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diretto da Romano Luperini

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Leggere un racconto di Edgar Allan Poe navigando incerti tra Scilla e Cariddi

 “Parlare” di libri

Ricordo benissimo la frase di un mio compagno di università: «La nostra professoressa non ci dava nessuna scheda-libro per le letture dei romanzi. Ne parlavamo in classe». Per me, che invece avevo avuto la ventura di doverne preparare sempre o di dover affrontare verifiche e interrogazioni, quel “parlavamo” suonò dolcissimo, liberatorio, circonfuso di un’aura di mito. Con la somma ingiustizia di cui si è capaci a vent’anni, decisi che quella professoressa era molto meglio di quelle che avevo avuto io.

Nel film di Spike Lee la Venticinquesima ora, uno dei coprotagonisti, interpretato da Philip Seymour Hoffman, è un professore di liceo depresso e senza più entusiasmo. Lee mette in scena una sua lezione: i ragazzi mettono in cerchio i banchi, il professore si siede fra loro e iniziano a parlare del libro letto. Nonostante le sollecitazioni e le domande dell’insegnante, non se ne riesce a cavare nient’altro che questo giudizio lapidario sul sugo della storia: «Lui si vuole fare lei», sentenzia una studentessa bella e sfrontata.

Qualche anno dopo i due episodi si appaiarono nella mia mente e la morale che ne trassi è abbastanza ovvia: come fai, sbagli. Sembra pessimismo, e invece è una morale molto rassicurante, credetemi. Ora infatti so che trovare l’equilibrio tra la libertà, il piacere, la spontaneità della lettura e l’applicazione paziente alla fatica della decodifica e dell’interpretazione non è affatto facile, perché, da un lato, si rischia sempre di appiattire tutto in una immediatezza superficiale e banalizzante, come quella della lettura di mero rispecchiamento psicologico della studentessa di Lee, dall’altro si rischia sempre di deprimere sacrosanti entusiasmi giovanili con un lavoro metodico ma noioso.

Come sarà raccontata dai miei studenti cresciuti l’esperienza didattica che sto per presentare? Anche loro si lamenteranno di quanto li abbia annoiati? Non lo escludo. Ho fatto, e avrò sbagliato.

Ho comunque cercato di muovermi tra la Scilla del metodo, dell’analisi, dell’esercizio, e la Cariddi del piacere del testo, ricorrendo a un approccio ermeneutico. Non è la salvezza, ma almeno aiuta a tenere dritta la barra della navigazione.

Prima di illustrare l’attività didattica, cercherò di chiarire sommariamente per quali ragioni sia in effetti così difficile, costitutivamente difficile, navigare tra queste due Scilla e Cariddi quando in classe si legge e interpreta un testo letterario.

Tra Scilla e Cariddi: un approccio ermeneutico

1) La lettura è un atto sia analitico che globale: il testo è compreso e dà piacere se il lettore lo coglie come un organismo coerente, una totalità di significato, in modo sintetico e immediato. È quella che Hans-Georg Gadamer chiamava «non-differenziazione estetica» e che è in atto tutte le volte che leggiamo un libro e ci lasciamo trascinare dalla trama senza soffermarci ad analizzare i personaggi, lo stile, la costruzione, le focalizzazioni, o quando guardiamo un film immedesimandoci in uno dei protagonisti senza osservare se l’attore che lo interpreta reciti bene o male (semmai sarà proprio il fatto che riesce a farci immedesimare nel personaggio a dimostrare che l’attore è bravo: ma noi non ce ne accorgeremo, perché saremo soltanto sedotti). Quando invece ci accingiamo ad analizzare un testo, ecco che ci collochiamo su un piano differenziato rispetto alla nostra stessa fruizione, la guardiamo da fuori e la valutiamo. Va da sé che a scuola il rischio di limitarsi alla valutazione senza preoccuparsi minimamente della fruizione spontanea, che è l’atto più motivante e stimolante, è altissimo.

