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Il lutto, il corpo, il vuoto: il romanzo allegorico di Gabriele Di Fronzo

 Fin dai luoghi-soglia del libro d’esordio di Gabriele Di Fronzo, Il grande animale (Nottetempo), il lettore percepisce di trovarsi al cospetto di un perfezionista: se il pappagallo che campeggia in copertina, così ben imbalsamato da sembrare vivo, ci invita a fare la conoscenza di una «persona consacrata agli animali» (p. 12), la citazione in esergo – tratta dal romanzo La lezione di violino di Lucia Drudi Demby – suggerisce l’idea di qualcuno che lavora con tanta perizia da saper far scomparire qualunque traccia di artificio: «Vorrei eseguire le mie incombenze così bene che non ci si accorga che le ho eseguite».

Sostenuta da uno stile nitido, controllato e impreziosito da un lessico ricercato, punteggiato di lemmi di raffinata desuetudine, ma mai affettato, la vicenda raccontata in questo romanzo diviso in 125 brevi capitoli è piuttosto semplice: Francesco Collaneve, appassionato e meticoloso tassidermista, si trasferisce nell’appartamento del padre anziano, in attesa di ricovero in un centro riabilitativo, a causa di un peggioramento nello stato di salute di questo. La necessità, accettata senza il minimo turbamento, spinge quindi il figlio a far giungere puntigliosamente, in tanti diversi pacchetti inviati per posta nella casa del genitore, tutti i suoi attrezzi: coltelli e coltellini, forbici, pinze, tenaglie, aste, vuotacarni, raspe, martelli, spilli e aghi, pennelli, pomate, plastilina, succhielli. Nell’appartamento del padre, velato di una malinconica vedovanza (basti pensare al letto matrimoniale tagliato a metà e rinominato “letto morsicato”), lo sgabuzzino viene eletto a studio e Francesco si prepara a conciliare il lavoro commissionatogli su un raro esemplare di serpente esotico e l’accudimento parentale. Le due operazioni non sono poi così lontane tra loro: come l’attività di tassidermista porta Collaneve a cercare di rendere “vivo” un animale morto, così il figlio si trova a rimemorare al padre, la cui memoria «si sfalda, si sbriciola» (p. 54), il passato comune, rievocando su richiesta dell’anziano i litigi, i diverbi, gli episodi sgradevoli, ora sentiti dal padre come colpe e ripetuti ossessivamente come una sorta di giaculatoria dopo averli sentiti dal figlio. La pazienza esercitata quotidianamente a contatto con i suoi animali – gatti, fenicotteri, tartarughe, cani, farfalle – è l’arma che consente a Francesco di enumerare, l’una dopo l’altra, sezionandole con freddezza e scarnificandole dal dolore, le piccole tirannie paterne subite nell’infanzia e nell’adolescenza:

 Perché vuoi che ti ricordi solo queste cose, gli chiesi?

[…]

Il resto non l’ho dimenticato, mi rispose. (p. 88 e p. 90)

Ciò che colpisce, in questa storia allegorica  nella quale le ultime settimane di vita del padre sono per Francesco una sorta di preliminare elaborazione del lutto e i giorni successivi alla morte sono invece una forma di decisa riluttanza alla perdita definitiva, sono la clausura e la solitudine in cui vive il figlio: Francesco non mostra cenno alcuno a una sua vita privata, antecedente o concomitante a questa fase transitoria di convivenza col padre. Anche i rapporti con la clientela, tanto fiduciosa da riuscire a rintracciarlo nonostante il cambio di residenza, vengono ridotti al minimo e, quando possibile, risolti dal citofono dell’appartamento: «mi ero messo una sedia appena sotto il citofono, mi sarebbe spiaciuto avere l’aria distratta di uno che ascolta all’impiedi» (p. 98). Sembra che Francesco sia incapace di relazioni umane e che la sua vita si riconduca solo alla manicale precisione con cui imbalsama il serpente e con cui cerca di rianimare la memoria del padre.

La strana vita a due di questa coppia di uomini è addolcita dal gioco che l’anziano si inventa e che lo sorprende anche nel momento del trapasso: «il maggior piacere che provava mio padre nelle ultime settimane di vita era quello di scambiarsi gli abiti con me, a parte l’accappatoio azzurro che riteneva unicamente suo e non prestabile.» (pp. 103-104).

