Propositi per il nuovo anno: a partire dal Nobel a Bob Dylan
Ci piaccia o no, le mosse delle istituzioni, anche quelle a cui magari riconosciamo meno peso in fatto di canone letterario, hanno un’influenza e impongono di essere ascoltate. Dunque, ci piaccia o no ancora una volta, il 2016 sarà ricordato per il premio a Bob Dylan. E, ci piaccia o no (ma questo è l’ultimo), la polemica tra favorevoli e contrari si ripeterà negli anni, trascinando anche le nuove generazioni. Come accade ancora oggi con Grazia Deledda («ma veramente la Deledda ha preso il Nobel, professore?» mi chiedeva qualche tempo fa una studentessa; «sì, è successo» ammettevo io non senza mostrare sconforto), con Salvatore Quasimodo («pure Quasimodo?»; «sì, certo», replicavo io con più brio), per non parlare di Dario Fo («Una vergogna. Cosa avrà mai dato Dario Fo alla letteratura italiana o mondiale?», diceva un insolitamente esperto Gianfranco Fini; ma nel campo della Casa delle libertà la polemica – sempre con insospettata competenza – si allargava anche ai senatori a vita: «Luzi? Disconoscevo finora che esistesse al mondo», dixit Calderoli).
Insomma la querelle, «la discussione planetaria», «la battaglia socialmediatica» (come l’ha definita Contu su questo blog) non si arresterà, e ci troveremo inevitabilmente all’eterno dilemma: giusto o no?
Certo, è indubbia l’influenza culturale che l’opera di Bob Dylan ha esercitato in Occidente dagli anni Sessanta a oggi. E in fondo la motivazione del Nobel sottolineava questo aspetto: «aver creato nuove espressioni poetiche nella grande tradizione musicale americana». E quindi se il Nobel è un più generico premio alla cultura, il riconoscimento è più che legittimo. Ma in fondo è la stessa idea di letteratura ad essere sottoposta a una nuova configurazione. Intuizione subita colta dallo stesso Bob Dylan, che nel suo discorso in absentia (senza polemica, approfitto per una comunicazione ai membri della giuria del Nobel: in caso di vittoria prometto di spostare tutti gli impegni pur di partecipare alla cerimonia; promesso; non si sa mai…), ha cercato di uscire dalle secche di letteratura sì/letteratura no:
Ero fuori, per strada, quando ho ricevuto questa sorprendete notizia, e ci ho messo più di qualche minuto a elaborarla in maniera opportuna. Ho iniziato a pensare a William Shakespeare, la grande figura letteraria. Pensava a se stesso come a un drammaturgo. Il pensiero che stesse scrivendo della letteratura non avrebbe potuto entrare nella sua testa. Le sue parole furono scritte per il palco. Destinate ad essere recitate, non lette. Quando stava scrivendo l’Amleto, sono sicuro che stesse pensando a un sacco di cose differenti: “Chi sono gli attori più adatti per questi ruoli?” “Come dovrebbe essere messo in scena?” “Voglio veramente ambientarlo in Danimarca?”. La sua visione creativa e le sue ambizioni erano senza dubbio in cima ai suoi pensieri, ma c’erano anche le questioni più banali da affrontare. “Il finanziamento è a posto?” “Ci sono abbastanza buoni posti a sedere per i miei finanziatori?” “Dove posso procurarmi un cranio umano?” Scommetto che la cosa più lontana dalla mente di Shakespeare era stata la domanda: “È letteratura, questa?”.
Mossa astuta, e sincera credo, quella di Dylan; e, sottolineo, anche sensata. Eppure, eppure… replicano i detrattori, anch’essi non senza ragione: i testi delle canzoni (e tralascio le poesie che non hanno avuto peso nel conferimento del premio), anche quelli più profondi, non reggono alla lettura, e senza musica si rivelano scarni e contraddistinti da una certa pochezza. Conclusione a cui si arriva, ad esempio, anche leggendo De André (a scanso di equivoci, l’altro autore molto amato e ascoltato dal sottoscritto insieme a Dylan; e a fugare ogni dubbio: sono stato al concerto di entrambi). Ma, si ammetterà facilmente, a conclusioni diverse si arriva leggendo Shakespeare. E quindi qui il parallelo di Dylan si sgretola rovinosamente.
E allora? Allora sono favorevole perché amo Dylan, e mi fa piacere; e dunque mi arruolo alla schiera dei sostenitori, anche di quelli meno simpatici. Ma non sciolgo il dilemma iniziale. E non solo perché non ne sono capace, ma perché è evidente che tale dilemma è un’aporia senza soluzione.
