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diretto da Romano Luperini

premio campiello 2016 intervista ad andrea tarabbia 4

Narratori d’oggi. Intervista a Andrea Tarabbia

 A cura di Morena Marsilio

1.Sui generi letterari

Negli ultimi vent’anni la narrativa italiana sembra essere stata egemonizzata da due generi dallo statuto ibrido, la non fiction e l’autofiction. Il primo sembra porre al centro del racconto, seppur con diversi “effetti di narratività”, la ricostruzione di fatti di cronaca, l’attraversamento in chiave saggistico-riflessiva di temi legati all’attualità, il diario di viaggio, la rielaborazione di un’inchiesta; il secondo, invece, è la risultante dell’operazione in parte mistificante da parte di un “trickster” (Siti), ossia di un io-narrante che mescida liberamente fatti realmente accadutigli e fatti inventati.

Come si pone rispetto all’uno e all’altro genere? Li sente consoni al suo modo di rappresentazione del mondo?

Li leggo, li conosco: ho per esempio appena finito di leggere, apprezzandolo moltissimo, L’impostore di Javier Cercas, che è un romanzo di non-fiction in cui l’autofiction la fa da padrona (e Cercas ne è talmente consapevole che a un certo punto, addirittura, parla del padre di tutte le autofiction, A sangue freddo di Capote, e nella stessa pagina discute a distanza con Emmanuel Carrére sullo statuto della verità in un libro in rapporto al narratore). Trovo che siano il modo in cui il nostro tempo ha deciso di raccontarsi, nel senso che mi pare sia una delle cifre stilistiche in cui, benché non rappresentino una novità, chi si sente di voler descrivere la contemporaneità si trova più a suo agio. A me piace molto questo genere di narrativa (se si può chiamare così), e l’ho praticato, anche, in almeno un libro – che non a caso è, tra le mie opere, quella più strettamente legata alla contemporaneità. Mi sono fatto l’idea che molti scrittori pensino che si possa raccontare il passato in modo per così dire classico, ma che per dare uno statuto valido alla contemporaneità bisogna mettere in gioco il proprio io (o una sua proiezione), e che questo accada perché ci si è resi conto che non si può mettere tra sé e il proprio tempo la distanza necessaria per osservarlo con calma, valutarlo e raccontarlo: ci si vive dentro, e dunque è, per così dire, eticamente giusto, nei confronti dei lettori e del tempo stesso, mettersi dentro la scena. È un modo per dire: le cose sono andate così, forse. Perlomeno io le ho viste da qui.

2.Sulla finzione

Non è tuttavia venuta meno la scrittura di romanzi e di racconti “tout court” in cui nel trattamento del tempo, nella costruzione dei personaggi e nel patto con il lettore agisce quella “sospensione dell’incredulità” che già due secoli or sono Coleridge aveva indicato come tratto distintivo dell’opera finzionale. Qual è la sua posizione in proposito? Crede che la finzione sia ormai colonizzata dall’intrattenimento o che mantenga viceversa un proprio potere di rivelazione e di verità?

Più invecchio, più divento sospettoso nei confronti delle storie di pura finzione. Ho bisogno, per leggere e per scrivere, di una base reale. Ovviamente mi va benissimo che questa base reale poggi su una menzogna, o su una distorsione del punto di vista come in certe opere di non finzione di cui parlavamo prima: sono consapevole del gradiente di menzogna e di invenzione che fa parte della letteratura, e la amo per questo. Eppure, sempre più spesso mi accorgo che, letto un libro di pura finzione che pure ho apprezzato, mi rimane un vago senso di insoddisfazione, perfino, in certi casi, di raggiro. Perché ti sei inventato questa storia? Perché proprio questa? Perché l’hai raccontata a me? Come giustifichi l’esistenza di questa storia nel mondo delle storie? Lo merita? Sono tutte domande che mi pongo, in modo più o meno razionale, quando mi trovo davanti a un libro: un libro che ha un retroterra di fatti reali risponde in modo più convincente.

Detto questo, c’è un’apparente contraddizione in quello che faccio: scrivo i miei libri basandomi su studi, documenti, trattati ecc., e sono molto scrupoloso quando cito fonti, date e così via: ma considero davvero mie, considero di aver dato davvero un contributo nelle parti del libro che, per via di buchi nella storia e nella documentazione, ho dovuto inventare. Mi trovo insomma nel pieno centro del problema: guardo con sospetto alla finzione, ma è dalla finzione che traggo piacere.

