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Noi che abbiamo fatto il classico

Pubblichiamo qui l’intervento che Giorgio Palumbo (Presidente della Sezione scuola dell’Associazione italiana editori) ha tenuto al convegno Il Liceo classico del futuro. L’innovazione per l’identità del curricolo che si è svolto  il 28 e il 29 aprile 2016 al Politecnico di Milano.

 

 Il liceo classico e la crisi di iscrizioni

Noi che non abbiamo dato il massimo

Noi che non abbiamo fatto il classico

Noi fotocopie tutte uguali illuse di essere speciali.

Così canta Fedez, un rapper molto amato dai giovani in una canzone “generazionale” di grande successo. E tuttavia il liceo classico è senza dubbio la branca degli studi umanistici meno alla moda, meno moderna, con meno appeal, quella apparentemente più inadatta a ribadire l’importanza della scuola per la vita del XXI secolo. L’emorragia di iscrizioni, che sembra aggravarsi di anno in anno (nell’a.s. 2009/10 gli iscritti al primo anno erano 58.873; nell’a.s. 2015/16 sono passati a 32.241, con una contrazione di iscritti, quindi, pari ad oltre il 45%), è un dato di realtà che da un lato ci porta a riflettere sull’organizzazione del sapere e dell’insegnamento superiore e, dall’altro, chiama in causa un discorso più generale relativo al discredito e alla marginalizzazione degli studi umanistici in una società, come la nostra, sempre più marcatamente tecnocratica. Che le discipline umanistiche abbiano perduto preminenza all’interno della scuola e dell’università italiane, è certamente vero.

Le cause di questo arretramento sono molteplici. Le misure governative che si sono succedute negli ultimi anni hanno contribuito a far coincidere sempre di più la docenza con un mero ruolo burocratico, provocando un graduale ripiegamento dell’insegnamento verso il disciplinarismo; d’altro canto la cultura antica è sempre più lontana dall’immaginario giovanile, mentre le lingue classiche sono avvertite dagli studenti come codici muti e improduttivi.

In altre parole gli studi classici vengono considerati oggi qualcosa di arduo e inutile, una sorta di club austero ed elitario, non contaminato dalla modernità, le cui regole escludono la maggior parte dei ragazzi. In aggiunta bisogna anche ammettere che il liceo classico, così assediato, sembra avere smarrito le proprie più profonde motivazioni – l’indagine critica di valori, la sua capacità di interpretare la complessità -, spingendoli spesso verso l’erudizione, verso il passato e la tradizione, senza preoccuparsi di comprendere il processo storico e i suoi cambiamenti. Troppo spesso gli studi classici hanno fatto della propria separatezza dal mondo un blasone di nobiltà. Nel suo scritto Invective contra medicum già Petrarca affermava che la nobiltà della letteratura risiede proprio nella sua “inutilità”. L’asino è più necessario del leone, la gallina è più necessaria dell’aquila: dunque sono meno nobili; gli studia humanitatis invece – scriveva Petrarca -, come l’aquila o il leone, sono nobili appunto perché non sono necessari.

Credo che questa visione aristocratica dell’umanesimo, che continua ad essere riproposta anche oggi da più parti, vada rivista, addirittura rovesciata. Gli studi classici, direi, oggi sono più necessari che mai, perché traggono la loro forza dal proprio carattere democratico, critico, aperto, «mondano», per usare un termine caro ad Edward Said, uno dei più raffinati interpreti della cultura contemporanea.

Un patrimonio per il futuro

Studiare la lingua e la civiltà classica ci insegna che non esiste una verità che non possa essere relativizzata o rovesciata. Che non esista storia che, in una qualche misura, non possa essere narrata e rispettosamente compresa in tutte le sue ambiguità e le sue sofferenze. Che non esista novità o diversità che non possa essere indagata e accolta. Questo è valso, ad esempio, per Euripide, che nella sua ultima e più grande tragedia, le Baccanti, ci parla proprio della resistenza e dell’accettazione del nuovo, della necessità anche dolorosa di accogliere il cambiamento. Scuola del sospetto, del dubbio – il liceo classico -, di un sapere forse non immediatamente spendibile ma che è folgorante punto di vista, credito (questo sì spendibile) di umanità.

Le discipline classiche hanno strutturalmente bisogno di una continua revisione, di un perenne ripensamento. Abitano la crisi, perché rappresentano un antidoto alle menzogne del linguaggio. Una volta fossilizzate in una tradizione, perdono la propria vitalità. L’idea di una scuola separata dal mondo della storia e dal lavoro umano porta con sé il rischio di una perdita della nostra memoria culturale e della stessa identità occidentale. Si tratta allora di ritornare a vedere e a intendere il liceo classico come una pratica funzionale e non come un abbellimento o un esercizio di nostalgica rievocazione del passato.