Ma leggere un testo non è un atto di percezione istantanea, perché ha una notevole estensione temporale, durante la quale interviene il complesso problema della comprensione del testo. Più un testo è complesso, più la comprensione sarà faticosa e dovrà essere guidata. In questo caso, se al piacere della fruizione non-differenziata si arriverà, sarà solo alla fine del percorso, dopo aver ricostruito faticosamente brano a brano, per forza d’analisi, il senso globale. Le traduzioni dalle lingue straniere, le parafrasi, le verifiche della comprensione, ecc… hanno questo scopo e sappiamo che la fatica e il tempo che costano queste attività pur necessarie allontanano indefinitamente il contatto vivo con il testo.

2) Da questo problema di ordine generale ne deriva un altro. Che rapporto c’è tra comprensione e interpretazione? Pensiamo soltanto alla scansione delle domande dell’analisi del testo dell’Esame di Stato: prima “comprensione”, poi “analisi” (come ha osservato Romano Luperini, si usa la parola “analisi” in ossequio a una tradizione di marca strutturalista. “Analisi” propriamente non è “interpretazione”, ma entrambe vengono comunque dopo una fase di decodifica del senso letterale e presuppongono un distanziamento critico dal testo, per valutarlo). La scansione logica in questo prima e dopo si fonda ovviamente sul buon senso di partire dal semplice per arrivare al complesso. Tuttavia è una scansione falsa se considerata dal punto di vista dell’effettiva esperienza di lettura. Anche la semplice decodifica, infatti, funziona piuttosto in questo modo: non leggiamo linearmente, per addizione di lettere e parole, ma circolarmente, procedendo per blocchi di significato coerenti, facendo costantemente ipotesi e verificandole (ad esempio, di ciascuna parola leggiamo solo le prime lettere e il nostro cervello integra automaticamente quanto manca: a volte l’integrazione è sbagliata e il senso della frase che non regge ci obbliga a tornare indietro). Procediamo così anche interpretando un testo – come hanno mostrato l’ermeneutica e la teoria della ricezione. Il rapporto tra analisi e globalità è perciò assai più complesso della mera scansione prima-dopo. È un tema complesso e qui basterà dire che anche nella “semplice” fase della comprensione in verità stiamo facendo ipotesi interpretative generali. C’è una costante circolarità tra senso globale e dettagli. Leggendo in classe un testo, questa circolarità va in qualche modo rispettata, per non rendere artificiale l’esperienza di lettura.

3) Quali sono i limiti dell’interpretazione? Che rapporto c’è tra interpretazione di un testo e suo uso (o abuso)? O, per dirla in termini meno teorici e più vicini all’esperienza scolastica: possiamo usare i testi letterari per parlare di noi, per fare un po’ di psicologia o di educazione civica, o si tratta di un uso indebito della letteratura, che ha una sua irriducibile specificità? Non corriamo il rischio di finire come la classe del film di Lee? Ancora: non ci sarà forse un rapporto tra comprensione, interpretazione, uso, per cui per “usare” un testo la comprensione può anche essere superficiale e parziale (l’insegnante dà un’interpretazione attoriale, seducente, del testo, ma questo è più suggestivo che razionalmente persuasivo), mentre per “interpretarlo” la comprensione deve essere profonda e puntuale? Quanto una lettura libera (selvaggia, anarchica) si limita a usare il testo? Quanto però un’ossessione per un lavoro tutto interno allo specifico letterario diventa coartante per il piacere della lettura e a volte anche un po’ autoritario?

4) Come evitare che il testo diventi un pretesto per imparare i famosi ferri del mestiere della narratologia? (Tempo e durata, focalizzazioni, spazio, ecc…: problema specifico dei nostri bienni). Il testo non deve servire solo come pretesto per applicare uno strumento di analisi: ha una trama, un ritmo, colpi di scena, un linguaggio povero o ricco, uno stile secco o lussureggiante, affronta temi antropologicamente rilevanti. Bisogna sempre fare attenzione a non dedurre il tipo di lavoro da fare sui testi solo dalle categorie della narratologia, che vanno tenute piuttosto lì a fianco, da applicare alla bisogna e, ciò che più conta, in vista di una interpretazione che ne giustifichi l’uso e che le inveri.

