Il mondo non è mai stato così opaco e accelerato. A margine di un caso di revisionismo storico
La targa in memoria di Giuseppina Ghersi e il revisionismo neofascista
Poche settimane fa, sui giornali e in rete, si è letta una dura polemica intorno a una targa commemorativa per una ragazzina ligure di 13 anni, Giuseppina Ghersi, che nel ‘45 fu – si è detto – violentata e uccisa da partigiani comunisti. La questione, di interesse locale, ha fatto il balzo verso le cronache nazionali quando la sezione savonese dell’Anpi si è dichiarata contraria alla targa, sia perché vedeva in questa decisione una strumentalizzazione politica, sia perché, nonostante la giovane età di Giuseppina Ghersi, si trattava comunque di una fascista. Questa presa di posizione ha ovviamente suscitato feroci riprensioni anche a sinistra e divisioni all’interno della stessa Associazione dei partigiani, ligure e nazionale.
Ma le cose stanno davvero così?
La ricostruzione della vicenda, data per assodata da giornali locali e nazionali (si veda ad esempio il Corriere), è in verità molto incerta e oscura.
Nessuno, infatti, ha minimamente sospettato che l’acqua fosse inquinata all’origine, e dalla riaggallante fanghiglia del neofascismo. Chi si occupa per professione di manipolazioni revisioniste e negazioniste è prontamente intervenuto e ora possiamo leggere un primo debunking della vicenda da parte del collettivo Nicoletta Bourbaki (ma si veda anche questa accurata ricostruzione dello stemma codicum degli articoli che hanno dato la notizia).
A che servono i giornalisti?
Domenica 17 settembre ho acceso il mio pc per cercare qualche informazione in più sul caso Ghersi: il racconto dei fatti mi era arrivato alle orecchie tanto inestricabilmente intrecciato con le opinioni e tanto profondamente intriso degli umori polemici, che volevo, pacatamente, cercare innanzitutto di capire il profilo diciamo “oggettivo” della vicenda. Preciso però che prendevo per buona la ricostruzione vulgata, non avevo l’intenzione di smontare alcunché, anche perché non avevo ancora letto il pezzo dei Nicoletta Bourbaki. Ma a mano a mano che leggevo, mi insospettivo.
Il campanello d’allarme è suonato quando ho scoperto, sul «Messaggero», che la targa in memoria di Giuseppina Ghersi sarebbe stata collocata in piazza fratelli Rosselli: perché commemorare una ragazzina uccisa dai partigiani proprio sotto il naso di due delle più celebri vittime del fascismo? L’ho capito indagando su chi fosse il promotore dell’iniziativa. Ebbene, si tratta di un consigliere comunale di Noli, Enrico Pollero, descritto sui giornali, locali e nazionali, come «di centrodestra» e «con un padre partigiano che è stato in montagna per diciotto mesi», ma che in verità è un esponente di Forza Nuova.
Per scoprirlo, mi è bastata una rapidissima ricerca su Facebook (il personaggio in questione ha un profilo aperto) e su Google (qui si parla della sua adesione a questa forza politica).
Come è possibile che una ricostruzione storica evidentemente inquinata dal revisionismo neofascista sia potuta arrivare a noi come fatto storico? I neofascisti sono pochi, ma in più occasioni (eccone un’altra) hanno dimostrato di essere molto ben organizzati e consapevoli nel manipolare le informazioni; soprattutto, hanno dimostrato di procedere secondo una strategia retorica ben precisa: lì dove si tratta di revisionismo, si intrufolano alla chetichella nel dibattito pubblico parlando di “ricostruzione storica equanime”; lì dove si tratta di ridimensionare l’esperienza storica del fascismo, propongono l’equivoco concetto della “rappacificazione nazionale”, ecc…, una strategia morbida e insinuante, che infatti spesso fa breccia fra democratici in buona fede.
In effetti è necessaria un’applicazione che richiede tempo ed energie per decostruire le loro narrazioni, ma sarebbe bastato semplicemente verificare il profilo Facebook di Enrico Pollero, per drizzare le antenne davanti alla sua presentazione improntata all’adagio “ho molti amici ebrei, però gli ebrei…”, “ho molti amici gay, però i gay…”, e per presentare il personaggio in tono quanto meno dubitativo. Stando alle “autocertificazioni”, potremmo infatti credere che la mistificazione riguardi proprio Pollero, che, successivamente alla polemica, ha dichiarato di non essere legato a Forza Nuova.
Io non posso affermare con certezza né che lo sia, né che non lo sia: dovrei conoscere quel contesto politico locale o fare verifiche sul campo. Ma, in mancanza di ciò, mi guarderei comunque bene dal definirlo «di centrodestra e con un padre partigiano». Strana e interessata definizione per uno che ha una bacheca Facebook piena di post di Forza Nuova, di Casa Pound, nonché interventi violenti contro rom e stranieri, e che viene smentito da notizie di un anno fa, pubblicate quindi in tempi non sospetti.
Ma la targa, alla fine, l’hanno messa?
Il 30 settembre, infine, la targa a Giuseppina Ghersi è stata inaugurata. La notizia però non è rimbalzata sui social network come la polemica che da essa si era generata. Le notizie detonano in questi luoghi virtuali di discussione solo se creano un caso esemplare, un dilemma etico: difendere una fascista, che però era in primo luogo un’indifesa ragazzina brutalizzata, o difendere una memoria e un valore, l’antifascismo, sembrando però cinici realisti politici?
