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diretto da Romano Luperini

vanni santoni macao 2015

Narratori d’oggi. Intervista a Vanni Santoni

 A cura di Morena Marsilio 

1. Sui generi letterari

Negli ultimi vent’anni la narrativa italiana sembra essere stata egemonizzata da due generi dallo statuto ibrido, la non fiction e l’autofiction. Il primo sembra porre al centro del racconto, seppur con diversi “effetti di narratività”, la ricostruzione di fatti di cronaca, l’attraversamento in chiave saggistico-riflessiva di temi legati all’attualità, il diario di viaggio, la rielaborazione di un’inchiesta; il secondo, invece, è la risultante dell’operazione in parte mistificante da parte di un “trickster” (Siti), ossia di un io-narrante che mescida liberamente fatti realmente accadutigli e fatti inventati.

Come si pone rispetto all’uno e all’altro genere? Li sente consoni al suo modo di rappresentazione del mondo?

Come aveva a dire Nabokov, “fiction is fiction”: nel momento in cui si mettono in scena personaggi e luoghi e punti di vista e filtri, nel momento insomma in cui entra in campo un processo artistico, ecco che siamo di fronte a un’opera di finzione, non importa quanto sia basata sul reale. Al di là di ciò, che pur è molto, non condivido appieno la definizione di “ibrido”. Il romanzo è meticcio per natura, e solo l’avvento dell’editoria commerciale ci ha portato a pensare che un “romanzo puro” sia quello con un set relativamente circoscritto di personaggi di finzione (tra cui alcuni “protagonisti”), un inizio, uno sviluppo e una risoluzione. Riprendendo le parole che l’autore bulgaro Georgi Gospodinov affidava al suo alter ego Gaustìn, “il romanzo non è ariano”: nasce infatti ibrido, i primi romanzi moderni sono romanzi filosofici o romanzi picareschi con tratti enciclopedici, o già addirittura metaromanzi. Il fatto, poi,  che in un certo periodo della storia letteraria di un certo paese o continente emergano con più forza certe tipologie di romanzo è un fatto normale che non altera la natura del romanzo come genere, pur ponendo questioni certamente interessanti – ad esempio, per quanto riguarda l’oggi, la possibile perdita di forza, rispetto a un mondo complesso, caotico e molteplice, di una terza persona “oggettivante”. Il problema, piuttosto, come diceva recentemente Mircea Cărtărescu, potrebbe essere che il romanzo, tornato a usare tutti gli strumenti a sua disposizione, è diventato qualcosa di così ampio da poter includere tutto, e quindi non indicare niente di specifico.

La preoccupazione dello scrittore, in ogni caso, deve essere la verità, non i fatti: può sembrare un’affermazione paradossale, ma è il punto chiave della fiction, specialmente quando, in quelli che altri chiama “ibridi”, ha un rapporto stretto con la realtà. Quando è uscito Muro di casse, c’è chi ha parlato di memoir, chi di non-fiction, chi addirittura, prendendo un abbaglio considerevole, di reportage. Lo stesso editore lo ha categorizzato  in scheda stampa come “ibrido romanzo-saggio”, che è la definizione meno fuori luogo, sebbene in realtà sia evidente che si tratta di un romanzo che utilizza tutti i dispositivi succitati – in effetti utilizza anche la poesia, ed è chiaro che definirlo “poema” solo perché ci sono dei passaggi in versi sarebbe una sciocchezza – e piega alle esigenze della fiction anche gli elementi che possono apparire più lontani da essa: il saggio Il teknival in dieci discipline contenuto in una delle appendici, ad esempio, è in realtà un testo scritto da Cleo, uno dei personaggi del romanzo – quindi, se vogliamo, un “saggio di finzione”, come altri elementi che a un’occhiata superficiale potrebbero sembrare indicatori dell’essere di fronte a un  saggio o comunque a un oggetto narrativo ibrido. Nell’introduzione del volume, del resto, riprendo io stesso le parole di Siti, quando afferma che “il romanzo è lo strumento più potente di analisi della realtà”. Quello che Muro di casse, così come La stanza profonda, romanzo immediatamente successivo e per certi versi “gemello”, possono avere in comune col saggio sono, piuttosto, alcuni obiettivi: anzitutto la volontà di storicizzare nel modo più ampio ed esaustivo possibile dei fenomeni che però, per la loro natura rizomatica, difficilmente potrebbero essere affrontati in modo efficace con strumenti non narrativi.

