Considerazioni su Ipermodernità
Il nuovo libro di Raffaele Donnarumma (Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, il Mulino, Bologna, 2014) è, credo involontariamente, una risposta ad un progetto einaudiano comparso nel 2010 dal titolo Atlante della letteratura italiana (curato da Sergio Luzzatto e Gabriele Pedullà). Ad una storiografia costitutivamente frammentaria e fondata sulla riscoperta della scientificità che caratterizzava l’Atlante, Donnarumma risponde con «imparzialità» ed «incompletezza» (p. 230), considerando qualsiasi resoconto storico-letterario come una scommessa, a maggior ragione quando concentrato sul presente. È nell’ultimo capitolo del suo libro che l’intero lavoro svela la metodologia su cui è fondato, ponendosi in una strada che prende qualcosa dal racconto narrativo, così come dal testo argomentativo e dal saggio. Impossibilitato a costruire un canone, lo storiografo del presente deve sempre esprimere delle scelte in cui i testi diventano «sintomi del tempo» (p. 239), evitando da una parte il caos dell’arbitrio totale e dall’altra l’illusione dell’imparzialità scientifica. La struttura aperta e problematica di Ipermodernità trova dunque fondamento nel suo capitolo finale in cui l’autore accetta la dispersione del presente e anzi la fa propria alla ricerca di sintomi: «è proprio nella sua ricerca di sintomi che la storia della letteratura presente è la storia del presente – cioè interpretazione fondata su fatti che sono evidente, e che perciò si mantiene problematica, aperta, non garantita» (p. 240).
Ritengo che il dibattito nato attorno al libro testimoni quanto ancora la critica letteraria possa reclamare uno spazio nella nostra contemporaneità. Critici affermati come Ceserani e Luperini sono intervenuti soprattutto per riflettere sui confini storici del postmoderno, categoria con cui Donnarumma fa i conti nei primi capitoli. Ceserani, in particolare, ha impegnato Donnarumma in una lunga discussione su limiti e caratteristiche del postmoderno già prima della pubblicazione di Ipermodernità. È lo stesso Donnarumma che ricostruisce i dibattiti che hanno preceduto la pubblicazione del suo libro in una Nota al testo (pp. 241-42) posta in chiusura di volume: su «Allegoria», dopo la pubblicazione del saggio Ipermodernità: ipotesi per un congedo dal postmoderno («Allegoria», anno XXIII, terza serie, n. 64, luglio/dicembre 2011), Ceserani ha pubblicato La maledizione degli –ismi («Allegoria», anno XXIV, terza serie, nn. 65-66, gennaio/dicembre 2012, pp. 191-213) a cui Donnarumma ha ribattuto con Il faut être absolutement hypermodernes. Una replica a Remo Ceserani («Allegoria», anno XXV, terza serie, n. 67, gennaio/giugno, pp. 185-199). Al dibattito si sono aggiunti Cortellessa (Lo stato delle cose, in «Lo Specchio +» supplemento de «La Stampa», 2008, n. 576, pp. 137-49) e, dopo l’uscita del volume, Policastro (Il faut être absolument hypermoderne, in «alfabeta2») e Angelo Guglielmi (Ipermodernità, in «alfabeta2»). Mentre Policastro ha puntato il dito contro assenze importanti sia individuali che di gruppo, Guglielmi ha stroncato totalmente il libro, convinto che le fratture individuate da Donnarumma non siano decisive per lo sviluppo della letteratura novecentesca. Difficile rispondere a Guglielmi, visto che le sue osservazioni si fondano su una totale incompatibilità con gli assunti del libro, più giusto riflettere sul valore simbolico di simili polemiche. Capita raramente che un libro di critica letteraria riesca a rianimare il dibattito contemporaneo diventando un oggetto con cui polemizzare vivacemente. Ci sono libri importanti che vengono pubblicati ogni anno nel campo della critica letteraria, eppure pochi di loro ricevono recensioni taglienti com’è stato per Ipermodernità. È evidente che la scelta di Donnarumma di intervenire su postmoderno, realismo e fiction/non fiction ha toccato delle corde importanti nel nostro presente e la sua capacità di affrontare lunghe discussioni ha fatto il resto, animando un dibattito interessante almeno quanto il libro stesso. Sulle pagine di questo blog, Donnarumma ha pubblicato alcune considerazioni inedite sull’insegnamento che credo siano fondamentali dato che offrono più di un orientamento nella difficile questione della didattica in materia di storiografia letteraria ed anche della letteratura tout court. Compiere delle scelte, esprimere (argomentandola e contestualizzandola) una parzialità, delineare un quadro ed illustrare le posizioni contrastanti di un dibattito possono essere strumenti importanti che il docente dovrebbe portare con sé di fronte a qualsiasi classe come una nuova forma di militanza. È impossibile, oggi, contrapporsi all’accumulo di dati attraverso il ricorso alla scientificità: il numero di informazioni che qualsiasi studente medio ha immediatamente a disposizione nella propria casa (e a volte anche nell’aula nel momento stesso in cui il docente parla) è inaudito: ecco perché, per quanto si affinino metodologie di raccolta dati (si pensi all’Atlante), la battaglia rischia di essere persa in partenza. Quello che il docente può dare, oltre a passione ed esperienza, è un insegnamento di metodo che resta fisso anche quando problemi come la paternità del Fiore, il commento delle ottave dell’Orlando furioso o la ricerca di personificazioni nei madrigali di Tasso sono terminati. Collegare il presente alle forme dell’arte che magmaticamente convivono assieme, scegliere un percorso di autori e questioni che si ritengono rilevanti, riflettere su tanta “cattiva letteratura” evidenziando per contrasto i meriti dei grandi autori, insegnare (soprattutto) una profondità parziale ma argomentata sono caratteristiche uniche e si offrono come modello metodologico nei capitoli teorici di Ipermodernità. È un libro, come ha suggerito Daniela Brogi in una sua bella recensione, da cominciare dalla fine (Raffaele Donnarumma. Ipermodernità, in «Doppiozero») ed in cui la militanza si fa costitutiva, liberandosi però dall’ideologia e dal rischio di prese di posizione vuote e narcisistiche: «la militanza non sarà da intendersi come performance, antagonismo di maniera, fenomeno di costume o forma narcisistica di contrapposizione di un great man fiero, ma, al contrario, intende porsi come ostinata espressione di inappartenenza e di inattualità, perché vuole cercare udienza rendendo ragione anziché producendo stupore o piagnistei» (D. Brogi, Raffaele Donnarumma. Ipermodernità, cit.).
NOTA
L’immagine è di L. Presicce, Allegoria astratta.
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