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Come mucche nel prato. Su Universitaly di Bertoni

Universitaly. La cultura in scatola, il libro di Federico Bertoni uscito per Laterza lo scorso maggio, si inserisce, forse malgré soi, in quello ch’è ormai un genere. Da University in Ruins di Bill Readings, un classico della letteratura catastrofica sull’università – detto senza alcuna ironia – molto e giustamente presente anche nello stesso libro di Bertoni, sono passati ormai quasi vent’anni. Impossibile tenere conto della massa di articoli e libri comparsi da allora. Solo negli ultimi mesi e a breve raggio bisogna registrare almeno, tra gli studi monografici più seri, Università in declino. Un’indagine sugli atenei da Nord a Sud di Gianfranco Viesti (Donzelli, 2016) eLa destruction dell’universitè francaise di Christophe Granger (La Fabrique, 2015). Col suo scintillante saggio Bertoni sfida così una saturazione che minaccia di irrilevanza anche considerazioni tutt’altro che deboli o inflazionate, con un’incoscienza che – se si volesse dare per buona la coincidenza oggi sempre più accettata tra calcolo razionale e responsabilità morale – ha persino dell’immoralità (immoralità tanto più immorale allorché, parlando di università e di università in Italia, si accenna soltanto poco, anzi a malapena, a ciò che invece di regola più eccita l’attenzione: corruzione, localismo, arretratezza… il catalogo è noto).

Un segnale più che incoraggiante a non lasciare cadere questa sfida Bertoni l’aveva ricevuto però poco prima dal consenso virale, davvero straordinario, riscosso da un suo articolo sul blog Le Parole Le cose: Microfisica della bêtise. Come distruggere l’università e vivere felici, che, come lo stesso Bertoni ricorda, ebbe migliaia e migliaia di visite sul sito, tremila likes, moltissimi commenti, rilanci su altri siti o social networks, l’apertura della Terza pagina di Radio Tre dell’indomani, numerose e-mail private di apprezzamento»  (p. 41). Ricordo bene quell’intervento, matrice originaria del libro che ora leggiamo, perché mi colpì subito la coincidenza del titolo con quello di una relazione su bêtise e valutazione che avevo tenuto qualche mese prima all’università di Catania. Coincidenza che avverto rispetto a molti argomenti di Bertoni: dico gli argomenti, perché riguardo alla forma espressiva, invece, avverto un irrimediabile senso di inferiorità, trattandosi di un libro scritto come meglio non si potrebbe, talmente bene che miracolosamente chi lo legge poi lo posa contento e non così sconfortato come tutto quel che ha appreso dovrebbe potarlo ad essere.

 Proprio la nozione di bêtise – una bêtise che sempre più chiaramente risalta come cifra del tempo – mi pare rappresentare il filo rosso che tiene insieme le diverse questioni che si agitano in Universitaly. «Perché un luogo di elaborazione e di trasmissione della conoscenza diventa uno straordinario concentrato di stupidità?»  (pag. 36) chiede Bertoni. Il libro data l’inizio della “mutazione genetica” dell’Università a partire dalla cosiddetta riforma Berlinguer («In principio erano due numeri, anzi un’addizione: il 3+2», pag. 12), la quale rappresenta effettivamente il colpo d’avvio dell’intero processo che oggi viviamo (ma con alle spalle, si può aggiungere, l’introduzione della “autonomia” ad opera di Ruberti – l’inizio della fine, come lucidamente denunciò il movimento della Pantera, a dispetto di rassicurazioni miopi o in malafede dell’intera sinistra accademica, allora egemone nell’università… incidentalmente: la vicenda dell’università getta una luce sulle stesse trasformazioni della sinistra in questo torno di anni). Per descrivere questa mutazione, la categoria della bêtise mostra una indubbia efficacia interpretativa e fenomenologica. A patto, però, di mantenerne ferma la distanza dalla stupidità pura e semplice: la stupidità innocente o, se anche non innocente, comunque semplicemente stolida. La bêtise difatti non è il semplice opposto dell’intelligenza; essa è anzi «la forma stessa del nostro pensiero», come dice Bertoni richiamando il concetto flaubertiano nonché la «stupidità intelligente» di Musil. E tuttavia, se anche è vero che sempre nella bêtise stupidità e intelligenza si ritrovano in fondo annodate, l’una sostegno dell’altra, oggi questo legame caratteristico presenta una curvatura tale da proiettarci fuori dallo spettro delle normali «leggi della stupidità»  (quelle che, riprendendo con Bertoni Cipolla, costituiscono «un fattore endemico di tutte le società, una sorta di costante algebrica, una funzione invariante che produce danni a tutti senza apportare un vero vantaggio a chi le esercita”, pag. 36). Se si parla di «microfisica della bêtise», d’altronde, è evidentemente perché non sfugge il suo legame con le attuali forme di potere e di governo. E’ in questa chiave dunque che tocca «penetrare più a fondo la logica del sistema analizzandone forme linguistiche e strutture ideologiche» (pag. 36).

