Italianisti fuori dall’Italia. Inchiesta su una disciplina vista “da fuori”/5
A cura di Valentino Baldi
Quinta settimana per l’Inchiesta sull’italianistica. Oggi risponde alle domande Alberto Godioli
Alberto Godioli è Assistant Professor in letteratura italiana ed europea presso l’Università di Groningen. Dal 2013 al 2015, è stato Newton International Fellow presso l’Università di Edimburgo, con un progetto sul riso nella narrativa europea tra Otto e Novecento. È autore dei libri Laughter from Realism to Modernism: Misfits and Humorists in Pirandello, Svevo, Palazzeschi, and Gadda (Oxford, Legenda, 2015) e La scemenza del mondo. Riso e romanzo nel primo Gadda (Pisa, ETS, 2011). Dal 2015 fa parte della redazione di La letteratura e noi.
La scheda di presentazione dell’inchiesta si può ritrovare QUI. Le precedenti risposte si possono trovare qui , qui , qui e qui.
Perché sei andato all’estero?
Ho conseguito il dottorato presso la Scuola Normale di Pisa nel dicembre 2012. Durante l’ultimo anno di dottorato, mi ero reso conto (come tanti altri nella stessa situazione) che le possibilità di continuare la carriera universitaria in Italia erano molto ridotte; per questo motivo, già prima di discutere la tesi, avevo iniziato a inviare domande per borse post-doc all’estero. Nell’ottobre 2012 ho saputo di aver ottenuto una Newton International Fellowship, vale a dire una borsa biennale finanziata dalla British Academy, il cui obiettivo è attirare ricercatori stranieri nel Regno Unito; e così, poche settimane dopo la discussione a Pisa, mi sono trasferito all’Università di Edimburgo. Ho passato due anni e mezzo in Scozia, per poi trasferirmi in Olanda (Università di Groningen) nell’agosto 2015, con un incarico di Assistant Professor presso il dipartimento di Lingue e Culture Europee.
In breve: il mio trasferimento all’estero è dipeso in primo luogo da motivi contingenti, vale a dire dalle scarse possibilità di proseguire la carriera universitaria in Italia dopo il dottorato. Per inciso, gli anni del dottorato a Pisa sono stati per me preziosi e memorabili, dal punto di vista umano e professionale. Al tempo stesso, però, credo che il dottorato in Italia presenti alcuni limiti strutturali, rispetto agli equivalenti in altri Paesi europei ed extra-europei: su tutti le poche (e poco riconosciute) esperienze di insegnamento offerte ai candidati, e la scarsa apertura alla dimensione internazionale della ricerca (pubblicazioni in inglese, collaborazioni con ricercatori stranieri, ecc.). Naturalmente non mancano le eccezioni, ed è probabile che la situazione sia migliorata dal 2012 a ora, anche a causa della crisi e del bisogno sempre più urgente di uscire dall’isolamento; resta il fatto che questi due aspetti sono particolarmente importanti per candidati che vogliano continuare a lavorare in ambito universitario (il che significa, spesso, lasciare l’Italia).
Qual è il rapporto fra didattica e ricerca nel tuo ateneo?
L’equilibrio e il dialogo tra didattica e ricerca sono due priorità per l’università in cui lavoro. Il mio dipartimento si propone di raggiungere questo obiettivo in vari modi, ad esempio: 1) Definendo in modo chiaro il rapporto fra didattica e ricerca sul piano contrattuale (un assistant professor, ad esempio, dovrebbe dedicare il 60% del tempo alla didattica e il 40% alla ricerca); 2) Promuovendo la collaborazione tra ricercatori all’interno dell’università, ad esempio attraverso incontri dedicati a interessi di ricerca comuni; 3) Offrendo assistenza logistica nella preparazione di domande per borse di ricerca nazionali ed europee; 4) Permettendo di pianificare corsi su temi vicini ai propri interessi di ricerca, specialmente per quanto riguarda il programma di laurea specialistica (Master’s e Research Master’s) e i corsi avanzati per la OSL / National Research School, che ha sede ad Amsterdam. Il programma OSL è costituito da corsi semestrali organizzati da 1-2 docenti di diverse università olandesi, su temi legati agli sviluppi più recenti degli studi letterari; gli studenti di Research Master’s (cioè lauree specialistiche orientate alla carriera universitaria) di tutta Olanda sono tenuti a seguire almeno uno di questi corsi prima di discutere la tesi, seguendo le lezioni ad Amsterdam ogni due settimane nell’arco di un semestre. A mio parere si tratta di un modello molto interessante e utile per gli studenti, anche se naturalmente sarebbe meno facile attuarlo in paesi più grandi, in cui le distanze da coprire per frequentare le lezioni sarebbero maggiori.