3.Passato e presente

Gli autori contemporanei tendono ad avere un forte legame con forme di espressione extraletteraria e non necessariamente italocentrica: i frequenti riferimenti vanno alla musica, ai fumetti, al cinema, alla fotografia oltre che alla letteratura straniera, specie nordamericana. Quali sono i suoi modelli prevalenti, letterari e non? Ritiene che la condizione visiva e multimediale dell’immaginario abbia interrotto l’eredità dei padri e la duplice tradizione del realismo e del modernismo?

Sono quasi tutti letterari e quasi tutti morti. Non riesco a ricordare nessun non scrittore che mi abbia davvero ispirato: certo ci sono delle cose, delle immagini e dei dialoghi di Bergman, o di Sokurov, o di altri cineasti che mi hanno impressionato, e mi è capitato di pensare “Vorrei che in questa scena si respirasse la stessa atmosfera di quel passaggio di Fanny e Alexander”, ma non considero davvero decisivo il loro supporto. Ho un rapporto complicato con l’immagine: sto cercando di comprenderla, di farla mia, ma per il momento si tratta di un tentativo tutto di testa, intellettualistico, che non dà grandi frutti. C’è la letteratura al centro dei miei interessi e del mio immaginario. Ho dei padri a cui torno e a cui penso, e per fortuna scopro, almeno una volta all’anno, che posso allargare il parentado. Gli ultimi arrivati sono Mario Pomilio e Nikos Kazantsakis – non capisco perché non ci siano  statue loro in giro per il Paese.

4.“Scritture di resistenza”

Più di un critico parla, a proposito della postura di molti scrittori contemporanei, di una ‘partecipazione civile’ e di una ‘responsabilità’ che, seppure con sfumature difformi, lo porta a «prendere la parola sul presente» (Donnarumma). Ritiene anche lei che la narrativa italiana degli ultimi vent’anni si ponga come una forma di «scrittura di resistenza», come uno dei pochi modi possibili rimasti all’intellettuale per realizzare una «sfida  politica» che consiste non nella restituzione testimoniale dei fatti ma «nell’apertura di uno spazio altro, che sposta lo sguardo e complica le cose» (Boscolo-Jossa)?

In parte, per rispondere, rimando a quanto dicevo sopra a proposito della contemporaneità e del punto di vista. Considero molti dei libri che voi definite “di resistenza” delle risposte quasi pavloviane a ciò che il mondo contemporaneo propone: è successa questa cosa, ci scrivo sopra un libro. Penso a certi romanzi sul gender o, che so, sulla TAV che sono stati scritti: è necessario che ci siano, ma mi sembra rappresentino un “qui e ora” che, forse, tra vent’anni, varrà soltanto come archeologia e non come letteratura tout court. Mi piace quello che dicono Boscolo e Jossa quando sostengono che la letteratura debba aprire uno spazio altro e complicare le cose, inserendo le questioni del mondo di oggi in un quadro più ampio. Io per esempio non mi considero un autore engagé, nel senso che non intervengo quasi mai nei dibattiti e non ho quasi mai in mente un tema “attuale” quando immagino un romanzo: però poi, a posteriori, mi rendo conto che ho scritto un libro sull’eutanasia (prendendola però alla larga e parlando della morte e dei corpi), e che forse, in altri libri dove raccontavo storie passate, concluse, ho toccato temi come il potere, la colpa e la ribellione che, se distillati estraendoli dal contesto in cui li ho trattati, prendono posizione sull’oggi. Insomma credo ci siano due tipi di impegno e resistenza: uno è una reazione a ciò che succede; l’altro è il tentativo di ragionare sugli archetipi del comportamento umano. Faccio il tifo per il secondo tipo.

5.Sullo stile e la ricerca linguistica

Studiosi della lingua come Giuseppe Antonelli o Maurizio Dardano parlano, a proposito della mancanza di  stile diffusa nella narrativa più recente, di “traduttese” o di “stili provvisori”. Eccezion fatta per quella narrativa di consumo poco incline a una ricerca espressiva di qualità, a noi sembra invece che sia in corso un’inversione di tendenza rispetto a questa visione piuttosto riduttiva. Quale ruolo attribuisce all’aspetto stilistico del suo lavoro? Quali sono gli elementi preponderanti su cui fonda la sua espressione linguistica (sperimentazione e/o pastiche linguistico, uso insistito di artifici retorici, mimesi del parlato o, al contrario, lo “stile semplice” di cui ha parlato Testa)?