Il pensiero o la ragione cui la bêtise si trova annodata, non è difatti la ragione in generale, ma, indipendentemente da quanto illuminismo vi sia in essa, piuttosto, per dirla col fortunato titolo di Dardot e Laval, «la nuova ragione del mondo»[i], la «ragione governamentale»  che ha illuminato le politiche neoliberali dagli anni Ottanta del secolo scorso in poi. Così anche l’attuale ordine (o disordine) universitario va letto, in verità, non come l’esito spontaneo di forze lasciate più o meno a loro stesse, ma come il risultato di una “tecnologia di governo” attenta e di lungo periodo, cui al momento, pur con tutti i fallimenti sempre più estesi e evidenti, sembra non sapersi opporre alternativa di paragonabile forza e tenuta. Dirlo può certamente attirare accuse di complottismo (accuse che tendono ad aver tanta più presa quanto più s’ignora il quadro teorico che le sostiene). In proposito lo stesso Bertoni è cauto; cita De Lillo: «Alcune persone preferiscono credere nella cospirazione perché percepiscono con ansia gli atti casuali. Credere nella cospirazione è quasi rassicurante perché, in un certo senso, una cospirazione è una storia che ci raccontiamo a vicenda per sventare il timore degli atti caotici e casuali. La cospirazione offre coerenza» . E poi aggiunge: «Purtroppo, o per fortuna, non è il mio caso. Penso che sarebbe sciocco e anche deresponsabilizzante affidarsi a una chiave ermeneutica come questa, soprattutto nella sua versione più ingenua e narrativamente convenzionale, quella del ‘grande vecchio che tira i fili dall’alto’» (pag. 95). Nessun discorso critico genealogicamente avvertito, in effetti, potrebbe pensare ad una ragione, alla coerenza (persino ridicola) di un piano ordito dall’alto. Né, va da sé, ci si può aspettare che senso e ragione di quanto è accaduto e accade presentino la compattezza e la linearità che può esibire unicamente l’insularità estetica di eventi raccolti in racconto (cfr. pagg. 49-50). Ma tutto questo niente toglie, però, alla possibilità di ricostruire con precisione genealogica e storica la coerente e teorizzata trasformazione che ci ha condotti dove ci troviamo.