5) Come insegnare davvero a interpretare un testo letterario e non a ripetere semplicemente le interpretazioni fornite da altri (dal manuale, dalla critica, dall’insegnante), “appiccicandole” al testo? (Problema specifico dei nostri trienni: il nozionismo). Può essere utile individuare due idealtipi: un approccio “cattolico” all’interpretazione e uno “protestante”. Il secondo è ben esemplificato dal film di Spike Lee, benché in forme deteriori: l’accesso al testo è diretto e libero, ciascuno ha diritto all’interpretazione, essa emerge dal confronto entro la comunità. Nel primo, ben esemplificato dalla tradizione didattica italiana, il testo è considerato troppo complesso per essere messo nelle mani del lettore (stavo per dire “fedele”) e deve essere spiegato da un interprete esperto e autorizzato, che tramanda, insieme al testo, anche le interpretazioni tradizionali (della critica), inserendolo dentro un flusso storico di cui il lettore deve prendere atto.

L’approccio ermeneutico, benché più vicino al modello “protestante”, cerca di collocarsi a metà strada tra i due. Considerato che non esiste una libertà interpretativa vergine, fornirà delle ipotesi di senso preliminari, per iniziativa di un interprete esperto (un’interpretazione della critica, un’ipotesi di ricerca dell’insegnante), in modo da consentire un accesso significativo e ordinato al testo. Il rischio “cattolico” della semplice tradizione delle interpretazioni canoniche però è alto: gli studenti potrebbero limitarsi soltanto a un meccanico lavoro di raccolta degli indizi per far quadrare l’interpretazione già fornita e indiscussa. È perciò necessario fornire un’ipotesi che sia problematizzante, aperta, che suggerisca domande più che offrire risposte.

Il racconto: Edgar Allan Poe, Hop-Frog

La lettura del racconto di Poe è stata affrontata quest’anno in due mie classi di prima superiore. Per prima cosa ho letto il racconto in classe, ad alta voce: è un testo abbastanza semplice, così da consentire l’esperienza della non-differenziazione estetica senza troppi problemi. Dopo la lettura, ho consegnato alcune domande, divise in comprensione e interpretazione, cui rispondere a casa (cfr. allegato). Le domande non erano “neutrali”, nemmeno quelle di comprensione, ma presupponevano una pista per l’interpretazione da me proposta (o “imposta”). Le domande di interpretazione non erano facili e hanno messo in difficoltà molti studenti, ma il loro scopo era quello di portare l’attenzione del lettore su alcuni punti del testo e invitarlo a rifletterci su. Il lavoro infatti si è concluso l’ora successiva, a scuola, con una discussione collettiva delle risposte fornite da ciascuno, come in una vera e propria comunità ermeneutica.

Ecco la trama del racconto in estrema sintesi (qui c’è il testo integrale, liberamente consultabile sul sito Liberliber): alla corte di un re che ama molto gli scherzi pesanti e che è molto grasso, vive il buffone Hop-Frog. Egli è nano e deforme, ma fortissimo, agile e arguto. Al suo fianco v’è Trippetta, una nana bellissima e dalle movenze eleganti, costretta a intrattenere il re e la sua corte danzando. La comune condizione di mostri comici e di servi ha ovviamente creato un legame fortissimo tra i due. Il re e i suoi consiglieri, anch’essi grassi come lui e come lui capaci di ridere spietatamente di Hop-Frog e Trippetta, vogliono divertirsi. Ma il re maltratta Trippetta. Non c’è bisogno di altro per scatenare la sorda vendetta del nano. Egli pianifica un atroce, mortale scherzo, del quale il re e i consiglieri crederanno di essere protagonisti e di cui invece saranno vittime.

Questo racconto contiene alcuni elementi tipici dello stile e dell’immaginario di Poe: un gusto morboso per il carnevalesco, un senso di straniamento barocco, un compiacimento quasi patologico per la crudeltà, personaggi che mescolano tratti realistici e fiabeschi, umani e mostruosi. È ricco di suspense e coinvolgente, sia perché i soprusi subiti dai due nani portano a una immedesimazione forte con loro, sia perché il ritmo è in crescendo e il finale è a sorpresa, anche se il narratore lascia intuire fin dall’inizio che Hop-Frog possa aver architettato una terribile vendetta.

