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Italianisti fuori dall’Italia. Inchiesta su una disciplina vista “da fuori”/3

 A cura di Valentino Baldi

Terza settimana per l’Inchiesta sull’italianistica. Oggi rispondono alle domande Maddalena Graziano e Cristina Savettieri.

Graziano ha studiato in Olanda, all’Università di Siena, la Freie Universität Berlin (Peter Szondi-Institut) e alla University of Chicago (Department of Germanic Studies). È dottoranda in letterature comparate alla Friedrich Schlegel Graduiertenschule a Berlino.

Savettieri ha studiato e lavorato in Italia all’Università di Pisa, all’Università per Stranieri di Siena e alla New York University a Firenze. Dal 2011 al 2013 ha vissuto a Berlino e lavorato alla Freie Universität Berlin come Alexander von Humboldt Forschungsstipendiatin. Attualmente vive e lavora a Edimburgo dopo aver ricevuto una Marie Skłodowska-Curie Fellowship dalla Commissione Europea.

La scheda di presentazione dell’inchiesta si può ritrovare QUI. Le precedenti risposte si possono trovare qui e qui.

Perché sei andata all’estero?
 
Graziano: Le ragioni si dividono in un 50% di responsabilità personali (desiderio di avventura e cambiamento) e un 50% di ‘forza delle circostanze’, che distribuisce destini (dopo la laurea, il primo posto di dottorato retribuito che ho vinto era in Germania, non in Italia). Durante il dottorato ho trascorso un periodo come visiting student a Chicago.
 
Savettieri: Sono al mio secondo soggiorno all’estero. Il primo si è svolto tra il 2011 e il 2013 a Berlino presso la Freie Universität, il secondo è iniziato nell’estate del 2015 all’Università di Edimburgo. In entrambi i casi ho fatto domanda per ottenere dei fondi di ricerca perché non ero sicura di poter continuare a lavorare in Italia.
 
Qual è il rapporto fra didattica e ricerca nel tuo ateneo?
 
Savettieri: Io lavoro quasi esclusivamente come ricercatore, essendo il mio posto finanziato dalla Commissione Europea per portare a termine un progetto di ricerca da me presentato. Ho fatto anche un po’ di didattica ma su base volontaria. In generale, comunque, direi che la didattica (non solo le lezioni vere e proprie, ma anche i ricevimenti, gli esami e la loro correzione) occupa una percentuale consistente del tempo di un docente. A questo vanno aggiunti gli incarichi amministrativi, la cui quantità può variare, ma che in generale restano una parte molto impegnativa del lavoro del docente.
 
Graziano: La FU coltiva l’unione di «ricerca e insegnamento», come tutte le università tedesche. I dottorandi qui spesso devono insegnare oppure, pur non essendovi obbligati perché dotati di borsa di studio (è il mio caso), sono molto incoraggiati a farlo. Per i dottorandi internazionali si pone il problema di dover insegnare quasi sempre in tedesco: i corsi in italiano sono rari e hanno pochi studenti. Spesso i contenuti dei seminari sono proposti dai dottorandi, che così possono fare lezione su argomenti centrali anche per la loro ricerca. È un lavoro difficile, ma arricchente: si impara per esempio a usare materiali nuovi (scoprendo i manuali universitari tedeschi) e a insegnare in un modo per noi italiani inconsueto (animando discussioni seminariali con poche spiegazioni ‘frontali’, cercando di valorizzare i contributi di ciascuno).
 
Hai partecipato a progetti di ricerca finanziati con risorse pubbliche/private? In generale, come si modifica la tua ricerca in relazione ai concorsi che hai affrontato e al tuo ruolo di docente?
 
Graziano: Il mio progetto di dottorato è di tipo comparatistico, ma ho accentuato il ‘lato italiano’, per potermi forse un giorno candidare come italianista in altri paesi. E dopo un processo decisionale e burocratico durato alcuni mesi, ho smesso di scrivere la tesi in tedesco e ho ricominciato in italiano. Per uno straniero è quasi impossibile ottenere un posto a tempo indeterminato nell’università tedesca, perciò è inevitabile lasciare la Germania se si vuole affrontare la cosiddetta carriera accademica. Scrivere in tedesco sarebbe stato – oltre che una tortura – una pessima scelta strategica.
 
