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diretto da Romano Luperini

 I propositi per il nuovo anno che Massimiliano Tortora ci comunicava su questo blog, e che muovevano dal Nobel a Dylan, hanno già ricevuto una serie di risposte su fb e poi, qui, in un intervento di Isotta Piazza. Tortora e Piazza hanno declinato le rispettive discussioni verso delle proposte didattiche e anch’io vorrei aggiungere alcune considerazioni legate in qualche modo a quanto da loro indicato. Non intendo quindi partecipare al dibattito per dire se la scelta dell’Accademia svedese sia da considerarsi giusta, sbagliata o così e così. Dichiaro da subito che personalmente la ritengo così e così, ma anch’io faccio parte di quelli che il giorno dell’assegnazione di quel Nobel hanno ritenuto opportuno parlarne a lezione. Come si ricorderà, era lo stesso giorno della morte di Dario Fo e mi sono presentato in aula con la prima pagina di un giornale. L’ho mostrata in tutta la sua apertura e ho avviato la discussione dalla bizzarra concomitanza dei due eventi. Proprio in quei giorni stavo proponendo ai miei studenti – insegno Letteratura inglese – l’analisi di In Patagonia di Chatwin, quello strano romanzo che con il pretesto di un viaggio in uno dei luoghi più desolati e silenziosi del pianeta infilza una serie di storie, di leggende, di micro-biografie, di cronache, di echi di eventi storici per come essi rimbalzano ai confini del mondo. Avere pertanto la possibilità di mostrare come l’arte affabulatoria di un cantastorie stonato e di un giullare buffo e gesticolante fosse stata capace di conquistare il massimo riconoscimento al merito letterario, mi offriva sia un modo facile per accreditare il materiale che stavamo trattando nelle ultime lezioni, sia l’estro per riaffermare che lo sconfinamento e l’attraversamento di generi letterari non sono solo patrimonio ricercato del Postmoderno (ammesso che Chatwin vi appartenga) ma una pratica antica e assai popolare: quella che gli stessi Fo e Dylan hanno ripreso dalle più arcaiche tradizioni della poesia, del teatro, della letteratura in genere.

Da lì, il nostro discorso si è potuto spostare anche su altre problematiche: il rapporto tra la parola e la musica, e tra la parola e il corpo, i suoi gesti; e poi, ancora, sulla storia delle tante mutevoli relazioni intrattenute da queste due coppie in tutti quei secoli che hanno originato ciò che noi siamo oggi, ciò che noi ascoltiamo e ciò che noi leggiamo. E, passando da qui, siamo arrivati a un nodo che a me è sempre sembrato cruciale nello studio testuale, seppur trascurato nelle nostre analisi e nelle nostre lezioni, un nodo che mi sembra tocchi tangenzialmente sia le riflessioni di Tortora, sia quelle di Piazza: il fatto che le parole, tutte le parole, vengono di necessità veicolate da un supporto, pena il silenzio, mentre noi insegniamo un testo come fosse costituito da una materia priva di corpo e di sostanza, e come se fosse giunto a noi magicamente, senza che qualcuno o qualcosa lo avesse accolto, prima, e poi trasportato fino a farlo giungere a noi, davanti ai nostri occhi, e/o dentro le nostre orecchie. E se pure portiamo ancora memoria di certi schemi semiotici, o delle lezioni di Jakobson o di Hjelmslev, il supporto con il quale la parola ci è giunta, o quello con il quale raggiungeva i suoi primi fruitori secondo le intenzioni dell’autore, è cosa che tutt’al più riteniamo come contorno, per concentrarci invece su quei piatti di portata considerati ben più sostanziosi (forma, struttura, stile, oppure i contenuti ideologici, biografici, ecc.).

Sì, sì, lo so che un’attenzione al supporto la si pone quando si parla di opere teatrali – anche se più spesso quei testi li facciamo leggere come fossero dei romanzi, dei saggi, alla stregua cioè di enunciati che non presuppongono, come condizione originante, una mediazione fisica e scenografica tra la parola e il suo fruitore. Oppure parliamo di queste cose quando riferiamo ai nostri studenti che all’origine del verso ci fu la musica, con parole sempre coniugate a note, vincolate (e veicolate) da suoni e melodie. Ma a loro diciamo pure che poi di tutto questo abbiamo perso totalmente la percezione e che da un bel po’ la poesia è diventato un genere da lettura intima e privata. E forse solo chi frequenta i teatri lirici, o le chiese,o partecipa a cori, vede bene come musica e verso siano sempre indistricabilmente accoppiati; come lo vede e lo sente chi ascolta o fa musica – ed eccoci tornati a Dylan, e non solo a lui, e allora io chiedo, giusto en passant: ma chi mette parole in musica, il suono delle parole assieme/dentro il suono di uno o più strumenti, sta veramente facendo qualcosa di così diverso e di così lontano dalla Letteratura, al punto da doverci noi chiedere – come ha fatto Baricco – “che c’entra Dylan con la letteratura”? Oppure da sostenere, per citare ancora il Nostro, che dare il Nobel a Dylan “è come dare un Grammy Award a Javier Marias”?