2. Sulla finzione

Non è tuttavia venuta meno la scrittura di romanzi e di racconti “tout court” in cui nel trattamento del tempo, nella costruzione dei personaggi e nel patto con il lettore agisce quella “sospensione dell’incredulità” che già due secoli or sono Coleridge aveva indicato come tratto distintivo dell’opera finzionale. Qual è la sua posizione in proposito? Crede che la finzione sia ormai colonizzata dall’intrattenimento o che mantenga viceversa un proprio potere di rivelazione e di verità?

Di nuovo, “fiction is fiction”, la distinzione mi pare relativamente oziosa, anche perché, per quanto intrattenimento si possa fare, il potere di rivelazione e verità della finzione non cambia: non la si giudica del resto dalle sue manifestazioni più deteriori, ma dai picchi. Anche volendo accettare una divisione netta tra il realismo e il suo contrario, mi sembra che il vento sia già cambiato. Oggi il fronte d’onda della prosa è rappresentato da opere come Satantango di László Krasznahorkai, Abbacinante e Fisica della malinconia dei succitati Cărtărescu e Gospodinov, Terminus radioso di Antoine Volodine, o ancora, in modo diverso, dalle opere dell’inglese Tom McCarthy, tutti lavori che, oltre a indicare un ritorno del “pallino del romanzo” in Europa, sfondano i generi appropriandosi di elementi tipici della speculative fiction (lo fanno ormai anche romanzi più mainstream e non solo europei: si pensi ad esempio a The underground railroad di Colson Whitehead, fresco di Pulitzer, e al modo in cui utilizza con scioltezza e serenità dispositivi ucronici e addirittura steampunk in quello che sarebbe altrimenti un romanzo storico), fanno esplodere la struttura romanzesca classica senza per questo posizionarsi come sperimentali e tornano a mettere al centro le metafisiche attraverso una visione psichedelica e quantistica della realtà, superando quindi il cosiddetto “realismo” su tanti di quei livelli che probabilmente si può già parlare di post-materialismo. È un processo così vasto e pervasivo che viene riscontrato, e lo riscontro io stesso, anche nelle cose che mi trovo a pubblicare  come editor, per quanto nelle mie scelte io sia sempre partito da mere riflessioni qualitative, non tematiche – il fatto allora che, pur ragionando secondo altri parametri, finisca per pubblicare per lo più un certo tipo di libro, è incidentale, ma costituisce comunque, a posteriori, un dato di un qualche interesse.

3. Passato e presente

Gli autori contemporanei tendono ad avere un forte legame con forme di espressione extraletteraria e non necessariamente italocentrica: i frequenti riferimenti vanno alla musica, ai fumetti, al cinema, alla fotografia oltre che alla letteratura straniera, specie nordamericana. Quali sono i suoi modelli prevalenti, letterari e non? Ritiene che la condizione visiva e multimediale dell’immaginario abbia interrotto l’eredità dei padri e la duplice tradizione del realismo e del modernismo?

