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diretto da Romano Luperini

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La radioterapia

 Siccome il lupo perde il pelo ma non il vizio, dopo La rancura ho cominciato a scrivere un nuovo romanzo, previsto da Mondadori per la primavera prossima, ma in realtà tuttora in alto mare. Dovrebbe articolarsi su due livelli, uno ambientato nei nostri giorni, l’altro negli anni novanta del Novecento, fra Mani pulite e l’attentato alle torri gemelle. Dal primo ho stralciato questa pagina che si può leggere anche ignorando il resto. Il titolo del nuovo romanzo è anch’esso un terno al lotto. Per ora mi sono venuti in mente L’ultimo decennio del secolo, molto ovvio, oppure Appuntamento con l’upupa, a causa di alcune apparizioni di questo alato, oppure Un bene mobile, riferito al corpo.

 

La radioterapia

Faceva molto caldo. Non era il caldo sano dell’estate, quello della mia giovinezza, quando sulla spiaggia il solleone del mezzogiorno anneriva la pelle e i corpi lo sfidavano correndo sulla sabbia che scottava e poi godendosi la doccia all’aperto fra ululati selvaggi e guizzi di  addominali e bicipiti sotto il gettito freddo…  No, era un caldo afoso, torrido, malato anch’esso. L’ autoambulanza della Misericordia arrivava a casa all’ora di pranzo.. Uscivo nel cortile e subito la vampata improvvisa del calore mi toglieva il respiro. Stordito, facevo qualche passo. L’aria vacillava davanti a me, i muri, al riverbero del sole, abbacinavano,  bianchi di calcina,  lucidi. Dovevo  arrampicarmi sul furgone arroventato, allungare la gamba, issarmi sul predellino troppo alto, ce la fa? chiedeva l’autista, e io a rispondere di sì, per stupido orgoglio, su su, sino al sedile. Appena dentro, mi investiva il soffio gelido dell’aria condizionata, oppure, quando era spenta o mal funzionante, l’aria torrida stagnante nella cabina e poi, durante la corsa, quella delle ventate che penetravano dal finestrino aperto e mi bruciavano sulla pelle del viso.

 Nella sala d’attesa della radioterapia il mio turno non arrivava mai. Anche lì faceva troppo caldo, molti non volevano l’aria condizionata, ridotta a un filo impercettibile. C’era sempre un ritardo. Un’ora, a volte due di attesa. Gli altoparlanti chiamavano i cognomi dei pazienti. E io lì, seduto, ridotto a un cognome, muto, solo, senza denti, anonimo, privo di identità. Non ero un professore, io? Alla mercé degli eventi, prigioniero dei medici, degli infermieri, dei tecnici addetti alla radioterapia.

Mi guardavo attorno. Lo spazio era diviso da una vetrata: da una parte la sala d’attesa, dall’altra gli ambulatori, ai quali si accedeva da una porta sempre chiusa che solo medici e infermieri potevano aprire. Alcuni fra i pazienti sembravano disinvolti, scherzavano coi volontari delle autoambulanze che li avevano accompagnati. I più erano silenziosi, raccolti in sé, chiusi nel guscio della propria disperazione. Diverse donne con parrucche vistose, con foulard e bandane a nascondere la testa.

Quando risuonava il mio nome e passavo attraverso la porta che mi immetteva dall’altra parte della vetrata, ero nelle mani dei tecnici addetti alle irradiazioni, in camicie bianco, due coppie a turno: o due ragazze o un paio di ragazzotti. Dentro potevo trovare le une o gli altri, impossibile saperlo in anticipo, ma io pregavo che fossero le ragazze.

Una volta dentro potevi solo obbedire, dovevi spogliarti sono alla cintura. distenderti su un ripiano metallico sotto la macchina, farti legare, girare la testa come comandavano, offrire la gola con la giusta inclinazione al fascio delle irradiazioni. Il ripiano dove venivo disteso supino era piatto, il collo e la testa, senza guanciale, disposti in modo obliquo, innaturale, piegati sulla mia destra. Le mani dei tecnici mi incastravano a forza spalle, collo e capo in una morsa metallica che li immobilizzava, una museruola. Le ragazze mi davano del lei, cercavano di alleviarmi il disagio ponendo  sotto la nuca strisce di stoffa, asciugamani arrotolati. I ragazzotti mi davano del tu, mi afferravano malamente per il collo torcendolo a destra o a sinistra, erano bruschi e impazienti, parlavano fra loro a voce alta come se non esistessi, commentavano il carciomercato del Milan e della Juventus o la serata in discoteca, e io vedevo solo da basso le loro braccia tatuate, i braccialetti colorati ai polsi, i peli sul petto che uscivano dai camici semiaperti. Una volta che avevo una canottiera ingiallita, mentre stavo spogliato in piedi davanti a loro vestiti, uno dei due mi disse: Ma non te la lavi mai codesta canottiera? Umiliato, non avevo avuto la forza di reagire, avevo fatto un sorrisetto stupido, e questa arrendevolezza aveva accresciuto ancor più la mia frustrazione.

Il trattamento durava mezz’ora, ma il tempo non passava mai, le spalle e il collo facevano male, con gli occhi chiusi ascoltavo il rumore della macchina, mi fissavo su una immagine o un ricordo, contavo sino a mille, poi ricominciavo, ma più lentamente, finché le voci dei tecnici tornavano a raggiungermi, qualcosa si moveva sopra di me, mi sentivo prendere per le braccia, tirare su…

Dopo poche sedute, la bocca si riempì di infiammazioni, di afte,  di candida. Mi curavano con sciacqui, pomate e cortisone, e mezz’ora al giorno di flebo in un altro ambulatorio seduto in mezzo  ai pazienti che facevano la chemio. Ma ormai non potevo più mangiare, ogni irradiazione invece di contribuire a guarirmi mi faceva peggiorare, i pochi liquidi che inghiottivo non riuscivano più a trovare i canali giusti, invadevano le vie respiratorie, sino alla polmonite ab ingestis, la sospensione della radioterapia, il nuovo ricovero, i giorni interminabili dell’alimentazione artificiale attaccato al tubo della flebo. 


Fotografia: G. Biscardi, Sala d’attesa, Palermo 2016

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