E’ qui che «il cuore della domanda»  sollevata da Bertoni – come mai quello che è concepito per essere uno dei luoghi di maggiore concentrazione dell’intelligenza si converte in uno straordinario concentrato di stupidità – incontra il nodo in senso stretto politico della questione, incrociando nel modo più efficace il racconto di colui che dice Io, ossia l’esperienza vissuta che funge da cifra stilistica di un libro scritto in risposta a un bisogno politico sentito «fisicamente», e l’arma della critica, del «saggio di critica culturale» e della «analisi politica» (pagg. VII-VIII). A questo livello però la scelta dichiarata di rinunciare al «discorso teorico-dottrinale» e ai «dettagli tecnici» espone a qualche rischio: molto si guadagna in presa e coinvolgimento, ma qualcosa si perde. Fin tanto che resta soltanto un’immagine narrativa, la bêtise facilmente si confonde, o politicamente sfuma, nelle tinte della pura e semplice insensatezza, e ciò lascia scoperto il fianco a chiunque voglia – e molti lo vorrebbero – indebolire e intorbidire l’immagine perfettamente tracciata dal libro. Diverso se si riconosce la stupidità come l’altra faccia di una ragione governamentale che tutto fa salvo che improvvisare: la governamentalizzazione, come si sa, «comporta non una riduzione della sovranità o delle capacità di pianificazione dello Stato, ma uno spostamento da tecniche di governo formali a informali e la comparsa sulla scena del governo di nuovi attori»[ii]; la stessa esistenza di uno «stato valutatore»(nozione di Guy Neave[iii] ormai divenuta canonica, di fatto mutuata anche da Bertoni) mostra con chiarezza da prova fisico-teleologica, ma con ben altrimenti solida falsificabilità empirica, come sia un errore leggere la situazione attuale nei termini di una totale mancanza di direzione. Una rappresentazione del genere, che sfilaccia la ragione governamentale in un’inestricabile “matassa” di dispositivi e processi anonimi (mercato, regime imprenditoriale e così via), rischia di confondersi proprio con l’autorappresentazione che il (neo)liberalismo offre di sé, rassegnandosi alla fine – nemesi del frame stesso contro cui si erano prese le armi – ad un’incoercibile stupidità catallattica.

Fuori dall’aut aut tra disegno intelligente e cieco caso, un articolo uscito poco tempo sul blog Science in the Open riassumeva la questione stupidità/intelligenza nel governo dell’università con un’immagine che penso piacerebbe a Bertoni. «Quando le persone intelligenti fanno cose stupide – scrive Cameron Neylon – vale la pena di guardare più da vicino. La cosa stupida di solito viene fatta per una ragione intelligente. Potremmo anzi muovere un passo oltre e suggerire che, là dove un sistema è popolato in gran parte da persone intelligenti, la percentuale di cose stupide che essi fanno potrebbe rappresentare un buon elemento diagnostico di quanto bene il sistema faccia ciò per cui è progettato […]. Su questa base potremmo interrogarci circa lo stato di salute di molte università»[iv]. Insomma, nonostante effetti che si fatica a non rigettare come espressione di semplice demenza, un inebetimento che si estende da Singapore a Coimbra non trova evidentemente la sua giusta chiave di lettura nel semplice collasso strutturale delle facoltà raziocinanti del ceto accademico. E’ allora chiaro che la nozione di bêtise va approfondita secondo un’accezione in grado di tenere sistematicamente insieme, senza che un lato smentisca l’altro, il carattere affatto razionale delle politiche governamentali in atto e l’effetto soggettivo e oggettivo di alienazione che esse determinano.

In Etats de choc. Bêtise et savoir au XXIè siècle, testo significativamente impegnato anche in una riflessione sull’università e le sue responsabilità, Bernard Stiegler propone per questo il concetto di «bêtise sistemica» Una volta riconosciuta la stupidità nella sua forma di sistema, ecco che cifre, formule, griglie, il vortice di numeri e classifiche in cui affoghiamo si rivelano segnali non di semplice inebetimento (o rincoglionimento come anche si è detto[v]) ma congegni di un governo numerico della conoscenzasystème technologique numérique»[vi]), finalizzato all’incremento della produttività in un’economia basata sulla conoscenza. E’ proprio l’immediata produttività raggiunta dal sapere a mettere oggi fuori gioco il sapere medesimo. In quanto immediatamente produttivo di plus-valore, il sapere scompare come plus-sapere, tolta ogni eccedenza, esso sopravvive soltanto nella forma ridotta e depurata di unità minime di informazioni immediatamente scambiabili, fuori da ogni legame con la formazione e l’individualità. Come già previsto da Lyotard nel Rapport sur l’état du savoir del 1979, nel nuovo assetto «il sapere […] può circolare […] e divenire operativo solo se si tratta di conoscenza traducibile in quantità di informazione”; “tutto ciò che […] non soddisfa tale condizione sarà abbandonato […]; l’orientamento delle nuove ricerche sarà condizionato dalla traducibilità in linguaggio-macchina degli eventuali risultati”, con la conseguenza di una “radicale esteriorizzazione del sapere rispetto al ‘sapiente’, qualunque sia la posizione occupata da quest’ultimo nel processo della conoscenza»[vii].

