in atto questa sorta di sguardo distaccato sul mondo.

C’è una differenza sostanziale tra Bruno e Sandro, ed è la descrizione della loro morte. Sandro trova la morte nella guerra partigiana, e le parole di Levi che chiudono quel racconto, giustificano il racconto e le pagine precedenti. In Sandro, Levi vede il ritratto di una generazione fiera di uomini forti che la guerra ha portato via, lo scrittore convoca il fantasma di Sandro perché (dantescamente parlando) sia figura di tutti quelli che la morte ha disfatto nella guerra e nei lager. Sandro assurge a essere l’uomo buono che non è tornato; mentre Levi è colui che per fortuna, e senza nessuna reale virtù, è tornato e che sconta la sua vergogna raccontando come ci siano stati uomini migliori di lui, tutti ormai morti, però. Questa inquietudine, che vibra per tutto il racconto Ferro, non è presente in Cognetti. La finale morte di Bruno è una ascensione celeste e se il Cristo della Pentecoste sale corpo e anima in cielo, Bruno sale e scompare nella montagna, desideroso di essere tutt’uno con essa: “Non ti devi preoccupare per me. Questa montagna non mi ha mai fatto male”.

Ecco che a questo punto posso dire perché Ferro sia un testo necessario, mentre Le otto montagne no. Durante la lettura di Ferro ho sentito una vaga e continua inquietudine, quasi che la tragedia fosse sempre dietro l’angolo, come se la voce dello scrittore dominasse con la sua maestria qualcosa di oscuro e di fondo che prima o poi sarebbe venuto alla luce; e questo accade ogni volta che mi capita di rileggere quelle pagine. Le pagine di Cognetti sono invece limpide, come le acque che più volte descrive, sono pagine, mi verrebbe da dire, costruite a fin di bene. Ecco, per Cognetti la scrittura e la letteratura sono strumenti per edificare qualcosa di buono, e questo fa de Le otto montagne un libro moralmente edificante, perché quello che l’autore vuole profondamente comunicarci con il suo libro è che esiste una speranza, che esiste qualcosa di buono e consolante.  

Dando per certo la sincerità del tentativo di Cognetti, io non credo che edificare per il bene sia il compito della letteratura e della di scrittura. È questa una cosa personale su cui possiamo appunto aprire un dibattito e una lunga discussione, ma leggere i libri è anche produrre pensieri contrapposti. Dalla lettura del romanzo di Cognetti io ne sono uscito medesimo a prima, per nulla cambiato, certo ho ammirato la sua prosa e la sua capacità di tenere questa limpidezza di forma, ma non ho avvertito nessuna inquietudine, nessuna domanda mi è sorta, anche perché è un libro assertivo che tende ad affermare e non a far dubitare. Il fatto che non abbia provato inquietudine significa che il romanzo non ha cambiato la mia visione del mondo, non ha tentato di contrapporsi alla mia, mi è risultato sostanzialmente neutro.

Io ho sempre amato la chiusa di un sonetto di John Donne, in cui scrive: “Io lascio la carne, la morte e il Diavolo”. Ho letto il verso in questione come il lascito che lo scrittore fa a chi legge le sue opere; la scrittura deve essere un luogo di disturbo, dove chi entra non sta comodo, dove non si può rimanere troppo sulle proprie convinzioni. La lettura di un romanzo deve segnarti e cambiarti, deve fare in modo che tu non percepisca l’esistenza tua e degli altri come prima. Perché la letteratura non ha a che fare con il bene, ma con il vero. Credo che qui sia la reale e netta distanza tra me e Cognetti, o tra il tipo di scrittura che pratico io e quella che pratica lui. Io credo che la letteratura abbia a che fare con il vero, e il vero può essere “santo” (Manzoni), può essere “arido” (Leopardi) ma non può essere mai consolante, perché esso è terribile come la bellezza che cerca di raccontare.

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