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diretto da Romano Luperini

Angelucci 1996 dia 012

Sulla scuola, fermatevi!

 Di cosa parliamo quando parliamo di scuola? Parliamo forse solo di qualcosa che riguarda studenti e professori, o tutt’al più, occasionalmente, qualche intellettuale che interviene su questo o quel provvedimento? Parliamo forse solo di norme sui voti o sugli esami, di leggi sugli ordinamenti, di riforme dell’organizzazione, di investimenti o di tagli? Parliamo forse solo di stipendi e di contratti, di assunzioni e di trasferimenti?

Nossignori, quando parliamo di scuola stiamo parlando del Paese, della sua identità, della sua tenuta culturale, del suo profilo etico e politico, del suo presente e della sua prospettiva futura. E’ una questione che ci interpella tutti, e non perchè variamente implicati, ma in quanto cittadini italiani, cittadini di un Paese che sta fragorosamente rovinando nel magma di insipienza, incompetenza, burocrazia, malaffare e corruzione che è sotto gli occhi di tutti.

La scuola è lo specchio del Paese e della sua gestione politica. Ed è la fotografia di un Paese e di una gestione politica che negli ultimi vent’anni ha deliberatamente abdicato ad ogni vero progetto di miglioramento e di progresso, individuale e collettivo. Quel progetto di vita personale e sociale che passa necessariamente e in primis, attraverso la scuola, con buona pace della Ministra Fedeli, che in un Paese dignitoso, priva di un adeguato titolo di studio, non solo non sarebbe mai diventata titolare del dicastero dell’Istruzione, Università e Ricerca ma non avrebbe potuto dichiarare impunemente che la sua scuola è stata il sindacato.

Guardiamoci intorno, con un occhio al passato. Alla legge 107, la cosiddetta “Buona scuola”, ci siamo arrivati dopo un percorso ventennale di autonomia scolastica – targato Luigi Berlinguer – responsabile della frammentazione e della privatizzazione della scuola pubblica italiana. E’ l’autonomia, prima ancora della legge 107, che ha trasformato dal 1997 ogni nostra scuola pubblica in un’azienda, collocata sul mercato dell’istruzione e costretta, anno dopo anno, taglio dopo taglio, a cercare nel mercato le risorse private che le servono per sopravvivere. E che solo la sfrontata ipocrisia di una classe politica che ha dilapidato e divorato tutte le risorse pubbliche del nostro Paese può chiamare “sussidiarietà”.

Ma l’autonomia scolastica non ha riguardato, in questo ventennio, soltanto il governo della scuola. C’è stato tutto un portato ideologico e pedagogico, burocraticamente imposto attraverso la filiera ministero/dirigenti/docenti, fatto di abbassamento dell’offerta culturale per garantire il “successo formativo”. Fatto di individuazione dei “livelli minimi di apprendimento”. Fatto di didattica alternativa e ricreativa, in cui anche le autogestioni venissero inserite nei Piani dell’offerta formativa. Fatto di sistematica cancellazione della pratica dello studio approfondito e del valore delle conoscenze teorico-disciplinari, sostituiti da un ignobile mercatura al ribasso di crediti e debiti formativi. Fatto dell’imposizione generalizzata di una “didattica per competenze” scimmiottata dai paesi anglosassoni, che non stimola capacità di articolazione e argomentazione culturale e critica, intelligenza e pensiero divergente e creativo, bensì risposte immediate, addestrate, standardizzate e protocollate, uguali per tutti, misurabili e quantificabili con test e classifiche. 

Un portato pedagogico fatto di incessante semplificazione e banalizzazione delle attività didattiche, di riduzione dei programmi e delle materie, di svalutazione della “lezione”, di impoverimento dei contenuti e dei libri, sempre più sostituiti dal grande business dei supporti elettronici, delle piattaforme digitali, dei dispositivi di apprendimento virtuali. Fatto di una progressiva e incessante desertificazione della cultura e dei saperi, mentre Berlinguer e la sua coorte (che, espugnato il MIUR e dichiarato “hic manebimus optime”, si sono fatti per vent’anni suggeritori incalliti per tutte le stagioni) trasformavano gli insegnanti in animatori e la scuola in una ludoteca.

Una sistematica operazione di distruzione della scuola pubblica come luogo di trasmissione e di creazione della cultura, come luogo di emancipazione del bambino e dell’adolescente attraverso lo studio e l’acquisizione di un bagaglio di saperi articolato, ricco e profondo. Una visione della scuola intrisa di un ‘donmilanismo” decontestualizzato e burocratizzato, che non solo non ha emancipato i più deboli ma ha precipitato tutti i Gianni e tutti i Pierini in un ben più grave e generalizzato analfabetismo di ritorno.