Sicuramente, e inevitabilmente, oggi un autore si forma in un’intersezione tra diversi medium: da bambino ero pure un lettore precoce, oltre ai romanzi per ragazzi leggevo gli Eco, i Calvino e i Borges di mio padre, ma le prime narrazioni che mi hanno parlato davvero sono state quelle di videogiochi come Ultima V o Monkey Island, di cartoni animati come Ken il guerriero o Lamù, di giochi di ruolo come Dungeons & Dragons o Kata Kumbas, di fumetti come quelli di Andrea Pazienza, Vicente Segrelles o Bill Watterson.
Da un punto di vista strettamente letterario, mi sono formato sulla poesia inglese e francese dell’Ottocento e sui romanzi francesi e russi dello stesso secolo, e poi su una parte del modernismo europeo e americano. Successivamente, ma solo quando ho cominciato a scrivere (è accaduto in età relativamente tarda, almeno rispetto a molti colleghi, a ventisei anni) mi sono interessato in modo più strutturato alla letteratura del secondo Novecento, soprattutto nordamericana, e ancora più tardi a quella italiana, di cui oggi apprezzo (in particolare e tra gli altri) Malaparte, Vittorini, Morante, Manganelli, Buzzati, Campo, Landolfi, Parise, Sciascia, Ceronetti, Bianciardi, Bufalino, Wilcock, Calasso, Magris… Ma nessuno di essi può essere considerato un mio ascendente: li ho scoperti, letti e studiati quando ero in qualche modo già formato. Credo sia abbastanza normale, per chi appartiene alla mia generazione, un percorso del genere. Nei decenni appena trascorsi la letteratura nordamericana ha avuto delle vette sconosciute da noi: i romanzi di Philip Roth, Don DeLillo, Cormac McCarthy, Saul Bellow, Toni Morrison, David Foster Wallace, William T. Vollmann, e soprattutto Thomas Pynchon, erano superiori a quanto si faceva altrove (e anche andando indietro non c’era molta gara: è necessario fare i nomi di Burroughs, di Faulkner?); fatte salve alcune eccezioni, solo quando è comparso Austerlitz di W.G. Sebald l’Europa del romanzo mi ha dato l’impressione di aver rialzato davvero la testa, e prima che la transizione si attuasse appieno ci sono voluti anche I detective selvaggi e poi 2666 di Bolaño, che sono romanzi sudamericani con elementi formali, tematici, strutturali e d’approccio sia nordamericani che europei; chi in questi casi parla di imperialismo culturale sbaglia, l’imperialismo culturale si vede piuttosto nel nostro importare molti libri americani mediocri o addirittura scadenti, quando magari i grandi autori di paesi cosiddetti “minori” restano invisibili o non tradotti.

4. “Scritture di resistenza”

Più di un critico parla, a proposito della postura di molti scrittori contemporanei, di una ‘partecipazione civile’ e di una ‘responsabilità’ che, seppure con sfumature difformi, lo porta a «prendere la parola sul presente» (Donnarumma). Ritiene anche lei che la narrativa italiana degli ultimi vent’anni si ponga come una forma di «scrittura di resistenza», come uno dei pochi modi possibili rimasti all’intellettuale per realizzare una «sfida  politica» che consiste non nella restituzione testimoniale dei fatti ma «nell’apertura di uno spazio altro, che sposta lo sguardo e complica le cose» (Boscolo-Jossa)?

Per quanto gli stessi Muro di casse e La stanza profonda siano probabilmente libri militanti, e questa militanza si esprima su più livelli, non generalizzerei. Un eccesso di preoccupazione per i temi rispetto alla lingua può portare a gravi fraintendimenti, ovvero a ritenere importanti libri che in realtà non lo sono.

5. Sullo stile e la ricerca linguistica

Studiosi della lingua come Giuseppe Antonelli o Maurizio Dardano parlano, a proposito della mancanza di  stile diffusa nella narrativa più recente, di “traduttese” o di “stili provvisori”. Eccezion fatta per quella narrativa di consumo poco incline a una ricerca espressiva di qualità, a noi sembra invece che sia in corso un’inversione di tendenza rispetto a questa visione piuttosto riduttiva. Quale ruolo attribuisce all’aspetto stilistico del suo lavoro? Quali sono gli elementi preponderanti su cui fonda la sua espressione linguistica (sperimentazione e/o pastiche linguistico, uso insistito di artifici retorici, mimesi del parlato o, al contrario, lo “stile semplice” di cui ha parlato Testa)?