Per tornare al nostro tema (la parola e il supporto che la veicola), non posso dunque che essere d’accordo con l’intenzione di Tortora di leggere in aula le poesie a voce alta, di far sentire cioè il suono delle parole affinché esse giungano alla mente dei suoi studenti attraverso le orecchie. Credo infatti che, così facendo, quei suoi fortunati discepoli avranno modo di sentire che il tipo di percezione, cioè di ingresso del segnale nella mente, non è affatto indifferente al tipo di comprensione di un enunciato, o del piacere che (eventualmente) se ne trae. Voglio però aggiungere che il medesimo discorso può essere fatto pure per ciò che poesia o teatro non è: perché se è impossibile per uno scrittore scrivere senza aver in mente un Lettore Ideale (Implicito, o quello che vi pare), è anche impossibile per lui astenersi dall’immaginare come quel suo Lettore leggerà le sue parole, o come gli/le è giunto ciò che lui, lo scrittore, ha inventato. E, badate, tutto questo non è materia che pertiene solo ai sociologi della letteratura, o degli storici del libro. Riguarda noi che insegniamo ai nostri studenti come si legge un testo e cosa vi si può trovare, e che proprio per tale ragione non possiamo saltare uno degli aspetti rilevanti della costruzione del senso in un determinato testo. Faccio un esempio, relativo a cose che insegno: quando Chaucer scrive i Canterbury Tales ha ovviamente in testa l’idea che quei suoi racconti – per lo più da lui presi dalla tradizione orale e trascritti su carta – sarebbero stati poi diffusi per lo più attraverso letture a voce alta, per pochi o tanti ascoltatori a seconda delle situazioni ma comunque divulgati da voce, corpo e gesti di esecutori/interpreti. Come tanta, tantissima produzione pre-gutenberghiana, anche i Canterbury Tales hanno cioè la natura di uno spartito che l’esecutore è chiamato a completare con la sua arte interpretativa fatta di toni, pause, ammicchi, ecc. Prendere quel testo, oggi in formato di stampa, e leggerselo a casa, con lettura muta e silenziosa, è gesto che stravolge completamente il modo in cui quel testo intendeva costruire il suo senso. Motivo per il quale proporlo a uno studente in quel modo così depauperato e poi meravigliarsi che non lo trovi tanto avvincente è un errore di proposta la cui responsabilità non può essere proiettata sulla sua “scarsa sensibilità”. Faccio sempre questo esempio, a tal proposito: leggere Chaucer in quel modo è un po’ come leggersi lo spartito di una sinfonia di Beethoven o di un pezzo dei Coldplay invece che sentirli eseguiti. Tra le due esperienze, ci sarà differenza o no? E la differenza da cosa dipende?

Possiamo estendere lo stesso concetto a ogni testo, in pratica: alla lirica greca, ad esempio, e pensare alla distanza che c’è tra il modo in cui veniva dal poeta concepita la sua lettura e comprensione, e il modo in cui la leggiamo e la comprendiamo noi oggi. O, per estremizzare la nostra tesi, pensare a come la stessa morfologia delle parole è cambiata in funzione dei progressi della stampa, o del formato delle pagine: se andiamo molto indietro nel tempo, troviamo iscrizioni su tavoletta composte solo da consonanti, e ciò in ragione del risparmio di materiale e di fatica di chi le incideva. Lì l’esecutore non poteva limitarsi a una lettura come la intendiamo noi: doveva impegnarsi in una vera e propria interpretazione. E una volta che quelle epigrafi sono state poi traslate su carta, e oggi su stampa, cosa potranno mai dirci ancora? Cosa comunicano a noi, lettori del tutto imprevisti, a noi che riusciamo a cavarne fuori giusto qualche borborigmo? E il modo di leggere (legato al formato sempre più maneggevole dei volumi, per un fenomeno a sua volta dipendente dagli esiti degli sviluppi tecnologici della stampa e del confezionamento dei prodotti editoriali) ha profondamente influenzato la scrittura anche in epoche assai più recenti. Ha per esempio determinato il modo di narrare dei romanzieri del Settecento, quando la pratica della lettura silenziosa si è diffusa al punto da diventare la modalità predominante di fruizione di un testo a stampa (rimando chi volesse saperne di più allo splendido lavoro di Rosamaria Loretelli, L’invenzione del romanzo. Dall’oralità alla scrittura, Laterza, 2010). E potremmo continuare così fino ai giorni nostri, riferendoci alla comune esperienza del passaggio dal libro a stampa all’ebook, o della lettura di un romanzo fatta su cellulare: il supporto fa o non fa la differenza, voi che dite? Dite di sì, ma certo.

Capiterà però ugualmente, magari tra dieci o quindici anni, quando l’Accademia di Svezia conferirà il Nobel a una blogger, che noi staremo ancora qui a discutere cos’è letteratura e cosa non lo è. Tenderemo ancora a dimenticare le tante Opere che oggi onoriamo nel Canone dei Classici e che mai furono concepite dai loro autori come tali; opere a suo tempo affidate a supporti assai volatili, effimeri, che non avevano alcuna intenzione di sfidare il tempo e che noi oggi leggiamo solo perché qualcuno le ha volute snaturare depositandole su materiali più longevi. Questi benemeriti signori non sapevano probabilmente che, cambiando la sostanza del supporto, cambiavano anche intenzione del testo, e quindi senso. Ma io dico che forse ai nostri studenti tutto questo andrebbe detto. Anche per far capire loro la rivoluzione culturale che stanno vivendo in questi anni, di cui il Nobel di Dylan è solo l’eco di uno scoppio lontano, lontano. 

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