Savettieri: Il mio primo soggiorno in Germania è stato finanziato dalla fondazione Alexander von Humboldt, che gode di finanziamenti pubblici e privati. L’attuale Marie Skłodowska-Curie Fellowship è finanziata dalla Commissione Europea nell’ambito del programma di ricerca Horizon 2020.
In entrambi i casi la natura dei finanziamenti non ha minimamente influito sul mio lavoro di ricerca: ho avuto e tuttora ho la massima libertà nel gestire i miei fondi e nell’organizzare il mio lavoro. Certamente quando ho fatto domanda per la Marie Skłodowska-Curie Fellowship ho considerato attentamente le linee guida generali di Horizon 2020 e le priorità di ricerca e innovazione che la Commissione Europea ha fissato per il periodo 2014-2020. Ogni schema di finanziamento ha caratteristiche specifiche ed è necessario, per ottenere fondi, riadattare i propri interessi di ricerca, obiettivi e metodi al linguaggio spesso molto tecnico con cui le domande di finanziamento sono scritte.
 
Culturalmente parlando, l’essere italianista all’estero quali vantaggi e quali svantaggi ti ha dato?
 
Savettieri: In Germania ho lavorato come comparatista in uno dei primi dipartimenti di comparatistica fondati in una università europea, il Peter Szondi-Institut della Freie Universität Berlin, dal 2005 intitolato appunto allo studioso ungherese che ne fu docente fin dalla fondazione. La qualità e vastità delle risorse bibliotecarie berlinesi e la varietà intellettuale dell’ambiente della Freie mi hanno offerto moltissimi stimoli e direi nessuno svantaggio. Nel Regno Unito, dove attualmente lavoro, c’è una italianistica molto consolidata al suo interno, soprattutto sul versante degli studi storici e culturali. Ho dunque il vantaggio di poter svolgere un progetto di ricerca di taglio spiccatamente culturale in un contesto che recepisce molto bene studi di questo tipo e che, a sua volta, mi consente di tenermi molto aggiornata.
 
Graziano: Mi sembra che sul piano intellettuale e umano vantaggi e svantaggi si implichino a vicenda.
La mia esperienza è segnata dal fatto che sono iscritta al Peter Szondi-Institut, non a italianistica; in più mi sono vietata a lungo di indulgere in frequentazioni italiane e ho coltivato rapporti con colleghi di ogni nazionalità, ma possibilmente non della mia (oggi sono più assennata e meno hard core di una volta). Da qui discendono molti vantaggi: sono stata investita da impulsi intellettuali di ogni sorta, letture che altrimenti con ogni probabilità non avrei mai sfiorato e che in qualche caso sono state decisive, perché hanno offerto un’espressione articolata a intuizioni confuse che avevo sempre avuto (per esempio ho scoperto Cavell e la galassia dell’ethical criticism). Un grande dipartimento di comparatistica nel cuore dell’Europa sembra un po’ un campione della contemporaneità globale, distillata nella sua dimensione intellettuale e linguistica. Ogni settimana colleghi da tutto il mondo presentano in tedesco o inglese i loro progetti di ricerca: su romanzieri russi ancora mai tradotti, sull’Aufklärungsaufsatz di Kant, su scrittrici contemporanee giapponesi, un mistico arabo del Medioevo, un novelliere brasiliano degli anni Settanta o il dadaismo in Romania. Da tutto ciò la mia cultura generale ha tratto grande giovamento; il mio ordine mentale invece ha subito dei contraccolpi da cui non si è ancora ripreso.
Qui si apre la corolla delle difficoltà: come posso calibrare l’equilibrio tra apertura e disorientamento? Lasciarsi ‘deterritorializzare’ è meraviglioso e terrificante. Come ricavare un fragile ma prezioso fazzoletto di terra stabile su cui poggiare i piedi per poter scrivere e pensare coerentemente? E poi, per chi si scrive e si pensa? Il pubblico è quello eterogeneo e multilingue della mia università, a cui mi rivolgo in tedesco e che in molti casi proviene dalla Russia, dall’Asia o dal Sudamerica e non ha mai sentito nominare Svevo o letto qualcosa di Leopardi? O sono gli italianisti rimasti in Italia o sparsi in qualche altra università del mondo? Poi c’è la questione della lingua, che è uno dei problemi più radicali e dissestanti della vita all’estero – almeno per me. Forse perché il tedesco è una lingua prevaricatrice e umiliante (si legga il capitolo Deutsch am Genfer See dell’autobiografia di Canetti).
Insomma, mi sembra che le mie difficoltà riguardino gli sforzi (ancora inconclusi) per ritagliarmi una piccola autonomia intellettuale in un contesto denso, ma anche disarticolato e privo di fondamenta forti. Però chissà: forse venendo esposti a questo uragano intellettuale si è anche costretti a riflettere molto su di sé, su che cosa si vuole trattenere e che cosa si vuole disperdere, e il prodotto di questa vertigine sarà magari un’identità balbettante e variabile, ma un po’ più consapevole di se stessa.
 
