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diretto da Romano Luperini

Franco Moretti Il borghese

Portare in classe la borghesia: sull’ultimo libro di Franco Moretti

 1. La borghesia: una questione di stile

Franco Moretti pubblica in Italia, e in italiano, la sua ultima fatica sul romanzo, uscita negli Stati Uniti nel 2013: Il borghese. Tra storia e letteratura (Einaudi, Torino). Il libro prende le mosse da un assunto che si fa fatica ad accettare acriticamente: la figura del borghese, che è stata centrale nella seconda metà del Settecento e ha permeato l’intero Ottocento, si è rapidamente dissolta e addirittura è oggi inesistente.

Ora, il punto di partenza tracciato da Moretti è vero e falso al contempo.

È certamente falso se si passano al setaccio i libri occidentali più significativi degli ultimi trent’anni: siamo sicuri che non vi sono borghesi in Pastorale americana di Roth, ne Le particelle elementari di Houellebecq, in Disgrazia di Coetzee, o anche nel nostrano Le mosche del capitale di Paolo Volponi? È evidente che in questi romanzi vivono, agiscono e crescono professori universitari, amministratori delegati, esperti informatici, impiegati, medici, agiate casalinghe, ecc. Insomma in questi libri si possono rintracciare i vari livelli di quella classe sociale che è appunto la borghesia.

Ma in che modo nelle opere citate e più in generale nel Novecento i borghesi vengono rappresentati? Ed è qui che la risposta di Moretti da falsa può diventare vera. O meglio diventa vera alla luce della piattaforma teorica su cui poggia tutta la riflessione dell’autore. Ricorda infatti Moretti, nell’Introduzione, che a sorreggere Il borghese, come in precedenza i suoi volumi einaudiani su Il romanzo e prima ancora Opera mondo e Il romanzo di formazione, è la tesi lukacsciana secondo cui «ogni forma d’arte è definita dalla dissonanza metafisica della vita» (la citazione è tratta dalla Teoria del romanzo). Insomma ogni espressione artistica, e dunque in questo caso il romanzo che deve rappresentare la borghesia, nasce da un contrasto tra ciò che si vorrebbe essere e ciò che poi si è nella realtà. Fino ai primissimi anni del Novecento (Ibsen, su cui tra poco torneremo, muore nel 1906) il borghese è sì uomo ricco, dominante e potente, ma non vuole far coincidere la sua immagine unicamente con questi tratti: ne preferirebbe altri moralmente più accettabili. Per questo motivo occorre trovare un compromesso tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere. Questo compromesso – una modalità come un’altra di “ritorno del represso” – trova la sua espressione proprio nel romanzo: un genere che permette di dire e di occultare al tempo stesso.

L’arcata storica che Franco Moretti prende in esame è quella che si distende da Defoe a Ibsen: quasi duecento anni lungo i quali il borghese prende definitivamente forma. E in questo lunghissimo periodo il borghese struttura la sua filosofia di vita. Con l’aiuto di alcune parole chiave che inframezzano tutto il volume, apprendiamo che il tratto distintivo della borghesia non è primamente il potere, né tanto meno l’arroganza: al contrario sono la sobrietà, il garbo, l’efficienza, il rigore a contraddistinguere questa nuova tipologia d’uomo. Anzi la capacità del borghese è stata proprio quella di eleggere a rigorosi principi morali, e dunque salvifici, ciò che prima erano solo obblighi faticosi:

La creazione di una cultura del lavoro è stata, probabilmente, il traguardo simbolico più importante della borghesia in quanto classe sociale: l’utile, la divisione del lavoro, l’«industria», l’efficienza, la «chiamata», la «serietà» […]: tutti questi elementi, e altri ancora, sono testimonianze dell’enorme significato assunto da ciò che un tempo era considerato semplicemente una gravosa necessità o un brutale dovere (p. 37).

Questo modello culturale non è mai esplicitato dai romanzieri o dai discorsi dei personaggi, ma si ricava soprattutto dallo stile narrativo utilizzato dagli scrittori. Perciò, ad esempio, così come Robinson compie un’azione «sempre con il fine di fare qualcos’altro» (p. 33; e nel suo mondo «nessun oggetto è fine a se stesso […] ma sempre e solo un mezzo per fare qualcos’altro, p. 31), allo stesso modo Defoe ricorre a «un onnipresente lessico teleologico (perciò, scopo, desiderare, armato, pronti, mi misi, pratici, cura, provvedere…)» e intreccia un «tessuto connettivo che dà solidità e coerenza alla pagina» (p. 33). Insomma il modo di scrivere di Defoe concretizza l’ideale efficientista e utilitarista che è alla base del pensiero borghese, e il lettore finisce per assorbirlo e viverlo; chi legge è calato in un mondo in cui tutto è mezzo, e quindi tutto è o può essere utile: in altre parole un mondo borghese. È proprio lo stile dunque quello che conforma l’uomo della nascente middle class, e ne veicola il punto di vista sul mondo: del resto, lo diceva già Adorno, la forma è sempre «contenuto sedimentato».

Da Defoe in poi il borghese è riuscito in un’operazione spericolata, ossia quella di mantenere la sua egemonia sociale, rifiutando però al tempo stesso di riconoscersi e di rivendicare la posizione di dominio rivestita. È stata possibile questa impresa grazie alla capacità dell’uomo nuovo di essere poliforme e sfuggente ad ogni definizione troppo chiusa: non è un caso ad esempio che per tutto il XIX secolo il termine borghese sia poco usato, preferito di volta in volta a «ricco», «agiato», «benestante», ecc.