Più interessante semmai ripartire dalla mossa iniziale. Ossia comprendere quali indicazioni offre il premio Nobel 2016, e cosa può significare il fatto che l’istituzione più accademica e ingessata che abbiamo in campo letterario premi il più illustre dei cantautori occidentali.
*
La prima risposta, ovvia, sarebbe quella di interpretare il Nobel a Dylan come un lasciapassare a favore della cultura popolare, finalmente ammessa nel salotto buono della letteratura. Ma peccato che tutto questo era già successo decenni fa, e lo stesso premio Nobel, anche in parte con Dario Fo, aveva già dato segno di aver recepito quanto avvenuto in campo critico e teorico. Semmai più che di elevazione, in questo senso bisognerebbe parlare di diplomatica uccisione; mi riferisco non tanto alla cultura popolare in genere, quanto al ruolo antagonista che questa ha avuto (Masters of war, solo per citare un testo celebre di Dylan): il conferimento del premio in qualche modo finisce per istituzionalizzare, e dunque far perdere ogni forza eversiva e polemica (ammesso che ancora certi testi li mantenessero ai giorni d’oggi).
Ma forse c’è un’ulteriore indicazione che il premio svedese offre, e non so giudicare quanto consapevolmente. È sotto gli occhi di tutti come proprio dagli anni Sessanta, e in maniera più netta dagli anni Novanta, la poesia abbia recuperato la sua vocalità. Sia uscita, per dirla con un’espressione cara a Gabriele Frasca, dalla sua «gabbia tipografica», per tornare ad essere letta ad alta voce. Solo per limitarci al campo italiano, e sorvolando sugli happening e sulle manifestazioni poetiche che si sono infittite in quest’ultimo periodo, non sono pochi i poeti che hanno costruito i loro testi per una lettura non silenziosa: Frasca appunto (il capostipite, nonché il più lucido teorico in tal senso), Voce, Lo Russo, ecc. Insomma, credo che non si possa sorvolare sul fatto che proprio nel momento in cui la poesia si riaggancia a una dimensione recitativa e vocale, i commissari del Nobel vedano in Bob Dylan il loro vincitore (e non so quanto sia stato rimarcato come la cultura musicale e la musica pop siano diffuse in Svezia: dagli ABBA negli anni Settanta, agli Europe, Ace of Base, ecc.; e forse vale la pena ricordare anche che la Svezia è al terzo posto, dopo USA e Gran Bretagna, nell’export musicale). Non è pertanto la musica leggera/pop/d’autore a introdursi nel campo letterario, quanto la poesia a ristabilire alcune pratiche – quelle appunto sonore che sempre hanno contraddistinto la sua dimensione –, avvicinandosi ma non confondendosi alla produzione musicale tout court. Insomma, mi piace vedere nel Nobel alla letteratura 2016 la sollecitazione a considerare la poesia un genere da praticare a voce alta.
*
A un recente incontro con gli insegnanti di scuola superiore, un docente cresciuto a pane e De André dichiarava: «quando devo adottare un libro di testo, e vedo che tra i testi antologizzati compare La guerra di Piero, lo scarto subito». Soluzione lapidaria, e forse nemmeno vera. Però quel docente stabiliva un criterio: ad oggi canzone d’autore e poesia continuano ad essere due attività distinte e distinguibili (e per rispondere a chi ha già il ditino alzato: «senza per questo creare una gerarchia tra le due!!!»). E non si può fare servizio peggiore all’una e all’altra forma artistica, se non quelle di appaiarle e poi unirle in un unico insieme.
E tuttavia, e si scusi il procedimento dilemmatico (ma siamo pur sempre partiti da un’aporia), il Nobel ci ricorda che nella poesia oltre a carta e inchiostro c’è anche la voce.
E allora, per chiudere con un buon proposito per me e per i miei colleghi di ogni ordine e grado, se provassimo a insegnare il componimento poetico come un testo che deve (e non può) essere letto ad alta voce? Magari il numero di curiosi o non allergici alla poesia potrebbe aumentare; e magari qualcuno potrebbe anche imparare qualche verso a memoria; e magari potrebbe provare pure a rivendersi quei versi nei momenti seduttivi; e magari funziona: va da sé che a quel punto avremmo un lettore in più.
Io nel 2017 ci provo: non a usare la poesia a fini seduttivi (non ho chances), ma ad insegnarla come un testo da leggere a voce alta. Magari funziona, dicevo prima. Ma ve lo posso dire solo tra un anno.
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