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diretto da Romano Luperini

nobel 20160813 0367

Ancora su Bob Dylan (Nobel eccome!)

 Premetto: non ho le idee chiare in merito. Anzi, rettifico: nella mia testa le ho chiarissime, il problema è scriverle o dirle ad alta voce (seguendo i propositi per il nuovo anno consigliati da Massimiliano Tortora su questo stesso blog).

Se si trattasse solo di esternare il mio apprezzamento al cantautore americano non avrei problemi. Così come non esiterei a testimoniare che, personalmente, quando leggo o rileggo alcuni testi delle canzoni di Dylan spesso ne ricavo un piacere estetico e un coinvolgimento intellettuale non inferiore all’esperienza di lettura della migliore poesia del Novecento. Impostato così, però, il  discorso mi sta portando fuori strada: primo perché non è mia intenzione farne una questione personale, secondo perché il nodo del problema è un altro.

La prima volta che Bob Dylan fu candidato al Nobel per la letteratura (correva l’anno 1996), Gordon Ball aveva motivato la proposta sottolineando «l’influenza che le sue canzoni e le sue liriche hanno avuto in tutto il mondo, elevando la musica a forma poetica contemporanea». Parte del dibattito suscitato dall’assegnazione di quest’anno parrebbe rifarsi proprio alla motivazione formulata vent’anni fa: per alcuni è legittimo includere i testi delle canzoni di Bob Dylan nel genere poetico, per altri no. Secondo questa prospettiva, il discrimine può essere di carattere estetico (i testi di Bob Dylan sono più o meno belli di altra poesia prodotta nel Novecento?), oppure di accezione formale (l’articolazione della scrittura di Dylan presenta un grado di letterarietà sufficiente?). Ma il problema può essere posto (ed è stato fatto) in termini ancora più radicali: cosa c’entra un testo che nasce per essere cantato e accompagnato con la musica con la poesia?

Tutte queste domande sono legittime e tuttavia c’entrano poco con la motivazione che è stata addotta dall’Accademia nel 2016, secondo la quale Bob Dylan merita il Premio Nobel per la letteratura «per avere creato nuove espressioni poetiche all’interno della grande tradizione della canzone americana».

Le motivazioni non sono affatto interscambiabili: nel primo caso (1996) si assegnava a Dylan un valore culturale («l’influenza che le sue canzoni e le sue liriche hanno avuto in tutto il mondo») e un riconoscimento di dignità poetica: parafrasando in modo dozzinale le parole usate vent’anni fa, potremmo dire che il livello artistico raggiunto da Dylan era parso tale da riuscire nell’impresa di elevare un genere basso e popolare come la musica pop al livello della poesia contemporanea. Insomma Dylan doveva essere premiato (nelle intenzioni di quella candidatura) come eccezione alla regola dello status quo culturale.

Le motivazioni per l’assegnazione del Nobel del 2016 suonano in tutt’altro modo: il merito di Dylan è di essere un grande artista all’interno di una tradizione cantautorale altrettanto grande che è già di diritto parte (almeno secondo la più importante istituzione culturale al mondo) di quell’ampio, ricco e polimorfo universo che chiamiamo letteratura.

Ecco perché non volevo scrivere questo articolo. Perché per discutere davvero (e seriamente) del Nobel a Dylan non possiamo evitare di formulare domande come: cosa sia la letteratura, quali confini la dividano dalla non letteratura e chi abbia l’autorità per definire tali confini.

Non mi avventurerò a formulare risposte a tal genere di quesiti, per ovvi motivi (non sono nessuno, amo Bob Dylan ma non posso rovinarmi la carriera per uno che, tra l’altro, il Nobel non si è neppure degnato di andarlo a ritirare …). A chi teme un imbarbarimento della letteratura, posso però ricordare che i suoi confini sono sempre stati labili: quello che un tempo era considerato basso (vedi il romanzo) ora è il genere per eccellenza (come ci dicono i sostenitori al Nobel di Roth e DeLillo), quello che era fuori dal novero di qualsivoglia considerazione (come il fumetto) ora è riabilitato nella variante del graphic novel (e non solo). A chi paventa, invece, la perdita di specificità della parola scritta, non posso non ricordare come il teatro abbia arricchito (senza per nulla deturpare) la letteratura nazionale e internazionale (come ci ricorda lo stesso Nobel a Dario Fo). A chi infine critica l’arbitrarietà del giudizio espresso dall’Accademia mi azzarderei a rispondere che i confini della letteratura dipendono anche (e soprattutto) da ciò che il pubblico e la critica decidono di designare come tale.

Il punto che rimane da discutere, su cui ci si deve interrogare, è dunque: ciò che Dylan ha prodotto, così com’è, in quel connubio di parole, racconto, immagini e musica è un’altissima espressione artistica, oppure no? Se lo è, la vogliamo accogliere nell’universo della letteratura?

Un ultimo appunto di carattere didattico. Quest’anno mi sono avventurata in un esperimento: ho iniziato il corso per la magistrale con l’ascolto, la lettura e il commento di Like a rolling stone, ponendo ad una classe particolarmente attenta e vivace la domanda se quella potesse essere o no letteratura e cosa ne pensassero del Nobel a Bob Dylan. L’effetto di questo esperimento mi ha un po’ spiazzato. Da una parte gli studenti sono stati rapiti dalla possibilità (su cui si è ragionato lungo tutto il corso) di interrogarsi e interrogarmi sui confini della letteratura, dall’altra sono rimasti piuttosto apatici durante l’ascolto della canzone di Bob Dylan. Il trucco che, secondo i miei piani, avrebbe dovuto (fin troppo ruffianamente) sintonizzarmi sui loro interessi ed assicurarmi la loro attenzione è miseramente fallito: l’attenzione a Dylan me la sono dovuta guadagnare, così come quella a Montale e ad altri mostri sacri della nostra letteratura. Dapprima mi è sembrato impossibile. Invece pare sia proprio così. Per un giovane universitario di oggi, Dylan è già un cantautore difficile e lontano, che necessita di essere parafrasato, chiosato e riletto, proprio come un Nobel.    


Fotografia: G.Biscardi, Artisti di strada, Vienna 2016. 

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