Ripensare il paradigma didattico

Come fare, dunque? Ovviamente non è possibile ritornare indietro agli anni della nostra giovinezza, quando il valore e l’autorevolezza degli studi classici non avevano bisogno di conferme. Occorre viceversa lavorare a un paradigma didattico nuovo che tenga conto non solo delle acquisizioni del passato ma delle tendenze di fondo di un mondo che è cambiato. C’è bisogno, insomma, di un modo nuovo di insegnare la lingua e la letteratura classica, che punti a coinvolgere l’orizzonte culturale e l’immaginario dei giovani, per indurli alla riflessione critica e alla presa di posizione. La lingua, beninteso sempre necessaria, deve essere propedeutica ad uno studio interpretativo dei testi e della civiltà, capace di collegare la lettura antica all’esperienza concreta dei giovani, ai grandi temi antropologici. L’insegnamento delle letterature classiche può diventare così un momento di raccordo fra le altre discipline, dando forza alle aperture interdisciplinari alla storia, alla filosofia, all’arte, misurandosi con la cultura contemporanea, fornendo ai ragazzi gli strumenti per leggere le problematiche del nostro tempo e, al tempo stesso, riconsiderando il passato dalla prospettiva del presente. 

In questo senso occorre proporre e diffondere buone pratiche di didattica laboratoriale, che diano spazio alla discussione in classe, alla collaborazione e al lavoro cooperativo, rafforzando le motivazioni degli studenti, puntando a potenziare le competenze trasversali ed esercitare criticamente le abilità tecnologiche e multimediali, incrociando linguaggi e strumenti differenti con l’obiettivo di far ‘costruire’ attivamente le conoscenze. Il liceo classico può e deve diventare un luogo di scambio e di interferenza, capace di dialogare con la società, attivando percorsi di alternanza con gli enti pubblici e privati presenti sul territorio, e rinnovando il curriculo con il potenziamento delle lingue straniere. L’innovazione didattica va anche accompagnata e, al tempo stesso, sollecitata da un  ripensamento del format dell’esame di Stato, e in modo particolare della seconda prova, che dovrebbe valorizzare gli aspetti culturali, e non solo meramente linguistici, della civiltà greca e romana, stimolando così quel processo di riappropriazione del senso di ciò che si studia che è la base di un apprendimento veramente significativo, stabilendo un ponte tra l’immaginario storico dei testi classici e l’immaginario e il vissuto degli studenti.

Nuovi strumenti per una scuola nuova

In tale prospettiva il ruolo dei sistemi di istruzione risulta fondamentale; e anche di coloro che tale sistema affiancano, e direi quasi – mi si passi il termine – nutrono, fornendo gli strumenti più vari ma certo meditati, e cioè gli editori. In una società della conoscenza, com’è la nostra, contrassegnata dalla dinamicità, dalla complessità, dall’uso diffuso e pervasivo delle tecnologie digitali, il “capitale umano” sarà chiamato sempre più a ricomporre conoscenze elementari, competenze diffuse, acquisite in diverse sedi. La società della conoscenza è infatti una società della rete, anche se al momento gli stimoli prospettici verso l’uso consapevole del digitale funzionano quasi come metafora o come via di indirizzo, frequentatissima a livello di affermazioni paradigmatiche, meno dal punto di vista della concreta realizzazione e della compiuta formalizzazione.

La contrapposizione carta versus digitale è vuota, inutile. Da anni l’editoria scolastica, italiana come europea, fornisce l’uno e l’altro. Con un’unica preoccupazione: dare a questo sapere diffuso una organicità che lo renda trasmissibile, e che contribuisca ad una assunzione critica della conoscenza, a una lettura consapevole del reale. “Capitale” sì, dunque, ma soprattutto “umano”.

Per raggiungere questo obiettivo occorrono confronto e programmazione. Perché ovviamente già l’espressione “società della conoscenza” postula di per sé un interrogativo ineludibile: quale conoscenza? E’ ancora predicabile una pedagogia dell’apprendimento che parta dal come, dai veicoli di trasmissione del sapere, ma abbia il proprio terminale anche in una visione di umanità, in una idea di mondo?

Scuola cittadinanza del mondo

O la scuola e l’editoria riusciranno a ri-legittimare la cultura classica come grande serbatoio di simboli, di immagini e di esperienze che hanno un valore ancora attuale, oppure il liceo classico diventerà sempre più marginale nel sistema della formazione scolastica. La sfida del liceo classico nella contemporaneità consiste allora nel salvare dal naufragio e nel rilanciare in modo nuovo la propria peculiarità, trasmettendo il senso di una scoperta per tutti, per rendere il più trasparente ed efficace possibile l’opera di selezione, di indagine, di divulgazione che gli è propria. Viviamo anni difficili, e tumultuosi, di cambiamenti epocali. Editori, insegnanti, dirigenti, traduttori, intellettuali – tutti coloro che, da diverse prospettive, lavorano nell’ambito dei saperi classici hanno oggi forse una responsabilità in più: comprendere quello che sta accadendo, studiare, analizzare e vegliare perché si riattivi e  non si perda la specificità dell’eredità classica. Perché la scuola, in questo spazio di lacerazioni, deve educare alla cittadinanza del mondo e non può rinunciare, come ha scritto la filosofa statunitense Martha Nussbaum, a «coltivare l’umanità», l’universale umano che è in tutti noi.

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