Hai partecipato a progetti di ricerca finanziati con risorse pubbliche/private? In generale, come si modifica la tua ricerca in relazione ai concorsi che hai affrontato e al tuo ruolo di docente?
Il mio progetto post-doc a Edimburgo è stato finanziato, come ho accennato nella prima risposta, da una borsa di ricerca biennale della British Academy. Il passaggio dal dottorato a Pisa alla post-doc scozzese ha accentuato, nel mio caso, il bisogno di ricorrere a un punto di vista più comparato sui temi della mia ricerca; lavorare all’estero, in un dipartimento di letterature europee e non solo di letteratura italiana, è stato senza dubbio un fattore importante in questo senso. La tendenza ad allargare i miei interessi di ricerca in senso europeo si è poi ulteriormente rafforzata con il trasferimento a Groningen, per una serie di motivi – ad esempio i contatti ancora più frequenti con colleghi specialisti di altre discipline, ma anche la forte identità europea del programma di insegnamento (sia a livello Bachelor, cioè triennale, che Master’s), che mi porta a organizzare corsi insieme a docenti di letteratura russa, spagnola, tedesca, francese, svedese, inglese.
Il mio lavoro, inoltre, non può che essere influenzato (almeno in parte) da fattori che non dipendono dal singolo ateneo, ma che riguardano più in generale il ruolo assegnato alla ricerca nel sistema universitario. Mi riferisco in particolare a due fattori:
1) La valutazione della ricerca in base a criteri puramente o prevalentemente bibliometrici (numero di pubblicazioni, ‘impact factor’, eccetera). In linea di principio, è senz’altro giusto invitare i ricercatori a produrre risultati concreti; ma d’altra parte, misurare questi risultati su basi meramente quantitative, sacrificando la qualità alla fretta di pubblicare, non può che rivelarsi dannoso e pericoloso, soprattutto per i progetti a lungo termine. Non credo che le singole università siano responsabili di questa deriva (anzi, i criteri interni per la valutazione della ricerca sono spesso ragionevoli); il problema, a mio parere, è l’uso di metodi prevalentemente quantitativi nell’assegnazione di finanziamenti alle università da parte degli enti nazionali (si pensi al meccanismo del REF nel Regno Unito).
2) La necessità di pianificare la ricerca in base alle scadenze e alle durate delle borse di ricerca nazionali ed europee. Da una parte, la logica dei grant può avere effetti molto positivi, favorendo la collaborazione fra studiosi in ambito internazionale, e mettendo a disposizione tempo e risorse per la ricerca. D’altro lato, il rischio è quello di scoraggiare progetti ambiziosi ma che potrebbero non garantire risultati immediati, o che non rientrino fra le priorità tematiche o metodologiche stabilite dalle commissioni di ricerca. Se Erich Auerbach presentasse oggi una domanda di finanziamento per scrivere Mimesis, quante sono le possibilità che riceva un grant?
Culturalmente parlando, l’essere italianista all’estero quali vantaggi e quali svantaggi ti ha dato? Torneresti a lavorare e a fare ricerca in una università italiana?
Lavorare all’estero, finora, è stato per me solo un vantaggio, se non altro perché mi costringe a non dare mai per scontato il senso di quello che faccio. Per quanto riguarda la didattica, ogni giorno lavoro con studenti che provengono da ogni parte del mondo. Preparare una lezione di letteratura o cultura italiana significa, quindi, porsi quotidianamente una serie di domande: cosa può dire questo testo a persone che si sono formate in altri Paesi, o in altri continenti? come posso collocare questo testo in una prospettiva europea o globale, senza al tempo stesso tradirne la specificità? Inoltre, per studenti che non sono necessariamente interessati alla letteratura (come spesso accade nei corsi triennali in Lingue e Culture Europee), si rende necessaria un’ulteriore riflessione sul ruolo della letteratura nella formazione e nella vita degli studenti, inclusi quelli che non proseguiranno gli studi in quella direzione.
Anche per quanto riguarda la ricerca, finora i vantaggi sono stati di gran lunga superiori agli svantaggi: mi riferisco soprattutto alle possibilità di collaborazione e di dialogo con ricercatori di altre discipline, e all’apertura in senso comparativo di cui ho parlato sopra.