Con quali strumenti segui il dibattito critico e culturale in Italia? I tuoi riferimenti sono cambiati nel corso di questi anni?
 
Graziano: Seguo alcuni blog e parlo con gli amici italiani che studiano o lavorano all’università. È anche davvero utile che diverse riviste carichino tutti o parte dei loro articoli online (dovrebbe avvenire più spesso). Un altro strumento di cui sono grata sono gli e-book: da quando sono all’estero hanno cominciato a formare una parte consistente della mia biblioteca.
 
Savettieri: Uso fondamentalmente la rete per seguire le cose che mi interessano nel dibattito italiano. Cerco di leggere alcuni blog e riviste online regolarmente e, grazie alle risorse elettroniche bibliotecarie della mia università, ho accesso a un numero molto ampio di riviste accademiche italiane. Ho molti contatti con colleghi italiani, seguo il loro lavoro e leggo le cose che pubblicano. Certe volte però, soprattutto per quel che riguarda le polemiche, mi pare di non avere del tutto il polso della situazione. Non uso i social network.
I miei riferimenti culturali sono certamente cambiati nel corso degli ultimi anni: leggo molto di più libri, quotidiani e riviste in altre lingue, seguo il lavoro dei colleghi nel Regno Unito e mi sforzo di capire il contesto in cui mi trovo, per cui quelle italiane sono solo alcune delle coordinate di riferimento essenziali nel mio lavoro di ricerca.
 
L’esperienza che stai vivendo ti ha influenzato nella lettura di alcuni fenomeni contemporanei? Penso soprattutto all’enorme questione dei migranti che giungono in Europa dal Sud o dall’est del mondo?
 
Savettieri: Da immigrata – in una posizione comunque di privilegio – posso dire di avere sviluppato una istintiva e assoluta repulsione per qualunque manifestazione di razzismo a bassa intensità, quello che quotidianamente si pratica in maniera inconsapevole usando stereotipi e semplificazioni frettolose su culture diverse dalla nostra. Non ho competenze per parlare della crisi dei rifugiati e ho troppo rispetto verso chi rischia di morire attraversando il Mediterraneo per presumere di poter avere qualcosa di significativo da dire solo perché ho anche io lasciato il paese in cui sono nata.
 
Graziano: La mia esperienza non mi dà strumenti particolari per leggere i fenomeni migratori: la mia condizione e quella di chi fugge per avere salva la vita non sono comparabili. Non mi sento una ‘migrante’, parola che per le sue connotazioni mi sembra troppo drammatica per descrivere la mia vita; mi limiterei a ‘straniera’, ospite grata ma circospetta, perplessa e inevitabilmente goffa. Sono stata deposta in questa accogliente città da un aereo; anche se tra sforzi e errori, e con una certa dose di solitudine e sofferenza, afferro e in qualche modo padroneggio le lingue e i mondi in cui sono immersa, e posso goderne; non vengo gettata sulle loro rive in preda alla disperazione, non li percorro ignorandone le grammatiche, profondamente alienata e con ricordi di violenza. Contro di me non vengono eretti muri o schierati poliziotti; al massimo qualche vecchio prussiano imbronciato si lamenta perché parlo in italiano troppo forte. Quando questo accade, mi accorgo con stupore che la mia presenza, lingua e gesti possono risultare perturbanti a qualcuno – cosa che prima non mi era mai successa. Immagino che sia quello che provano molti migranti in modo più grave e esteso.
 
Come vivi il dibattito sulla crisi dell’Europa e sulla possibile fine degli accordi Schengen?
 
