La Liberazione nelle grandi città di Bruno Maida, pubblicato da Edizioni del Capricorno, è uscito il 22 aprile in libreria e in allegato a La Stampa, La Nazione, Il Resto del Carlino, Il Giorno e l’Adige. Qui, per gentile concessione dell’editore e dell’autore, pubblichiamo l’introduzione al volume.
La festa della liberazione, il 25 aprile, si celebra esattamente da settant’anni. Il 22 aprile 1946, infatti, il principe Umberto, all’epoca luogotenente del regno d’Italia, emana su proposta del presidente del consiglio Alcide De Gasperi un decreto legislativo nel quale è scritto che «a celebrazione della totale liberazione del territorio italiano, il 25 aprile 1946 è dichiarato festa nazionale». Tre anni dopo, l’istituzione dell’«anniversario della liberazione» – come viene definito – diventa a tutti gli effetti legge dello Stato italiano (la numero 260 del 27 maggio 1949). Così come le guerre non finiscono in un giorno, quando si spara l’ultimo colpo o si firma un armistizio o una resa, allo stesso modo anche la liberazione di un Paese da un’oppressione, da un’occupazione, da un nemico, non si compie né conosce la sua parabola in poche ore.
Quella dell’Italia, in particolare, è stata una lunga liberazione, iniziata con lo sbarco alleato in Sicilia il 10 luglio 1943 – e l’entrata trionfale degli Alleati, dodici giorni dopo, nella prima grande città italiana, Palermo – e proseguita per i venti mesi della Resistenza: le quattro giornate di Napoli nel settembre 1943, la grande speranza della liberazione di Roma in coincidenza con la sbarco in Normandia nel giugno 1944, la battaglia di Firenze dell’agosto dello stesso anno. E poi le città del Nord: la prima a essere liberata è Bologna il 21 aprile 1945, seguita dalle grandi città industriali (Genova, Torino, Milano) dalla cui storia insurrezionale nasce la data del 25 aprile. Infine Venezia, uno dei simboli del patrimonio culturale italiano che i diversi attori impegnati nella sua occupazione, difesa o conquista cercano di proteggere e dove avviene, negli ultimi giorni di aprile, la più anomala delle liberazioni.
Manifesti inneggianti agli Alleati in un paese del centro Italia Estate 1944 [ANSA/S&M Studio]
La parola «liberazione» accompagna, s’intreccia e per molti versi incarna la Resistenza italiana, che spessonon a caso è ricordata come «movimento di liberazione» o «guerra di liberazione». È una liberazione nazionale, innanzitutto, che la crisi dello Stato e delle sue strutture l’8 settembre ha rivelato in tutta la sua necessità: la fuga del re e del governo, la dissoluzione dell’esercito e gli italiani lasciati a loro stessi sono tutti elementi che costringono le persone a interrogarsi e a scegliere come collocarsi in un contesto di sicurezze sostanzialmente azzerato.
È la strada che percorre il tenente Innocenzi, il protagonista di Tutti a casa, interpretato da Alberto Sordi, il quale, attraversando l’Italia, si fa sempre più cupo, mostrando di non voler stare da nessuna delle due parti, scappando dai partigiani veneti che vanno in montagna con le armi nascoste nel camion, così come dal piccolo gerarca romano che lo vorrebbe arruolato nell’esercito di Graziani. Quando la sorte gli è favorevole scappa con il camion lasciando a terra i suoi compagni di viaggio, rivendica a lungo le gerarchie militari ponendo con i soldati distanze che nei fatti sono scomparse, fugge e continua a fuggire davanti a tutti, dai tedeschi, dai fascisti, dalle proprie responsabilità come ufficiale e come italiano. Il tenente Innocenzi vorrebbe non scegliere, ma il suo breve viaggio costituisce la sua educazione politica, nel senso ovviamente più alto, e nello stesso tempo il suo riconoscersi in una storia nazionale non liquidabile, appunto, in un ovattato e sordo ritorno a casa. Insomma, impossibilitato a essere solo l’Omero antimilitarista che Italo Calvino racconta nel dopoguerra sulle pagine dell’Unità, Odissea collettiva e simbolica di tutti gli 8 settembre della storia, il tenente Innocenzi, cupo sì ma anche pensieroso, si costringe in una condizione di stallo, di attesa, fino alla morte di Serge Reggiani e al momento in cui, all’alba delle quattro giornate di Napoli, imbraccia la mitragliatrice e inizia a sparare contro i tedeschi, pronunciando «agl’ordini» davanti all’improvvisato ma convinto comandante partigiano. «Non si può stare sempre a guardare», ha detto pochi minuti prima, quando ha visto la popolazione napoletana falciata dai fucili tedeschi.