A me pare che lo stile sia quasi tutto. E con stile intendo non soltanto la ricerca linguistica, l’impasto di suoni, il ritmo che uno cerca quando costruisce una frase, ma anche la struttura del libro, il modo in cui è raccontato. Scegliere un narratore (e dunque un punto di vista), decidere che la storia sarà divisa in capitoli, o mimerà, nella sua costruzione, un impianto musicale o l’evoluzione di una malattia, significa, ben prima e molto al di là dei contenuti, prendere posizione sul mondo e costruirlo. Mi piacerebbe sapere che libri italiani contemporanei leggono coloro che parlano di traduttese (che esiste, altroché se esiste: ma merita di essere preso in considerazione e di fare opinione?) e stili provvisori: io potrei fare un elenco piuttosto lungo di autori italiani viventi che hanno una voce forte, personale, e che non scimmiottano l’americanone di turno, ma edificano mondi.

6.Sui temi

Nei romanzi scritti a partire dagli anni Zero anni pare possibile individuare un nucleo di tematiche ad ampio spettro antropologico e al contempo fortemente radicate nella condizione presente. La sua sensibilità di narratore quali temi le fa sentire particolarmente vicini al suo modo di rappresentazione della realtà?

È la domanda più difficile in assoluto, e temo che qualunque risposta fornirò sarà banale. Provo così: io ho fatto libri costruiti su voci che si rincorrono, si interrompono, si contraddicono, si riscrivono. Sono altresì libri, come dicevo, con al centro fatti o vite di personaggi storici. Dunque, in qualche modo, il tema fondamentale è il rapporto tra realtà e finzione (che è attualissimo, anche se poi, magari, è declinato sulla vita di un assassino degli anni Ottanta), restituito attraverso forme di testimonianza (altri direbbero: confessione) più o meno attendibili, più o meno apocrife. Credo che la mia parola preferita, quando penso al percorso letterario che sto tentando di fare, sia “invece” (o, in alternativa, “cosà”): è una cosa che scrisse molti anni fa Tiziano Scarpa a proposito degli Esordi di Antonio Moresco, ricordando l’incipit straordinario di quel romanzo («Io invece mi trovavo a mio agio in quel silenzio»). Cito a memoria: che cos’è la letteratura?, si chiedeva Tiziano: è l’atto di qualcuno che dice «Io, invece».

7.Sullo storytelling

Negli ultimi decenni la narrazione è stata “esportata” massicciamente, dando luogo a uno storytelling diffuso. Ogni “discorso” viene narrativizzato, dalla politica al marketing, per approdare alle «convergenze» che Ceserani ha segnalato tra le molte discipline, anche di area scientifica e tecnica, e la letteratura, capace di “prestare” loro potenti strumenti espressivi. Ritiene che questo sconfinamento della narratività sancisca un suo punto di forza o che, viceversa, ne riveli la crescente debolezza in un mondo sempre più assediato dall’immaginario?

La voglio vedere, per una volta, dal lato positivo: la letteratura, la narrazione (che perdono su tutta la linea in libreria e nell’immaginario), hanno vinto almeno qui: tutto può essere raccontato. Non so giudicare se sia un fenomeno positivo o negativo: ha sicuramente banalizzato molti discorsi, come quello politico, ma ne ha fatti emergere altri – penso al campo della medicina, e ai corsi di aggiornamento che fanno certi medici per imparare a comunicare con i malati e le loro famiglie. Come al solito, il problema non è il “cosa”, ma il “come”.

8.Lettori in formazione

Nonostante la diffusa disaffezione delle giovani generazioni per la pratica della lettura, la scuola resta un importante baluardo per cercare di innescare un circolo virtuoso tra giovani e lettura, soprattutto facendo leva su quello spazio, insieme periferico e centrale, di libertà costituito dalle letture personali assegnate nel corso dell’anno scolastico. È in questo ambito, inoltre, che, accanto ai classici, si potrebbe utilmente mettere in contatto i ragazzi con la narrativa dell’estremo contemporaneo. Potrebbe indicare tre romanzi o raccolte di racconti italiani o stranieri degli ultimi vent’anni, a suo parere irrinunciabili, che proporrebbe in  lettura ad adolescenti tra i 16 e i 18 anni?

Non so se siano adatti a ragazzi di quell’età, ma d’altronde non credo che esista un tipo standard di adolescente. Per cui scelgo tre dei libri italiani più belli di questo nuovo secolo:

Laura Pariani, Dio non ama i bambini (Einaudi)

Angela Bubba, Malinati (Bompiani)

Filippo Tuena, Ultimo parallelo (Il Saggiatore)

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