Esattamente questo è, ora, ciò che si mostra come «bêtise sistemica»: una «standardizzazione dei comportamenti […] e meccanizzazione degli spiriti mediante l’esteriorizzazione dei saperi nei sistemi, per cui tali ‘spiriti’ non sanno più niente di […] dispositivi […] che essi non fanno nulla più che parametrare», così come esemplarmente accade nella «matematizzazione elettronica della decisione finanziaria»[viii]. Un’autentica espropriazione dell’intelligenza – una “proletarizzazione” del pensiero, dice Stiegler – dove il sapere è interamente assorbito dalla macchina e i soggetti, privati di ogni autonoma capacità di discernimento e giudizio, sono disindividualizzati in pura forza-lavoro. Di qui lo stato di minorità, appunto la bêtise propriamente umana, in grado di assicurare processi ottimizzati di valorizzazione, flussi logistici liberi dagli impedimenti e dalle incertezze dovute all’insuperabile aleatorietà dell’elemento individuale. In un altro linguaggio (Uexkull) si potrebbe parlare di irretimento in un Bauplan e di riduzione dell’animale uomo ad Antwortmaschine – macchina a risposta, incaricata della risoluzione univoca e appropriata di un problema (problem solving).

«Organi del cervello umano creati dalla mano umana» (Marx), le macchine rappresentano, come capacità scientifica oggettivata, l’ideale (oltre che la realtà) della conoscenza immediatamente produttiva. Tuttavia, organi del cervello umano e cervello umano non sono la stessa cosa. Quest’ultimo – con e parafrasando Deleuze – lo si potrebbe anzi dire un cervello senza organi, dis-organizzato. Proprio questo vuoto di organizzazione contraddistingue l’intelligenza umana come un centro di indeterminazione, che rispetto alla prontezza di (ri)cognizione dell’animale non umano si caratterizza per la capacità di compiere azioni «non concatenate» all’azione subita, per «una sorta di inconsequenzialità». Il cervello umano è così appunto «l’intervallo tra stimolo e reazione […]. Un cervello, altro non è che del vuoto […], un lasso di tempo, un lasso temporale tra azione subita e reazione eseguita […]. Un certo scarto si fa tra la mia percezione e la mia azione, e proprio in questo senso la mia reazione può essere detta ‘intelligente’»[ix]. Sotto questa luce, la conoscenza promossa dalla società della conoscenza, la conoscenza organizzata secondo una logica sistemica di ottimizzazione e riduzione dell’incertezza – disindividualizzata, scomponibile, riproducibile, misurabile e commisurabile, depurata di ogni consistenza soggettiva –, rappresenta di fatto un avanzamento in direzione della dismissione dell’intelligenza, dei suoi ingombri, della sua strutturale inefficacia e inefficienza.

A questo livello si ridefinisce anche la questione della responsabilità, che Bertoni solleva sotto forma di due interrogativi. Il primo: «Perché nessuno si ribella? Perché tutti subiscono passivamente queste angherie; anzi collaborano in modo convinto?»(pag. 102). E il secondo: «Non ti metti mai nel punto di vista di chi è stato escluso, di chi è stato costretto ad emigrare, di chi ha fatto decine di concorsi ed è stato sistematicamente scavalcato dal cretino di turno? Gente che forse potrebbe ottenere giustizia attraverso questi sistemi di valutazione che critichi tanto. Non pensi che ciò che disturba tanto la tua vita quotidiana potrebbe cambiare il destino di molte persone?» (pag. 103).

