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Tra recuperi modernisti e rilanci realistici: Cleopatra va in prigione di Claudia Durastanti

 Una delle tendenze della narrativa contemporanea – lo rilevava già qualche anno fa Raffaele Donnarumma in un saggio apparso su «Allegoria» nel 2008 – è quella di conciliare senza eccessive problematizzazioni e remore istanze prettamente realistiche con eredità di stampo modernista. Il dato è quanto mai centrale per comprendere la fisionomia dell’attuale narrativa: del resto il modernismo italiano ed europeo (e dunque Svevo, Pirandello, Tozzi, e anche Joyce, Woolf, Kafka, Proust, ecc.) aveva puntato tutto su due caratteristiche: l’introspezione psicologica, che portava allo scandaglio dell’io e dunque a un’esasperata soggettività, capace talvolta di prosciugare ogni realtà circostante; e la profonda consapevolezza che il filtro narrativo e letterario – e più in generale linguistico – con cui raccontiamo storie è sempre deformante, prismatico, involontariamente deformante («Con ogni nostra parola toscana noi mentiamo!» scriveva lucidamente Zeno – e Svevo – ne La coscienza). Sicché il binomio modernismo-realismo si è sempre posto in maniera problematica: non che la critica contemporanea lo abbia rescisso, ma in ogni caso lo ha dovuto sempre giustificare e ricreare, ricorrendo a formule che in qualche modo relativizzavano il secondo dei due termini (di Realismo modernista parla tra gli altri Riccardo Castellana, alla definizione di «realismo di secondo grado» ricorre Valentino Baldi, ecc.).

Gli scrittori che si impongono dagli anni Novanta, in un certo senso, rimediano a questo torto della storia: dimostrano come fra realismo e modernismo, fra volontà di parlare del mondo e consapevolezza autoriflessiva della letteratura esiste una conciliazione produttiva. Se il postmoderno era stato la rottura di questa dialettica, tutta sbilanciata sul polo della finzione e dell’autoreferenzialità, i nuovi scrittori la restaurano. Essi hanno sciolto il nodo delle ossessioni teoriche e autoreferenziali postmoderne come Alessandro il nodo di Gordio: tagliandolo [Donnarumma, Nuovi realismi e persistenze postmoderne: narratori italiani di oggi, «Allegoria», 57, gen.-giu. 2008, p. 27].

 

Donnarumma faceva riferimento al periodo compreso tra gli anni Novanta e i primi anni Zero, e prendeva in considerazione quelle generazioni di scrittori nate tra gli anni Sessanta e Settanta (più qualche altro scrittore di decenni precedenti: Siti, Tabucchi). Tuttavia quell’intuizione relativa a una tendenza che iniziava a muovere i primi passi – pur con molte resistenze e difficoltà: il primo Lagioia, Raimo, il noir, ecc. – oggi fotografa una situazione assolutamente conclamata: si pensi soltanto a Vita in tempo di pace di Pecoraro, ai romanzi di Falco (La gemella H ad esempio) o alle prove di Janeczeck (mi riferisco a Cibo, in cui però la fusione tra realismo e soggettivismo, tra sociologia e modernismo è più faticosa). Ma questa tendenza informa soprattutto la generazione dei narratori nati negli anni Ottanta. Ne è prova il recente romanzo di Claudia Durastanti (1984 per la cronaca), Cleopatra va in prigione (Minimum Fax, Roma, 2016; ma del romanzo era uscito un estratto, in forma di racconto, nel 2015), che segue Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra (2010) e A Chloe, per le ragioni sbagliate (2013).

Il libro racconta la storia di Caterina, una giovane ragazza della periferia romana, e del suo ragazzo, Aurelio, finito in carcere, a seguito di una vendetta da parte di alcune ballerine del suo locale. La forza del romanzo non è tanto nella trama, in parte ricalcante quella di altre opere di ambientazione simile, quanto nella fusione che i singoli personaggi manifestano con l’ambiente, e nella sincronia che si registra tra vicende personali e destini generali.

In primo luogo Claudia Durastanti, come molti altri suoi scrittori coetanei, recupera un elemento narrativo che è stato tabù per decenni: la descrizione. Non teme infatti di dilungarsi nella rappresentazione di Roma Est, e di quella zona che si distende tra Pietralata e il Grande Raccordo Anulare, attraversando anche Rebibbia dove il suo fidanzato è recluso. E si tratta di una descrizione fotografica che non indulge al sociologismo (o lo recupera in maniera veramente implicita), e che ha come unico scopo quello di mostrare una realtà che alla maggior parte dei lettori è ignota, perché mai frequentata: un procedimento balzachiano, tipicamente realistico e indubbiamente alternativo al verbo modernista. Fanno sistema con la descrizione, l’ambientazione generale e i temi prescelti: la periferia appunto, i locali notturni, il carcere, la droga, la chirurgia estetica, gli striptease, l’immigrazione, la prostituzione, ecc.

Ci si trova di fronte a un romanzo che propone, almeno per quanto concerne il mondo esterno, un massimo grado di oggettività, ottenuto oltretutto attraverso una serie di espedienti che possiamo chiamare marcatori di veridicità: precisione toponomastica, mimesi del parlato nei dialoghi, attinenza a dinamiche sociali effettivamente in atto in questi anni a Roma e nelle altre grandi città italiane.

E tuttavia questa che sembrerebbe un’overdose di Ottocento è neutralizzata – ma non abolita: rimane senza costituire la carta d’identità del romanzo – da una serie di controspinte, tutte derivanti dalla figura del narratore.

Il romanzo alterna la voce di Caterina a quella di un narratore esterno. E in entrambi i casi, oltre alla propensione verso l’esterno, c’è un’ovvia attenzione alla vita privata: l’amore, il sesso, il rapporto con la madre, le amiche che non ci sono, le tante conoscenti, ecc. Ora, il susseguirsi di due voci narranti relativizza il punto di vista di Caterina, e in qualche modo argina quel mare della soggettività (per dirla quasi con Calvino) che avrebbe comportato un unico punto di vista, e che ha spesso caratterizzato la narrativa modernista primo novecentesca. E proprio questo argine (che fu già di Volponi in Corporale) e la presenza di un narratore esterno (ma parziale) lasciano spazio di manovra a quel realismo di cui si è detto sopra.

Insomma l’io e il mondo viaggiano alla stessa velocità. Non solo ma l’io – Caterina, Aurelio, i loro amici – sono figli del loro mondo, e il suo naturale prodotto. Sembrerebbe allora tutto spiegabile, in base a un determinismo pesantemente ottocentesco. Ma l’attuale narrativa degli anni Dieci, così come quella immediatamente precedente, non si spinge così avanti. È vero che soggetto e reale sono intrecciati, e che il secondo vincola il destino del primo; ma è anche vero che le motivazioni e le ragioni per cui il mondo circostante produce il singolo progetto, simile agli altri eppure inevitabilmente originale, rimangono oscure e inesplicabili. È qui che prende corpo l’elemento cardine di gran parte della narrativa contemporanea, realistica e persistentemente modernista: la sospensione. Tutto il romanzo si spinge verso la verità e si candida a offrire spiegazioni razionali, arrestandosi però di fronte all’impossibilità di comprendere tutto. Ed è questo un tratto che caratterizzava il primo Novecento, rendendolo dunque refrattario a istanze esplicitamente realistiche. Queste istanze, come già detto, vengono invece recuperate da Durastanti, la cui opera in qualche modo diventa icastica dell’attuale condizione del romanzo.

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