È solo all’inizio del Novecento che la condizione borghese non può più essere occultata. Tocca ad Ibsen il compito di mostrare le contraddizioni di una classe sociale, e di guardare in faccia il bourgeois per chiedergli, quasi a brutto muso: «Allora, dopotutto, che cosa hai portato al mondo?». Dopo Ibsen i borghesi potranno compiere una guerra mondiale, farne un’altra, controllare il proletariato che reclama diritti, guidare le sorti del mondo: ma questo strapotere cessa di essere un dato da nascondere, per diventare un tratto da esibire e da rivendicare fieramente e con serenità. Con serenità appunto, ossia con armonia… Ma dall’armonia non nasce romanzo: per questo motivo il borghese esce di scena. Naturalmente l’espressione è eccessiva, e non può non far storcere il naso a chi insegna letteratura italiana in una scuola superiore o all’università, e si trova ogni anno a leggere la Prefazione di Calvino a Il sentiero dei nidi di ragno: un tentativo di giustificazione per l’essere nati e cresciuti borghesi. Ma in fondo sono solo episodi, sebbene non sporadici, che comunque rimandano a uno scenario ormai indiscutibile: la borghesia è una classe egemone, consapevole del proprio stato, e certamente guarita da ogni «dissonanza metafisica con la vita».

2. Un libro con cui dialogare

Il libro di Moretti ha dei limiti, peraltro anche dichiarati: su tutti l’eccessiva semplificazione che sacrifica troppe esperienze decisive e importanti della storia del romanzo. Che fine hanno fatto i romanzi d’appendice, le avventure, le varie forme sperimentali? E siamo così sicuri che l’Ottocento sia un secolo così omogeneamente serio? E il povero Flaubert – come già rimarcava Federico Bertoni su «Alias» – non poteva avere qualche pagina in più?

E ciò nonostante Il borghese di Moretti è un libro da leggere, soprattutto per chi insegna e in qualche modo ha bisogno di strumenti nuovi per entrare in classe. Elenco rapidamente tre motivi, che in fondo sono anche tre spunti di riflessione di ordine didattico.

  1. Moretti propone una periodizzazione forte, che muove dalla prima parte del Settecento (Robinson Crusoe esce nel 1720) fino agli albori del Novecento (Ibsen). È una scansione determinata dall’evoluzione letteraria, che a sua volta risponde a sollecitazioni storiche, sociali e culturali in genere (la crescita della borghesia). Intendiamoci: non è un’idea nuova quella secondo cui il romanzo è figlio della borghesia, che a sua volta risente dei sommovimenti sociali che si hanno in giro per l’Europa. Ciononostante non è un’impostazione scontata, che vale sempre la pena di ribadire soprattutto a chi opera in classe. Tra storia e letteratura indica Moretti sotto il titolo: e quella è anche la posizione dell’insegnante, che proprio facendo interagire le due cronologie – quella storica e quella letteraria – può appoggiarsi a momenti di svolta culturalmente rilevanti (in questo caso il primo Novecento). E una storia fortemente scandita è più facile da ricordare.
  2. Il significato di un’opera è veicolato e vincolato dallo stile. E lo stile può/deve essere oggetto di analisi da parte dei critici letterati; insomma non è competenza (solo) degli storici della lingua e della retorica. Tuttavia mentre l’esperto linguista può esimersi dalla funzione più schiettamente ermeneutica, ma non dall’esigenza di totalità (i fenomeni presi in esame devono essere descritti tutti), il critico letterario può agire sì per campioni (applicando alla linguistica il metodo auerbachiano), riscattando però l’incompiutezza con rigorosi giudizi interpretativi: ad esempio quelli espressi da Moretti su Defoe.
  3. Anche in letteratura, e soprattutto in maniera abbastanza stabile nell’Europa del XVIII e del XIX secolo, esistono centro e periferia. E in periferia le dinamiche sociali sono diverse e dunque anche le opere letterarie si modificano. Sicché è naturale che l’attaccamento alla roba di Gesualdo possa avere luogo in Sicilia, e non certo a Londra, dove comportamenti raffinati e una sostanziale e progressiva smaterializzazione del denaro sono sempre più diffuse. È un approccio classicamente comparatista, che in classe, tanto più alle superiori, ha una sua funzionalità, e mostra allo studente che l’Italia nell’Ottocento è una marginale provincia. E la consapevolezza dei rapporti che regolano i rapporti centro/periferia è determinante per capire la letteratura, la cultura, la storia del passato; ma in fondo anche per avere una maggiore coscienza del presente.

Insomma, di tanto in tanto escono anche in Italia, sebbene scritti all’estero, saggi che possono parlare ad una cerchia più ampia di quella strettamente accademica che studia per tutta la vita solo e soltanto quell’argomento. Non sono libri inattaccabili, ma proprio per questo motivo si aprono al dialogo. E questo dialogo può essere colto dagli insegnanti e, per loro mediazione, dagli studenti. Insomma sono proprio i libri scritti con questa schiettezza quelli che generosamente si offrono come strumenti da utilizzare all’interno di quella «comunità ermeneutica» che è la classe. E non è poco.

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