E’ su questa scuola, e su questo Paese, che è piombata come un macigno la legge 107, accanimento patologico dell’autonomia scolastica, un unico articolo declinato in 212 commi. Una riforma che ha imposto agli studenti delle superiori dalle 200 alle 400 ore di alternanza scuola-lavoro: una truffa, e non solo perché il lavoro in Italia non c’è e perché il lavoro non si impara con le visite di gruppo, ma perché i finanziamenti che arrivano alle scuole alimentano direttamente il business privato; perché le scuole (autonome) mandano i ragazzi a lavorare gratis nelle aziende che hanno stipulato accordi con il MIUR oppure organizzano attività di alternanza facendole pagare alle famiglie; perché i privati, che hanno scoperto il nuovo segmento di mercato rappresentato da milioni di studenti (e genitori, e parenti, e amici) che possono cliccare milioni di like, arrivano nelle scuole a vendere i loro prodotti, coinvolgendo i ragazzi come prosumers a costo zero nelle loro attività commerciali.

Ma soprattutto perché i ragazzi a scuola devono studiare e sperimentare, nelle classi e nei laboratori, e a casa devono fare i compiti; devono imparare la storia e la geografia, l’italiano e la matematica, l’inglese e la storia dell’arte, e non essere sballottati per 200, 300 o 400 ore a fare fotocopie, a servire ai tavoli, a tabulare dati, a zappare la terra, a rispondere al telefono, o a fingersi archivisti o ricercatori o guide turistiche. Umiliati, a sedici anni, in una ridicola parodia del lavoratore, che ben presto non saprà neanche più firmare, altro che capire, un contratto di lavoro!

Una riforma che ha imposto, in un Paese allo stremo delle risorse, l’assunzione di centinaia di docenti inseriti nelle graduatorie ad esaurimento di materie che, dopo Gelmini, nelle scuole non si insegnano più; graduatorie che Renzi ha voluto a tutti i costi – demagogicamente – svuotare, inventando un “organico dell’autonomia” in cui tanti docenti, vecchi e nuovi, sperimentano oggi nuove forme di demansionamento. Mentre, contemporaneamente, i fondi per finanziare i corsi di recupero per gli studenti, obbligatori per legge, stanno progressivamente scomparendo e nelle scuole (autonome) si ricorre ancora una volta al contributo delle famiglie, oppure si propongono 3-4 ridicole ore pomeridiane per recuperare un trimestre. Una riforma che, per errore, ha catapultato migliaia di insegnanti a centinaia di chilometri da casa e, per volontà, ha congelato tutti gli altri in una immobilità coatta e in un ‘mutismo selettivo’, tra lo spauracchio della chiamata diretta e la minaccia degli ambiti territoriali.

Ed è su questa scuola, e su questo Paese, che sta arrivando lo tsunami delle otto deleghe previste dalla 107, in corso di approvazione in Parlamento.

Deleghe a costo zero, a finanza invariata, che toccano materie delicatissime come l’inclusione scolastica (burocratizzandola e riducendo gli investimenti per il sostegno), il nuovo sistema di reclutamento dei docenti (destrutturandolo in un percorso infinito con stipendi per i neoassunti sotto la soglia della povertà), la formazione professionale (immiserendola insieme al segmento dell’istruzione professionale, ridotti a ‘bottega’), gli esami di Stato (si toglie la terza prova pluridisciplinare e si inserisce l’ennesimo test Invalsi, mentre il colloquio orale viene incentrato sull’alternanza scuola/lavoro), il segmento di istruzione 0-6 anni (riducendolo a servizio integrato, pubblico-privato, e non per tutti), la valorizzazione della cultura umanistica (definitivamente svilita nella formula mercantile del “made in Italy”), il diritto allo studio (mortificato in un mero esercizio di retorica).

Nessun reale miglioramento, nessun investimento, culturale prima ancora che economico. Vengono modificate norme vigenti per realizzare risparmi, ancora risparmi e solo risparmi, peggiorando un quadro normativo già ampiamente compromesso dalla legge di riforma e completando il processo di distruzione della scuola della Costituzione iniziato 20 anni fa. E, con lei, del nostro Paese.

Fermatevi, finché siete in tempo. Lo chiediamo al Presidente della Repubblica, al Parlamento, al Governo. Ascoltate le innumerevoli voci che si levano contro la ‘Buona scuola’ da chi – studenti, dirigenti, genitori, docenti – ogni giorno la patisce e ne combatte gli errori e le aberrazioni. Fermate l’iter delle deleghe che tutti i soggetti auditi in queste settimane in Commissione hanno aspramente criticato e rigettato. Fermatevi e ricominciate da capo, e questa volta ascoltate e confrontatevi davvero con il mondo della scuola. Nessuna fedeltà politica, nessuna coerenza di governo potrà mai giustificare il cieco perseverare in un errore – fatto sulla carne viva dei nostri giovani e del nostro Paese – che sta davvero rasentando la follia.

* Associazione Nazionale Per la scuola della Repubblica.

NOTA

Questo articolo è apparso anche su  Micromega. Si ringrazia l’autrice per la gentile concessione. 


Fotografia: G. Biscardi, Cantieri culturali alla Zisa, Palermo 1996.

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