Italianisti fuori dall’Italia. Inchiesta su una disciplina vista “da fuori”/1
Questa settimana si apre l’Inchiesta sull’Italianistica. Qui è possibile leggere la scheda di presentazione.
Oggi presentiamo due interviste ad Alessio Baldini e a Maria Anna Mariani. Entrambi, italianisti di formazione, contaminano i loro studi con interessi per la cultura contemporanea, le letterature comparate e la teoria letteraria. Baldini è Lecturer presso la University of Leeds. Mariani è Assistant Professor presso la University of Chicago, ma prima ha insegnato in Corea, presso la Hankuk University of Foreign Studies. Tra le pubblicazioni di Baldini, si segnala Dipingere coi colori adatti. «I Malavoglia» e il romanzo europeo, Quodlibet, Macerata, 2012; di recente lavora su Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Natalia Ginzburg e sul rapporto tra letteratura e morale. Maria Anna Mariani ha pubblicato Sull’autobiografia contemporanea. Nathalie Sarraute, Elias Canetti, Alice Munro, Primo Levi, Carocci, Roma, 2012; ora sta lavorando ad un libro sulla sopravvivenza.
VB: Vorrei che ci dicessi qualcosa su di te, in particolare spiegandoci perché sei andata/o all’estero?
Baldini: Da sei anni lavoro e vivo in Inghilterra. Attualmente sono Lecturer in Italian Culture alla University of Leeds. Più precisamente lavoro nella School of Languages, Cultures, and Societies (LCS). La LCS corrisponde all’incirca a quello che in Italia sarebbe un Dipartimento di Lingue Straniere. Con circa 2000 studenti e 140 docenti, si tratta di una delle più grandi School di lingue straniere del Regno Unito.
I miei principali campi di ricerca e insegnamento sono la teoria letteraria e la letteratura italiana moderna e contemporanea. Mi sono occupato a lungo di Giovanni Verga e adesso sto spostando la mia ricerca anche su autrici e autori del Novecento, come Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Natalia Ginzburg. Il mio interesse principale riguarda il rapporto fra letteratura e morale. Nella mia ricerca cerco di combinare una approccio filosofico e uno storico a questo tema. Uso la filosofia morale e l’estetica per articolare delle domande, ma poi mi interesso al modo in cui dei testi letterari rispondono a queste domande nel proprio contesto. L’idea è che alcune scrittrici e scrittori scrivano testi letterari per articolare e rispondere a questioni morali emerse nel tempo in cui hanno vissuto. Per me è quindi importante non solo l’architettura della morale, ma anche la sua storia, che è poi intrecciata con la storia politica e sociale di un paese. In fondo studio la letteratura come storia culturale, cioè come espressione di una certa mentalità e sensibilità morale storicamente collocate.
Mariani: Perché sapevo che in Italia l’accademia era ibernata e che se volevo entrarci avrei dovuto aspettare, forse inutilmente, per chissà quanto. Ero insofferente e sfiduciata, ma anche curiosa: e allora alla fine del 2010 me ne sono andata in Corea, a insegnare lingua italiana (e clandestinamente anche letteratura) alla Hankuk University of Foreign Studies. Ci sono rimasta per quattro anni e mezzo, vivendo in un dormitorio di cemento incastonato nella campagna coreana, a due ore d’autobus da Seoul – in compagnia di tanti professori attoniti quanto me, provenienti da ogni parte del globo: dalla Siberia alle Filippine.
Ora lavoro all’Università di Chicago, dove ho una libertà sterminata nella progettazione dei corsi che insegno e soprattutto nel fare ricerca. Sto scrivendo un libro sulla sopravvivenza, dove la letteratura si salda alla bio-politica e a quella famigerata disciplina dei Trauma Studies. Mi chiedo se il mio progetto potrebbe avere risonanza in Italia; dopo un istante di esitazione mi rispondo di no.
Qual è il rapporto fra didattica e ricerca nel tuo ateneo?
Mariani: All’università di Chicago sono stata assunta come Tenure-Track Assistant Professor e il sistema della Tenure enfatizza la ricerca: è questo il primo elemento che viene valutato durante le fasi di rinnovo (alla fine del terzo anno) e promozione (alla fine del sesto). I comitati che decidono se assegnarti la Tenure e dunque investirti del ruolo di Associate Professor, affrancandoti da quella condizione di Assistant che è ancora relativamente tremula, seguono una gerarchia dove al primo posto si stagliano i tuoi articoli e soprattutto il tuo libro, col suo strascico possibilmente sfavillante di recensioni. In seconda posizione si colloca l’insegnamento, certificato dalle valutazioni degli studenti, e infine la collegialità.
C’è chi dice che il sistema della Tenure penalizzi l’insegnamento, relegandolo a un’appendice del tuo lavoro. Come è invece inevitabile che sia, le due sfere entrano in osmosi e insegnare nutra la ricerca, che è messa alla prova nei seminari quando è ancora spesso vulnerabile e in abbozzo, diventando così immediatamente più consapevole, più intrisa di parole circospette. Direi che si anima, attraverso test quotidiani che potrebbero tanto disfarne le premesse quanto confermarne l’urgenza.