Il sopraggiungere silenzioso e quasi imprevisto della morte non sorprende Francesco che, dopo aver assistito «senza nessun interesse professionale» (p.105) alla preparazione del suo cadavere, si appresta a trasformare l’appartamento, ormai percepito come un “fantasmeto”, in un “grande animale” svuotato, depurato di ogni scoria. La sua puntigliosità di imbalsamatore silenzioso e caparbio diventa perizia ossessiva e maniacale e si colora dei tratti inquieti della claustrofobia, nonostante il freddo e la pioggia che penetrano dai balconi sventrati, nonostante il buio che subentra dopo l’eliminazione della corrente elettrica e lo srotolamento delle tapparelle: «è il buio più grande dentro cui mi sia mai trovato a lavorare, è peggio di tutti i ventri che ho vuotato» (p. 118). Ogni camera dell’appartamento, privata di mobili e suppellettili, viene passata al setaccio, ridotta, sminuzzata, sgomberata, evirata, sviscerata, sventrata e, infine, fissata con la pomata arsenicale in una immutabilità definitiva:

Pennellerò con questa ogni più piccolo oggetto, oltre ai muri dell’appartamento, salirò sulla scala a quattro pioli che dallo stanzino ho trasferito sul balcone e farò lo stesso col soffitto, poi camminando a passo di gambero verso la porta, iniziando da una camera e, una volta conclusa, passare all’altra, fino a che non mi rimarrà che l’ingresso, mi occuperò dell’ultima tappa del mio incantesimo, il pavimento cosparso meravigliosamente per sempre, per sempre la mia magheria. (p.157)

La fine del libro è già presente e anticipata nel suo incipit netto, in un movimento circolare che permette al vuoto della morte e alla vivezza del ricordo imbalsamato di completarsi:   

Ho fatto esperienza che qualunque cosa non si voglia perdere va innanzitutto vuotata: […] solo così, ciò che altrimenti subito scomparirebbe, rimarrà nostro per sempre (p. 9).

Il mio grande animale, la  mia balena con le finestre, il mio elefante con le porte, è finalmente vuoto, prima di adesso non avevo mai visto la casa di mio padre senza che nulla ci fosse dentro, l’ho svuotato io ed è pronto a non morire mai […] niente più spoglie che possano stormire e chiamare il mio nome quando sarà notte. (pp. 160-161)

Il romanzo d’esordio di Di Fronzo ripropone a suo modo un tema già frequentato negli ultimi anni nella narrativa contemporanea: la rappresentazione del rapporto con il padre e l’elaborazione del lutto (si pensi, per limitarci a testi italiani,  a Vita e morte di un ingegnere di Edoardo Albinati, 2012, o al più lirico Geologia di un padre di Valerio Magrelli, 2013). Il grande animale si inserisce così in un filone che ha come epicentro uno dei nodi emotivi e antropologici della generazione dei quarantenni e dei cinquantenni di oggi: l’accudimento dei genitori anziani. L’inesorabile e quotidiana perdita, da parte loro, di abilità motorie e manuali, di capacità psichiche e cerebrali, di tratti caratteriali in passato dominanti e perfino “temibili” li consegnano, sempre più inermi, alla pena e alla compassione di figli trasformati in balie (e in questo Francesco Collaneve può ricordare a tratti il protagonista de L’invenzione della madre di Marco Peano).

Tuttavia tra precisione neobarocca e dettaglio iperrealista – emblematiche le pagine dedicate all’allestimento della salma del padre da parte degli addetti alle pompe funebri – il romanzo di Di Fronzo allestisce un’allegoria vuota, che domanda al lettore di essere interpretata. L’originalità del romanzo, infatti, sta nel differente modo in cui si rappresenta l’assenza che segue alla morte: non si assiste, ne Il grande animale, a un recupero memoriale della figura parentale, già elaborata e “ricomposta” nelle settimane di permanenza al suo fianco, ma piuttosto a un iperattivismo quasi psicotico del figlio, volto a imbalsamare la casa, a renderla involucro immutabile, esemplare da museo o nuova cattedrale di cui Francesco, come un novello Anubi, è insieme artefice e custode.

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