Chi sono le vittime e chi i carnefici?

Al centro del nostro lavoro abbiamo messo “i personaggi”, argomento che avevamo già affrontato entro la mia programmazione annuale. Le domande di comprensione (cfr. allegato) si concentravano perciò quasi esclusivamente su questo aspetto: definire i personaggi, farne un ritratto, riflettere sui loro comportamenti e sui rapporti tra di loro. È infatti solo a partire da una puntuale comprensione della loro figura che l’interpretazione diventava possibile e significativa.

Per quanto riguarda la parte più propriamente interpretativa, sono partito da quest’ipotesi di lavoro: questo è un racconto che punta a spiazzare e mettere in crisi il lettore, sia narrativamente (il finale a sorpresa) sia moralmente. I temi sono la vendetta, il sopruso, il diritto alla reazione, la misura tra offesa e reazione; i personaggi non sono né propriamente statici né dinamici, perché sono divisi nettamente tra buoni e cattivi, solo che i ruoli alla fine si ribaltano completamente e le vittime diventano carnefici. Il meccanismo proiettivo dell’immedesimazione, in questo modo, diventa problematico, perché il lettore si trova nei panni “sbagliati”.

Ho portato l’attenzione degli studenti anche su due aspetti formali, rilevanti però ai fini del significato: il ricorso alla tecnica della ripetizione che porta in primo piano un dettaglio simbolicamente pregnante e la voce del narratore.

La ripetizione. In due occasioni il narratore descrive l’atto di Hop-Frog di arrotare i denti «grossi, forti e disgustosi» (più avanti si parla propriamente di «zanne»), emettendo un suono inquietante. L’esplicita ripresa del gesto, sottolineata dalla ripetizione di tre parole (il nano emette «un suono sordo, rauco e lungo»; poi «un suono sordo, rauco, stridente»), serve a rinforzare simbolicamente il tema della vendetta, connettendo esplicitamente il momento nel quale Hop frog la architetta con quello nel quale la mette in atto. L’insistenza su aspetti formali come questo – qui di costruzione – non dovrebbe mai essere del tutto gratuita, ma sempre legata al più ampio contesto ermeneutico, del quale il dettaglio diventa un arto vivo e non reciso a meri scopi di disamina analitica.

Per quanto riguarda la voce narrante, porto l’attenzione degli studenti su questo passo iniziale:

i suoi sette ministri si distinguevano tutti per i loro talenti di buffone, e non erano da meno del re tanto nell’adiposa corpulenza del fisico quanto nell’attitudine impareggiabile agli scherzi. Se la gente ingrassi con le buffonate, e se nel grasso sia qualcosa che predispone alla buffonata, non sono mai riuscito a determinare; sta di fatto però che un buffone magro è “rara avis in terris”.

Il tema della grassezza è ripreso anche in un altro punto del testo, a ribadire che si tratta anche in questo caso di un elemento non secondario. Anche qui, a partire da una delle domande per casa, sviluppo con la classe una riflessione su questa bizzarra insistenza del narratore sulla condizione fisica del re e dei suoi ministri. Se fosse il punto di vista di uno dei personaggi, in una sorta di indiretto libero, potremmo concludere che si tratta di un giudizio soggettivo. Ma è evidente che a parlare e commentare sia proprio il narratore esterno. Perché questi, che tendenzialmente immagineremmo neutrale, scende così platealmente in campo e sembra prendere sottilmente in giro i suoi stessi personaggi? Dopo aver lasciato che gli studenti avanzino le loro ipotesi, lascio però la questione momentaneamente in sospeso.1

Da che parte state?