Baldini: Lavoro per un’università inglese di grandi dimensioni e per una School con tanti studenti che sono molto diversi per storie personali, traiettorie e aspirazioni. E questo significa che bisogna essere flessibili sul piano della didattica, perché questa deve rispondere a esigenze molto diverse. E questo vuol dire insegnare non solo in ambiti disciplinari di cui è specialisti, ma anche in ambiti disciplinari affini di cui si richiede di padroneggiare il dibattito su questioni rilevanti e pertinenti, anche se non di fare necessariamente ricerca. Ciò a volte può portare dei docenti anche a cambiare ambito di ricerca.
E il titolo del mio ruolo rispecchia questa flessibilità. Lecturer in Italian Culture si potrebbe infatti tradurre con “Ricercatore in Cultura Italiana”, che è una designazione abbastanza ampia. Mi capita infatti di insegnare non solo letteratura italiana e letterature comparate, ma anche lingua, cinema e storia contemporanea. Ho poi ideato e insegno un modulo sul Made in Italy, dove si studia cultura materiale, il consumo, l’italiano per la pubblicità e lo storytelling. Sono tutti ambiti disciplinari che sono tangenti lungo linee diverse ai miei interessi di ricerca principali, per sviluppare i quali è fondamentale una buona comprensione del funzionamento delle narrazioni e della storia della società italiana moderna.
Vorrei aggiungere che il mio ambito disciplinare di riferimento non è l’italianistica, ma gli Italian Studies, che si potrebbero tradurre con “studi di civiltà italiana”. L’italianistica infatti è l’insieme delle discipline storico-filologiche che si occupano della letteratura italiana, della sua storia e delle sue istituzioni. Come altre aree disciplinari che si occupano di lingue e culture straniere in Inghilterra, gli Italian Studies hanno da sempre incluso quasi tutto ciò che riguarda l’Italia, cioè la letteratura, le arti, la musica, il cinema, la cultura popolare e la storia.
Hai partecipato a progetti di ricerca finanziati con risorse pubbliche/private? In generale, come si modifica la tua ricerca in relazione ai concorsi che hai affrontato e al tuo ruolo di docente?
Baldini: In Italia avevo preso parte a un Progetto PRIN come assegnista di ricerca. È grazie alla partecipazione a quel progetto che ho potuto lavorare alla mia prima monografia e pubblicarla. Preparare domande per ricevere finanziamenti per i propri progetti di ricerca è una parte integrante del lavoro di qualunque ricercatrice o ricercatore oggi. In collaborazione con colleghe e colleghi, a Leeds ho ricevuto finanziamenti per progetti minori. È fondamentale che la mia ricerca possa essere la base per presentare domande di finanziamenti di ricerca più importanti.
Mariani: Finora non ho mai avuto l’esigenza di plasmare la mia ricerca per conformarla a un bando, visto che i concorsi a cui ho partecipato non lo richiedevano. In America i ricercatori non hanno bisogno di cercare finanziamenti esterni per portare avanti i propri progetti. Il sistema della Tenure ha però esigenze rigide, e bisogna essere molto cauti e scaltri nella scelta delle sedi di pubblicazione (privilegiando in assoluto le riviste peer-review). Ogni frammento di scrittura pubblicato sarà valutato durante il rinnovo, ed è questa costante proiezione verso l’istante del verdetto che produce l’impatto più vistoso sulla ricerca.
Culturalmente parlando, l’essere italianista all’estero quali vantaggi e quali svantaggi ti ha dato? Torneresti a lavorare e a fare ricerca in una università italiana?
Mariani: Di vantaggi me ne ha dati tantissimi. La lista che mi viene in mente adesso include quelli che si accumulano quando si fuoriesce dal proprio territorio e ci si addentra nell’altrove. E dunque: nuovi apporti, nuovi stimoli, nuovi contatti-conoscenze-lingue-abilità. E poi la possibilità di gettare uno sguardo obliquo e sempre un po’ straniato sull’italianistica come categoria.
Limitandomi alla Corea, posso dire che quell’esperienza mi ha portato a concepire la letteratura italiana come un territorio inesplorato, perché i testi letterari (quando riuscivo a insegnarli) erano esposti a una radicale alterità, collocati in uno spazio privo di ogni pregiudizio ermeneutico, e rinnovati sotto gli occhi di pionieri stupefatti. Davanti a un circolo ermeneutico mutilo ho cominciato a non dare nulla per scontato, proprio nulla. Mi rendo conto di quanto suoni ingenuo e orientalista questo discorso, eppure è così che è successo, e davvero il mio approccio alla letteratura italiana è cambiato, dandomi credo – o dandomi spero – una sensibilità diversa.
Più stringata la lista degli svantaggi, anche se credo che il peso specifico di uno svantaggio sia maggiore rispetto a quello di un vantaggio – e allora in fondo le due liste sono simmetriche. In Corea il problema maggiore era un friabile contratto annuale, rinnovabile all’ultimo minuto, che accentuava il senso di precarietà alienata sperimentato da chi vive altrove. Fare ricerca poi non era semplice, soprattutto accedere materialmente ai testi che mi servivano. Quello che più mi turbava era forse la sensazione di essere molto ai margini, anzi: di essermi proprio auto-espulsa dalla cornice.