Graziano: Ho ascoltato le notizie sulla Brexit alla radio insieme a una famiglia berlinese a cui voglio molto bene e che in questi anni mi ha ‘adottata’, mentre facevamo colazione nella loro casa su un’isoletta del Baltico tutta sabbia, ribes e betulle (si dice che le spiagge della metà polacca dell’isola siano quelle di Effi Briest). In quel momento vivevo l’Europa come una dimensione attuale, radicata, a volte complicata e dolorosa, fonte di mille sottili malintesi quotidiani, ma anche inseparabile da ogni mia esperienza. Naturalmente, però, la crisi dell’Europa coinvolge aspetti ben più intricati della mia semplice vita di adorante amica di famiglie berlinesi e appassionata lettrice di Effi Briest, aspetti così intricati che qui finirei per dire solo banalità o sciocchezze, perciò taccio.
 
Savettieri: Vivo da cittadina europea nel Regno Unito che, oltre a non aver mai aderito agli accordi di Schengen, un paio di mesi fa ha votato a favore dell’uscita dall’Unione Europea. Il voto britannico è stato traumatico per i cittadini europei residenti qui, anche perché esito di una campagna referendaria in cui sono stati usati argomenti razzisti e identitari molto aggressivi. Da persona che ha vissuto in tre paesi europei (l’Italia, la Germania e il Regno Unito) e che è, per ragioni familiari, legata a un quarto paese del continente (la Francia), la crisi dell’Europa è prima di tutto una minaccia, molto dolorosa, alla maniera in cui ho costruito e alimentato le mie relazioni umane, le mie esperienze culturali e la mia vita intellettuale e professionale. Superando questa sensazione di minaccia, che è comunque primaria, posso dire che guardando da questa prospettiva all’Unione Europea sono sempre più convinta della necessità di perseguire la “ever closer union”. L’idea di un ritorno agli stati-nazione e alle pedagogie nazionali identitarie mi sembra un incubo.
 
In quale senso la condizione dell’espatrio può essere umanamente, socialmente e culturalmente produttiva oppure improduttiva o deprivativa?
 
Graziano: Penso che la «condizione dell’espatrio» sia produttiva e deprivativa insieme, e soprattutto produttiva in quanto deprivativa. Ci arricchisce nella misura in cui ci spoglia (tralascio la spinosa questione degli effetti del fenomeno sulle società di partenza e quelle di arrivo; mi limito a parlare della dimensione ‘umana’). Vivere all’estero mi sembra un grande ammaestramento all’umiltà: impartisce lezioni di debolezza. Si impara ad accettare che la vita sia tutta una esplorazione di sempre nuove frontiere dell’umiliazione e si acquisisce una intimità sconsiderata con l’esperienza dell’errore (la prima umiliazione essendo sempre quella linguistica). Sono convinta perciò che si possa trarre da questa debolezza una forza e da questo senso di eradicazione una ricchezza.
 
Savettieri: Non credo si possa rispondere a questa domanda in astratto. Facendo un bilancio di questi anni fuori dall’Italia, non posso dire che la mia esperienza sia stata deprivativa o improduttiva. Come è la vita nella sua alternanza di curve positive e negative, così anche per me ci sono stati momenti, contesti e situazioni più arricchenti e altri meno entusiasmanti. Ho vissuto e tuttora vivo da immigrata in una posizione di privilegio, senza conoscere nessuna delle asprezze che molti immigrati, qui nel Regno Unito, si trovano a dover affrontare, o perché non sono lavoratori qualificati, o perché appartenenti a gruppi nazionali talvolta mal tollerati (ad esempio i cittadini dall’est Europa) o perché non abbienti. Per chi arriva in un paese straniero in queste condizioni quella dell’espatrio si può configurare come un’esperienza di deprivazione umana. L’esperienza di una studiosa italiana che deve integrarsi in un altro paese europeo e in un nuovo sistema universitario può ovviamente avere momenti molto faticosi, dati da difficoltà oggettive – la burocrazia, la lingua, usi e stili di vita diversi – e ragioni soggettive – nostalgie, solitudine, insicurezze personali – ma difficilmente, a meno di casi eccezionali o contesti particolarmente chiusi, queste fatiche e difficoltà arrivano a coincidere con un senso di deprivazione.

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