A questo punto abbandono il campo dell’interpretazione del testo ed entro esplicitamente in quello del suo uso: questo racconto non parlerà forse anche di quello che oggi chiamiamo “bullismo”? La domanda assegnata, però, era un po’ meno rozza, perché invitava a riflettere sul rapporto tra oggi e ieri: esistono ancora fenomeni di sopraffazione come quelli del racconto? La domanda è volutamente tendenziosa e ambigua, difatti le risposte degli studenti sono state opposte: no, i re e i servi non esistono più, non accetteremmo che qualcuno subisse quello che subiscono Hop-Frog e Trippetta; sì, la prepotenza nei confronti dei più indifesi è sempre la stessa. C’è chi enfatizza la diversità e chi coglie l’identità tra presente e passato. (Ed è proprio in questa compresenza di identico e differente che sta il cuore del nostro rapporto di continuità-estraneità con il passato di cui la letteratura è incarnazione). Questa uscita dal campo specifico della letteratura serve a collocare su uno sfondo di senso più ampio e immediatamente comprensibile il racconto. In effetti questa non è una storia di bullismo, ma di sadismo. Il fatto è che i nostri studenti, per fortuna loro, non sanno cosa sia il sadismo e per comprendere davvero Poe è essenziale che lo capiscano. Mi è parso, che, mutatis mutandis, il tema attuale del bullismo ne potesse rappresentare un approssimativo esempio.

A questo punto, a partire dalle domande 3 e 4, proviamo a rimettere in ordine gli elementi raccolti. Qui, infine, esplicito la mia ipotesi interpretativa, che ha guidato tutto il lavoro ma che è rimasta sotto traccia per evitare quella meccanica ricerca di indizi a conferma di una tesi precostituita cui ho già fatto cenno. Quanti si sono identificati con Hop-Frog e Trippetta e quanti con il re e i suoi ministri? C’è chi o per unilateralità o per inerzia ha le idee molto chiare: sta senz’altro con i due nani (perché sono i protagonisti e i protagonisti sono sempre buoni; perché il re è malvagio e i cattivi fanno sempre una brutta fine), oppure senz’altro con il re e i suoi ministri (poveretti, che fine orribile). C’è però chi afferma, sì, di parteggiare per gli uni o gli altri, ma va in crisi perché si rende conto che anche i suoi beniamini sono ambigui, privi dell’indennità morale garantita ai buoni. C’è chi arriva a fare il salto dalla dimensione della mera identificazione psicologica, che pure è importante ma che è stato solo lo strumento di manipolazione di Poe, e comprende che è finito preda di un meccanismo perverso: non si sa chi siano i mostri, non si sa chi siano i carnefici e chi le vittime, non sappiamo da che parte stare.

Nei panni del carnefice

Ma forse nemmeno questo basta. A questo punto riprendo il tema del “bullismo” e provoco gli studenti in questi termini: d’accordo, magari la vendetta di Hop-Frog e Trippetta è sproporzionata, ma immaginate di essere degli esseri indifesi perché diversi, strappati dalle proprie case, asserviti come gingilli per il tempo libero di un re crudele, sbeffeggiati e maltrattati per anni. Davvero non possiamo comprendere la reazione dei due poveretti? Sì, la comprendono tutti: il re è un mostro di crudeltà, lo odiamo.

Torniamo però al testo, a quella insistenza del narratore sulla grassezza del re e dei suoi ministri: ora che abbiamo realizzato che il re è odioso ripugnante, possiamo dire che lo è anche perché è grasso? Silenzio imbarazzato degli studenti. (D’altra parte, quando avevo chiesto di trovare quattro aggettivi per definire il re, nessuno aveva pensato ad aggettivi positivi). Sembra quasi che quel dannatissimo Poe ci abbia messo nei panni del carnefice: abbiamo gioito della sua fine proprio come lui gioiva a maltrattare Hop-Frog e Trippetta, cioè perché essi sono diversi, storpi, non umani? La letteratura è etica, certo, ma non è edificante.

Fuori dal testo

Pongo un’ultima domanda, non compresa in quelle date per compito. «Voi vi sareste vendicati? E fino a quale punto avreste spinto la vostra vendetta?». Inizia una discussione animata, nella quale emergono queste posizioni: il brutale (se mi maltratti io reagisco con ogni mezzo); il garantista (si ha il diritto di difendersi, ma entro certi limiti); lo stoico (Hop-Frog avrebbe dimostrato la propria superiorità morale accettando le angherie senza reagire); il donchisciotte (ma Hop-Frog ha reagito solo quando è stata maltrattata la sua amica, dunque la sua non è propriamente una vendetta: e qui si capisce che la domanda di comprensione sul rapporto tra i due nani non è stata inutile, perché ha spinto gli studenti a riflettere sull’importanza del senso di protezione che Hop-Frog ha per Trippetta); il “tertium semper datur” (Hop-Frog avrebbe potuto andarsene); il costituzionale (Hop-Frog avrebbe potuto rivolgersi alla giustizia o ragionare con il re: le parole risolvono tutto), …