A Chicago è tutto molto diverso e insegnare qui è un autentico privilegio. Gli studenti americani sono molto più inclini al dialogo, anche se condividono meno testi con il docente rispetto a quel che accadrebbe in Italia. Ma dubito che tornerei in Italia, dove la mia ricerca non sarebbe altrettanto incoraggiata.
Baldini: Non credo che potrei fare il tipo di ricerca che faccio oggi se fossi rimasto in Italia. Anzitutto non so se avrei mai avuto la libertà e la fiducia di perseguire una linea di ricerca che in Italia non è molto diffusa nell’italianistica. Fra le ragioni per cui volevo lavorare in una università anglosassone c’era proprio l’interesse per l’ethical turn negli studi letterari e per l’estetica e la filosofia morale in lingua inglese. Nella mia formazione e fra le mie passioni culturali c’erano prima la filosofia e teoria letteraria tedesche e francesi. Per questo avevo fatto l’Erasmus a Berlino e il periodo all’estero del dottorato a Parigi. È dopo avere letto The Fragility of Goodness di Martha Nussbaum che tutto è cambiato e per la prima volta ho pensato che avrei voluto fare un’esperienza in un’università di lingua inglese. Può sembrare un cliché romantico dire che un libro possa cambiare la vita – è certo raro e non necessariamente un bene, ma è quello che mi è capitato.
Anche il mio modo di guardare alla storia e alla letteratura italiana contemporanee è influenzato dagli Italian Studies. In ambito storico sono importanti per me studi pubblicati in lingua inglese sul Risorgimento, la questione meridionale e l’identità italiana, l’Italia fascista, il femminismo e la storia delle donne in Italia. In ambito letterario considero fondamentali le ricerche su etica e letteratura in Primo Levi, quelle sulle donne scrittrici. Più in generale mi interessa il canone della narrativa italiana moderna elaborato e proposto nel mondo anglosassone e che è sia pluralista sul piano di gender ed etnico, sia più centrato sulla tradizione del romanzo.
E dal punto di vista dei mie interessi di ricerca la Faculty of Arts di Leeds, di cui fa parte anche la LCS, è un ambiente di lavoro ideale, perché mi permette di collaborare con colleghe e colleghi di italiano e quelli che studiano varie letterature nel Centre for World Literature; e posso dialogare con filosofe e filosofi che si occupano di morale ed estetica. E mi sento privilegiato a poter partecipare ai seminari organizzati dal Centre for World Literature, dal Centre for Aesthetics e dal Centre for Ethics and Metaethics.
Con quali strumenti segui il dibattito critico e culturale in Italia? I tuoi riferimenti sono cambiati nel corso di questi anni?
Baldini: Grazie a internet, è diventato facile seguire il dibattito culturale in Italia. Quotidiani e periodici generalisti, riviste specializzate e accademiche, radio e televisione sono facilmente accessibili online. A questo vanno aggiunti i blog pubblicati direttamente online e i social network, grazie a cui mi posso tenere aggiornato. Mi capita poi spesso di tornare in Italia per fare ricerca o partecipare a convegni e seminari.
Mariani: Seguo moltissimo i blog e le riviste online. Oltre alla letteraturaenoi, quasi tutti i giorni consulto leparoleelecose, illavoroculturale, doppiozero, nazioneindiana, minimaetmoralia, alfapiù.
Come vivi il dibattito sulla crisi dell’Europa e sulla possibile fine degli accordi Schengen?
Mariani: Con estrema ansia e scoramento, ma non ho la competenza necessaria per produrre un’analisi e preferisco non dare voce alle mie inquietudini se non sono legittimate da un ragionamento lucido, consapevole, finalizzato.
Baldini: Due mesi fa la Gran Bretagna ha votato per uscire dall’Unione Europea. La crisi dell’Europa è per me un tema concreto che ha a che fare con la mia vita personale, il mio lavoro e i miei diritti. Ed è chiaro che sono preoccupato. Ma sono preoccupato anche per le conseguenze che un’eventuale rottura decisa fra la Gran Bretagna e l’Unione Europea potrebbe avere sul sistema universitario britannico, a partire dalle opportunità per gli studenti fino alla possibilità di accedere a fondi di ricerca. Sono fra uno dei firmatari di una lettera scritta da Florian Mussgnug, Reader in Italian and Comparative Literature al University College London e inviata al presidente del Consiglio dei Ministri Renzi. (http://www.repubblica.it/esteri/2016/07/06/news/cento_docenti_italiani_a_londra_lettera_a_renzi_il_governo_italiano_ci_aiuti_-143523814/)
È chiaro che a essere in pericolo è l’intero progetto politico dell’Unione Europea. E questo è molto grave. Il processo di costruzione di un’Europa unita è il futuro per l’Europa, come lo erano i processi di costruzione degli stati nazionali europei nel XIX secolo.
Immagine: Marco Ceroni, 102mq, azione, 60.00, Artissima (2015), courtesy dell’artista.
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