Per quanto riguarda l’ultima parte della domanda, confesso di non aver mai pensato alla possibilità di tornare in Italia, almeno fino a questo momento; in generale, potrei prendere in considerazione questa ipotesi per motivi personali, o per gratitudine verso il sistema di istruzione nel quale mi sono formato. Il problema più grande, ad ogni modo, mi sembra essere la scarsa comunicazione tra l’italianistica prodotta in Italia e quella prodotta all’estero; non si tratta certo di uno scarto qualitativo (lavori fatti bene e meno bene si trovano ovunque), ma di una differenza di metodi, di riferimenti culturali, e di lingua. L’italianistica all’estero si esprime soprattutto in inglese, anche per i motivi di valutabilità cui ho accennato in precedenza, mentre i lavori scritti in italiano passano in secondo piano (un mio articolo in italiano, dal punto di vista bibliometrico, varrebbe molto meno di un articolo in inglese); in Italia, simmetricamente, i saggi scritti in inglese e pubblicati da case editrici straniere (in particolare anglofone) sono relativamente poco letti e poco usati. C’è ancora parecchio lavoro da fare, credo, perché questi due versanti dell’italianistica possano cominciare a dialogare in modo sistematico; e ci sarebbe anche molto da guadagnare, su entrambi i fronti.
Con quali strumenti segui il dibattito critico e culturale in Italia? I tuoi riferimenti sono cambiati nel corso di questi anni?
La quantità e la qualità dei blog e dei siti che si occupano di letteratura e cultura italiana (da Le parole e le cose alla Letteratura e noi) sono sicuramente cresciute esponenzialmente in questi ultimi anni; internet è quindi una risorsa sempre più importante per tenersi in costante aggiornamento, tanto più quando si vive all’estero. Lo stesso vale per le riviste accademiche i cui contenuti sono interamente accessibili online (come Incontri, Between o Arabeschi), e per quelle che garantiscono libero accesso ad almeno una parte del materiale (come Allegoria). Inoltre, lo scambio continuo di informazioni con i colleghi in Italia e all’estero resta naturalmente uno strumento insostituibile.
Come migrante, esiste secondo te un rapporto fra la tua situazione e quella dei migranti che giungono in Europa dal Sud o dall’est del mondo?
Non credo che esista un rapporto diretto; la mia è chiaramente una situazione di privilegio, come quella di tanti altri ricercatori o docenti universitari all’estero, e non mi mette nella posizione di capire meglio la realtà traumatica di altri tipi di migrazione. Piuttosto, quattro anni nel Nord dell’Europa mi hanno reso più sensibile a un certo tipo di orientalismo blando verso l’Europa mediterranea, più insofferente agli stereotipi o alle bieche generalizzazioni sulla base della provenienza geografica, più consapevole dell’urgenza di affrontare la crisi dei migranti da un punto di vista europeo e non esclusivamente mediterraneo.
Come vivi il dibattito sulla crisi dell’Europa e sulla possibile fine degli accordi Schengen?
Lo vivo con interesse e con preoccupazione, come molti. Anche in Olanda, un tempo tra i Paesi più profondamente europeisti, lo scetticismo e il populismo avanzano; del resto, già nel 2005 gli olandesi avevano bocciato la Costituzione Europea tramite referendum, e proprio qualche mese fa si sono opposti (sempre con un referendum) agli accordi tra Ucraina e Unione Europea. Questo non fa che evidenziare quanto sia urgente riflettere sul significato dell’Europa oggi, cercando anzitutto di studiare con serietà il fenomeno dell’euroscetticismo. Lavoro in un dipartimento di Lingue e Culture Europee, e insieme ai miei colleghi tengo corsi introduttivi (per il primo anno di triennale) che si chiamano Studying Europe e Reading Modern Europe; la riflessione sulla crisi attuale è inevitabilmente un tema fondamentale nel nostro dialogo quotidiano con gli studenti.
In quale senso la condizione dell’espatrio può essere umanamente, socialmente e culturalmente produttiva oppure improduttiva o deprivativa?
È sicuramente produttiva per la varietà di esperienze umane e professionali alle quali ho avuto la fortuna di accedere; inoltre, la distanza geografica e il contatto con culture diverse permettono di guardare alle vicende italiane da una prospettiva straniata (dunque, per molti aspetti, proficua). La maggiore privazione, dal punto di vista umano, consiste naturalmente nella difficoltà di mantenere rapporti costanti con amici e familiari che vivono a migliaia di chilometri di distanza; ma anche in questo caso si tratta di una privazione relativa e vissuta da una posizione di privilegio, non mancando gli strumenti per cancellare provvisoriamente le distanze (da Skype ai voli a basso costo).
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