Con ciò, siamo fuori dal campo strettamente letterario e interpretativo e il testo di Poe diventa un pretesto per discutere un dilemma etico. Mi sembra comunque che, proprio perché affrontato in termini dilemmatici, non si sia scaduti nell’uso meramente parenetico della letteratura (la letteratura a tesi, la letteratura dei buoni sentimenti, la letteratura ridotta a fiancheggiatrice etica di questa o quella “educazione a”) e ho la speranza che questo uso del testo e questa discussione abbiano guadagnato qualcosa in termini di ricchezza di sfumature e di percezione della complessità, proprio perché prima si è dovuto attraversare il campo denso e complesso della letteratura.

1. A guardare meglio, il narratore non è affatto esterno, ma interno. Lo si capisce bene all’inizio «non ho conosciuto mai nessuno che più del re fosse portato alla beffa»). Si tratta però di un narratore-spettatore, che dice “io” ma è presente nel racconto solo per riportare la storia. Questo dettaglio, naturalmente, cambia in parte il giudizio sul “sadismo” del narratore che infierisce sul grasso re e sui grassi consiglieri: è un personaggio interno alla storia a farlo, da un punto di vista soggettivo (dunque, per ciò stesso, più relativo e parziale). Ma chi è questo personaggio-spettatore? Nei racconti di Poe ce ne sono altri esempi. Ma ho preferito sorvolare su questo dettaglio pur non irrilevante, perché per scavare a fondo in esso avrei portato il lavoro su tutt’altro terreno.

 

ALLEGATO: LE DOMANDE DI COMPRENSIONE E INTERPRETAZIONE

COMPRENSIONE

  1. 1. Trova 4 aggettivi per definire il re.
  2. 2. Rileggi nel testo tutte le parti nelle quali viene descritto Hop-Frog, e scrivine un breve ritratto sia fisico sia psicologico.
  3. 3. Che rapporto c’è tra Hop-Frog e Trippetta?
  4. 4. Perché il vino è, possiamo dire, uno strumento attraverso il quale viene maltrattato Hop-Frog?
  5. 5. Hop-Frog, arrotando i denti, produce un rumore spaventoso. Con quali aggettivi viene definito quel rumore? Perché, secondo te, Hop-Frog emette questo suono proprio in quei due momenti della storia? C’è un collegamento fra di essi?
  6. 6. Hop-Frog convince il re e i suoi sette ministri a ricorrere al lino invece che alle piume, per imitare il pelo di un orangutàn. A quale scopo lo fa?
  7. 7. Il narratore descrive in maniera particolareggiata il modo in cui Hop-Frog e Trippetta riescono ad agganciare gli otto “orangutàn” alle catena. Sapresti descrivere con parole tue, punto per punto, la tecnica cui hanno fatto ricorso?

INTERPRETAZIONE

  1. 1. Il narratore insiste in un modo significativo sul fatto che il re e i suoi sette ministri siano “grassi”. Trova tutti i luoghi del testo nei quali si fa riferimento a questa caratteristica e poi prova a ipotizzare: perché questa enfasi crudele del narratore su questa caratteristica? È coerente con il racconto? Che scopo ha?
  2. 2. Possiamo dire che questo è un racconto che parla anche di marginalizzazione e di prepotenza? Considera anche che la presenza di nani e storpi alle corti dei re allo scopo di far divertire questi ultimi è un fatto storicamente vero. Oggi esistono ancora fenomeni del genere?
  3. 3. Sono più mostruosi Hop-Frog e Trippetta o il re e i suoi consiglieri? Motiva la tua risposta.
  4. 4. Questa vendetta è giustificata o no secondo te? Con chi il narratore vuole farci identificare? Con Hop-Frog e Trippetta, maltrattati dal re e dai suoi ministri, o con questi ultimi, che fanno un’orribile fine?

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