Aprile 1945 manifesto che invita alla resa incondizionata al CLN i fascisti e i tedeschi nelle giornate dell’insurrezione nazionale [ANSA/S&M Studio]
Alle origini, dunque, si collocano quell’8 settembre e le «varie e diverse vie, che sembravano traversie ed eran in fatti opportunità», come recita la dedica vichiana che Vittorio Foa appone, il 23 agosto 1943, lasciando la prigione fascista dopo otto anni di reclusione, sulla copia della Scienza nova seconda che lascia al suo compagno di cella. Ma si colloca anche la nascita, il 9 settembre, del Comitato di Liberazione Nazionale che nella sua prima mozione scrive: «Nel momento in cui il nazismo tenta di restaurare in Roma e in Italia il suo alleato fascista, i partiti antifascisti si costituiscono in Comitato di Liberazione Nazionale, per chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza per riconquistare all’Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni». Liberarsi dal fascismo, dunque, e prima di tutto da un regime ventennale e dal suo epilogo debole quanto violento della Repubblica Sociale, ma nello stesso tempo immaginare un Paese nuovo attraverso una rivoluzione democratica. Liberarsi dall’occupante tedesco che semina morte e distruzione in tutta la penisola, in una guerra totale che definisce una geografia del terrore: Meina, Boves, Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, Fosse Ardeatine. Un elenco di migliaia di piccoli e grandi episodi che dovrebbero – e non è così, perché i colpevoli rimarranno in gran parte impuniti – unire alla fine della guerra liberazione e giustizia.
Gli alleati entrano a Siena liberata il 2 luglio 1944 [ANSA/S&M Studio].
La liberazione è anche l’insurrezione, i giorni o le settimane durante le quali le città italiane si sollevano o partecipano a un atto popolare che ha un forte significato politico e militare, perché indica la volontà della Resistenza di dare una prova di forza e di autonomia nei confronti degli Alleati e della Santa Sede, che vorrebbero, al contrario, mantenere le forze partigiane in una condizione marginale e ancillare, timorosi di una rivoluzione comunista o comunque di un processo democratico non del tutto controllabile. La liberazione è però prima di tutto una festa, perché è la fine della guerra, dei bombardamenti e della vita nei rifugi, del razionamento (anche se in realtà durerà a lungo) e della paura. Anche per questo è una lunga liberazione: rapida, improvvisa e definitiva per le città del Nord; inizio di una lunga attesa e di una altrettanto lunga occupazione alleata per quelle del Centro-Sud.
Aprile 1945 manifesto che incita all’insurrezione generale [ANSA/S&M Studio].
Un dirigente industriale, Carlo Chevallard, acuto osservatore della realtà torinese, che tiene un prezioso diario dal 1942 al 1945, racconta nelle ultime pagine la città all’indomani della liberazione. È il 30 aprile, un lunedì, e Chevallard registra confusione, gioia, bandiere, tracce di lotta, ma pochi segni di una resa dei conti, corse di macchine e negozi chiusi. Pensa che il giorno dopo è il 1° maggio, quindi quello è di fatto il secondo di tre giorni di festa. Ecco, è il sentimento della festa a essere il più diffuso: «In tutti quelli con cui parlo è unanime la gioia: la crisi è stata talmente breve ed ha avuto un esito così felice che si è tutti intontiti. Possibile che il tanto atteso e tanto temuto ‘momento di transizione’ sia già giunto e già finito? Possibile che non si debbano più sentire le sirene (anche quella delle dieci è scomparsa), che l’oscuramento sia terminato, che non si abbia più a temere mitragliamenti e retate, bombardamenti e confische? È talmente bello, talmente insperato! Abbiamo toccato finalmente il fondo dell’abisso: cominciamo con animo lieto a risalire la lenta china che ci permetta di ritornare alla dignità di nazione grande, sì, ma soprattutto libera e civile».
Ingresso dei partigiani in Novara liberata, 26 aprile 1945 [ANSA/S&M Studio].
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