Riguardo alla mancata ribellione, anzi alla collaborazione, Bertoni richiama Levi, la cui analisi della natura del potere viene oggi significativamente sempre più all’attenzione. In modo nient’affatto improprio si è parlato di «sommersi e salvati dell’università», della valutazione, dell’abilitazione nazionale e così via. E’ il tema della “zona grigia”, che tanta più riflessione merita alla luce di quella che sempre Stiegler ha chiamato la «mutazione tecnologica della responsabilità». Se da sempre la zona grigia esibisce confini fluttuanti – tanto nel senso del presentare una «struttura interna incredibilmente complicata», quanto nel senso di situarsi ai più diversi livelli di vita associata (dallo stato di eccezione del campo allo stabilimento industriale, diceva Levi) – oggi essa sembra più che altro non averne. La zona grigia espande illimitatamente se stessa come “impresa globale” e si legittima come efficacia rimessa all’evidenza dei numeri. Congruentemente, l’obbedienza richiesta non è riferita a ordini fatti cadere dall’alto. In una tecnologia di governo che trova nell’autonomia e nella responsabilità personale non la propria antitesi ma la condizione stessa del proprio esercizio, la risposta “esatta” viene da sé: immancabile, univoca, conforme alle regole (contabili) della nuova responsabilità. I “prigionieri-funzionari” della entrepreneurial university, ad esempio, sono e rivendicano di essere assolutamente responsabili, anzi richiamano ciascuno alla responsabilità individuale. Ma ciò cui si assiste qui è la «completa sottomissione della responsabilità alla performance, ciò che si potrebbe anche chiamare l’efficienza, ossia il ‘principio di realtà»[x]. La responsabilità si traduce così in rendicontabilità (accountability) e viene resa in tal modo al tempo stesso aproblematica e computabile – quasi una faccenda non più umana.

Per quanto riguarda invece la questione della possibilità di riscatto che alcuni troverebbero grazie alle nuove regole, la risposta di Bertoni è netta. Nulla è cambiato: il «potere accademico […] è sempre il diritto/arbitrio sul destino delle persone; resta quel vecchio potere opaco, ricattatorio e gerarchico […] che nessuna riforma ha mai pensato di scalfire» (pag. 109). Ed è vero, a nulla di nuovo abbiamo assistito sul fronte interno se non all’acquisizione di nuovi strumenti e all’affacciarsi di vecchie figure nei nuovi ruoli (o viceversa di nuove figure nei vecchi). Diverso – e questo mi pare un punto lasciato in ombra da Bertoni – il discorso sul fronte esterno, quello dell’esercito di riserva dei precari (che è invece, ed è interessante rilevarlo, al centro del libro di Granger). Eppure è proprio qui che la «mutazione genetica» evocata da Bertoni si mostra con particolare evidenza, nel volto nuovo di un «soggetto auto-assoggettato a un dominio in cui si riconosce pienamente»[xi] (ciò che significa anche tornare, di nuovo ma in altra chiave, al tema appena toccato della “zona grigia”). Gli idealtipi dei ricercatori imprenditori di oggi – “precari di se stessi”, per parafrasare a mia volta la parafrasi “intellettuali di se stessi” – hanno davvero poco in comune con gli studiosi o scienziati di professione di anche solo qualche decennio fa. Questi ultimi erano segnati, idealmente, da una vocazione all’“intervallo” che, nel confronto con altri tipi umani, li configurava quasi come disadattati, impigliati in una sorta di “ritardo” senso-motorio – per riprendere i termini deleuziani – cui fungeva da ecosistema adeguato il relativo isolamento dell’accademia. Le nuove intelligenze internazionalizzate di oggi, all’opposto, sono invitate a presentarsi sempre più sotto la veste di cervelli in fuga da vecchie lentezze invalidanti: veloci, vivaci e resilienti, come piace dire, mal si distinguono – persino quando presentano un profilo teoreticamente militante – dalla generale corsa a «visibilità e valutazione»[xii], ovvero dalla generale concorrenza richiesta ad ogni unità perfettamente sostituibile di un sistema omogeneo di eccellenze “a progetto”. Sempre più trasformati in «droni»[xiii] della ricerca, i precari diventano così la massa di pressione per il cui tramite il governo numerico a distanza, nel mentre «disorganizza le forme collettive del sapere», lavora per «organizzare la sottomissione di ciascuno al disordine generalizzato». «I tempi brevi, la provvisorietà, la confusione, l’incertezza, l’abolizione di ogni forma stabile e la permanente ristrutturazione»[xiv] risultano per questa via sempre più naturalizzati, fino a persuadere tutti – nuovi e vecchi – che ogni alternativa a questo sia qualcosa di indebito; e che quindi tanto più indebita, anzi ingiusta, conservatrice, biecamente arretrata, sia ogni nostalgia di ciò cui questo nuovo corso si oppone.