Lo stile è tutto. La lingua e la struttura profonda, che formano lo stile, sono tutto. Ogni altra cosa è secondaria. Personalmente, ancorché egli si riferisca alla letteratura francese (e al netto delle numerose cadute nel sessismo e nello sciovinismo) mi trovo in totale sintonia con quanto afferma Roger Millet nell’Inferno del romanzo: il problema dello “stile semplice” è un falso problema, che emerge dalla elevata considerazione che hanno, sul breve, a causa appunto dei temi oppure del venduto, romanzi commerciali con lingua a grado zero, ma è ovvio che si tratta di libri che nascono, vivono e muoiono fuori dal canone. Ciò che non ha lingua e stile non è letteratura, per definizione: è la trascrizione di una sceneggiatura, è intrattenimento testuale, magari divertente, per carità, ma è altro e non dovrebbe preoccuparci.

6. Sui temi

Nei romanzi scritti a partire dagli anni Zero anni pare possibile individuare un nucleo di tematiche ad ampio spettro antropologico e al contempo fortemente radicate nella condizione presente. La sua sensibilità di narratore quali temi le fa sentire particolarmente vicini al suo modo di rappresentazione della realtà?

Questo non sono io a doverlo dire. Come dicevo in due recenti interviste a Zandomeneghi e Breda Minello, la mia opera sta completando un primo cerchio organico solo adesso: all’interno di questo cerchio ci sono libri, come gli ultimi due, nettamente radicate nel presente, altri meno – ad esempio, sebbene Personaggi precari venga sovente ascritto alla cosiddetta “letteratura del precariato” lì la questione giuslavoristica è secondaria, interessandomi infatti il dato esistenziale. Ma, di nuovo, sta a chi legge valutare e collocare quanto ho fatto e farò.

7. Sullo storytelling

Negli ultimi decenni la narrazione è stata “esportata” massicciamente, dando luogo a uno storytelling diffuso. Ogni “discorso” viene narrativizzato, dalla politica al marketing, per approdare alle «convergenze» che Ceserani ha segnalato tra le molte discipline, anche di area scientifica e tecnica, e la letteratura, capace di “prestare” loro potenti strumenti espressivi. Ritiene che questo sconfinamento della narratività sancisca un suo punto di forza o che, viceversa, ne riveli la crescente debolezza in un mondo sempre più assediato dall’immaginari?

È senz’altro un punto di forza ma, appunto, riguardando la narratività, che è solo uno degli aspetti della letteratura, è una questione che deve preoccuparci fino a un certo punto.

8. Lettori in formazione

Nonostante la diffusa disaffezione delle giovani generazioni per la pratica della lettura, la scuola resta un importante baluardo per cercare di innescare un circolo virtuoso tra giovani e lettura, soprattutto facendo leva su quello spazio, insieme periferico e centrale, di libertà costituito dalle letture personali assegnate nel corso dell’anno scolastico. È in questo ambito, inoltre, che, accanto ai classici, si potrebbe utilmente mettere in contatto i ragazzi con la narrativa dell’estremo contemporaneo. Potrebbe indicare tre romanzi o raccolte di racconti italiani o stranieri degli ultimi vent’anni, a suo parere irrinunciabili, che proporrebbe in lettura ad adolescenti tra i 16 e i 18 anni?

Un lettore tra i 16 e i 18 anni si dovrebbe presumere già formato, quindi sarà opportuno consigliargli direttamente i libri migliori (se la questione è l’educazione alla lettura, è sulla scuola primaria che bisogna agire). Buone opzioni, senza andare su lunghezze inadatte ai tempi scolastici, potrebbero essere, che so, Gli emigranti di W.G. Sebald, Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan, ’14 di Jean Echenoz… Ma la lista può essere ovviamente molto più lunga. Se devo invece partire dall’esperienza personale, non posso non notare che ciò che ha prodotto in me una vera lacerazione, dimostrando che la letteratura poteva essere qualcosa di entusiasmante se non fondamentale per vivere, sono stati poeti come William Blake, T.S. Eliot, W.B. Yeats, Dylan Thomas, Allen Ginsberg, Sylvia Plath. Devo tutto alla loro lettura e alla professoressa d’inglese che nel triennio del liceo adottò una smilza antologia che conteneva i loro testi.

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