E tuttavia anche qui si nasconde un possibile equivoco. La nostalgia, che per molte cose, o forse quasi tutte, del vecchio assetto è giusto non provare (e lo stesso Bertoni ribadisce con forza e ripetutamente appunto di non averne alcuna), non significa necessariamente rimpianto. Può essere anche la forma di un positivo sentimento di scollamento, un non essere ambientati, non essere a casa nel qui ed ora; e quindi legarsi certamente ad un non-qui, ad un via-da-qui, ma non necessariamente al passato. Così, ad esempio, Ernst Bloch insisteva sul carattere non regressivo, utopico, di apertura proprio della nostalgia. In senso proprio, l’alternativa non è chiusa linearmente tra un avanti o un indietro; una vera alternativa c’è solo come deviazione dalla linea conosciuta. Un ostinato disadattamento è allora sì, come tanti lamentano, il maggior intralcio all’innovazione (la quale nulla più è se non un progetto di miglioramento indefinito dell’esistente: una «contrazione del passato sul presente»), ma anche forse il solo modo in cui è possibile inventare qualcosa di nuovo, una diversa concatenazione delle cose, via-da questo presente, dal suo passato e dal suo inebetito futuro. 

____________

NOTE

Fotografia: G. Biscardi,  Etna Comics, Catania 2015

 

[i]
            P. Dardot – Ch. Laval, La nouvelle raison du monde. Essai sur la société néolibérale, 2009 (tr.it. 2013).

[ii]
            Th. Lemke, Foucault, Governamentality, and Critique, “Rethinking Marxism”, 14/3, 2002, pp. 49-64.

[iii]
            Guy Neave, The Evaluative State, Institutional Autonomy and Re-engineering Higher Education in Western Europe. The Prince and His Pleasure, 2012.

[iv]
            All’URL: http://cameronneylon.net/blog/researcher-as-victim-researcher-as-predator/

[v]
            Cfr. “Impossibile calcolare la ricerca”, intervista al filosofo Tullio Gregory di Roberto Ciccarelli, “Il Manifesto”, 15.09.2012.

[vi]
            B. Stiegler, Etats de choc: Bêtise et savoir au XXIe siècle, 2012.

[vii]
            J.F. Lyotard, La Condition postmoderne: rapport sur le savoir, 1979 (tr. it. 1981).

[viii]
         “Le grand désenchantement”. Un entretien avec le philosophe Bernard Stiegler, Le Monde, 21 febbraio 2011.

[ix]
            G. Deleuze, Cinéma, Lezione del 18 maggio 1982, accessibile all’URL http://www2.univ-paris8.fr/deleuze/article.php3?id_article=157. Cfr. Y. Citton, L’Avenir des humanités, 2010 (tr. it. 2012), cap. 2.

[x]
            B. Stiegler, Etats de choc, cit.

[xi]
            R. Ciccarelli, L’emergenza delle nostre vite minuscole, in “aut aut”, 365/2015, “Intellettuali di se stessi. Lavoro intellettuale in epoca neoliberale”, pp. 37-53.

[xii]
            M. Nicoli. L’etica del lavoro intellettuale e lo spirito del capitalismo, ivi, pp. 7-20.

[xiii]
            S. Basch, Le démon de l’explicite, “Cités”, 2009/1, pp. 51-57.

[xiv]
            Ch. Granger, La destruction dell’universitè francaise, 2015, introduzione. 

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