Tuttavia, su alcuni giornali, se ne è parlato. Come? La Stampa si è limitata a riportare in modo molto asciutto la notizia, richiamando le polemiche dei giorni precedenti, spente di fronte a un pietoso e commosso silenzio trasversale (narrazione che sembra sobria ed equidistante, ma che in realtà rimuove la posta politica in gioco nella ricostruzione della vicenda). Un giornale locale ha incluso nel suo articolo le interviste video agli intervenuti, fra i quali spiccano due esponenti del Movimento sociale e un equivoco personaggio che si è distinto in questi anni come “storico” della vicenda Ghersi (chi sia e perché sia una fonte poco affidabile, è ben spiegato nel debunking dei Nicoletta Bourbaki). Il Giornale, secondo il suo ben noto stile violento, si è scagliato contro l’ipocrisia della frase riportata sulla targa, che non ricorderebbe la responsabilità dei partigiani, parlando solo di «ignobile viltà» dell’uccisione.
Dunque, sotto quale collocazione nel cassetto della memoria resterà questa vicenda? Non c’è dubbio: ormai la narrazione è scritta ed è stata abbandonata alle istintive appropriazioni dei molti lettori; inoltre le decostruzioni storico-filologiche hanno un impatto limitatissimo. Dei dubbi sulla ricostruzione, dell’inquinamento delle fonti neofascista, non c’era infatti traccia nemmeno in un servizio della trasmissione quotidiana di Corrado Augias del 26/9, dove si parlava proprio di memoria e oblio (e durante la quale, per ironia della sorte, il conduttore, in risposta a un ospite che invitava a rivolgersi a fonti affidabili, chiosava vanitosamente: noi lo siamo).
Prima conclusione: vero e falso, falso-vero
Mi pare che ci tocchi constatare come la nostra quotidiana polemica contro le bufale, le fake news, il complottismo inquietante ma pur sempre piuttosto pittoresco, siano solo la schiumiccia visibile di un mare ben più torbido, per cui sarà insufficiente limitarsi a raschiare via quella superficiale pellicola di sporcizia per avere un sistema dell’informazione in salute.
Le bufale sono conclamate falsità. Ci sono pochi o molti che continueranno a crederci, ma, a rigore, esse sarebbero facili da individuare e mettere in quarantena. Ma che dire delle notizie falso-vere, quelle notizie cioè che hanno un nucleo di verità, ma avvolto da strati di “narrazioni” e condensazioni simboliche che li deformano fino a farli diventare falsi ma perfetti per il nostro bisogno di schierarci e parteggiare? (E schierarci e parteggiare è faziosità o passione per la vita?)
Dentro il regime del falso-vero, dove il falso non è falso in sé, ma è solo uno slittamento del vero, abitiamo tutti: anche gli zelanti sbeffeggiatori della bovina credulità nelle fake news delle masse digitanti, anche chi ha spirito critico e strumenti, anche chi “fa verifiche e legge e pensa prima di parlare”. Infatti, dalla narrazione della storia di Giuseppina Ghersi siamo stati irretiti tutti, e per sempre.
Seconda conclusione: narrare e analizzare
Se il racconto dei giornali è così approssimativo, non faremmo prima a saltare la loro mediazione e ad accedere direttamente alla fase della ricostruzione affidabile dei vari debunker e fact-checker? Leggere direttamente Butac, Valigia blu (che ha dedicato un lungo e analitico articolo proprio al caso Ghersi), Il Post, …
No, non è possibile: questi siti sono diversi dai giornali che danno notizie, perché analizzano, confrontano, ragionano, illustrano, e scrivono spesso articoli abbastanza lunghi, che richiedono applicazione, fatica, tempo; inoltre, l’analisi è come la nottola di Minerva, arriva per sua stessa natura a cose fatte. Una notizia deve essere breve, deve costruire la vicenda in forma di copione leggibile e interessante, deve narrare. La narrazione ha un’esemplarità (simbolica, etica) che la mera cronaca non ha. Il caso Ghersi era perfetto e se non avesse avuto quella sceneggiatura non ci sarebbe piaciuto e non ci saremmo appassionati alla trama.
Nel dibattito intellettuale siamo ormai in una fase di riflusso rispetto alla sovreccitazione postmoderna che celebrava il citazionismo, i giochi di specchi del linguaggio che si parla da solo, la confusione tra verità e interpretazioni. Ci dichiariamo, anzi, stanchi di quella sbornia. Ma gli intellettuali spesso prevedono quello che accadrà e che puntualmente, con qualche decennio di sfasamento, si verifica, quando loro sono già stanchi di parlarne: tutto oggi è diventato narrazione, gli articoli citano altri articoli, le voci richiamano altre voci, dire che si è figlio di un partigiano equivale ad esserlo.
Terza conclusione: accelerazione e alienazione
Perché i giornalisti non hanno fatto quelle semplici verifiche che, come ho detto, avrebbero potuto facilmente fare? Tra le varie risposte che mi vengono in mente, ce n’è una che mi inquieta particolarmente.
Gli articoli che ho letto sul caso Ghersi, oltre che fattualmente approssimativi o falsi, erano anche pessimamente scritti: punteggiatura tanto mal messa da rendere difficile la lettura; molti errori di battitura (oggi dovremmo dire di digitazione), a dimostrare che chi scrive non si rilegge e non viene riletto dai caporedattori (sul Messaggero piazza Rosselli era diventata «piazza Rossetti»: e si è visto quanto l’informazione fosse importante. Io stesso, leggendo rapidamente, ho pensato a delle vittime del fascismo locale, ed è stata soltanto la successiva menzione del loro essere uccisi in Francia dalla Cagoule a farmi notare l’errore); vera e propria sciatteria linguistica (sul Corriere: «Contro l’opinione di Rago [il presidente dell’Anpi di Savona] si sono espresse alcune sezioni liguri della Liguria, altri invece come ‘Fischia il vento’ l’hanno sostenuta». Quando ho fatto leggere l’articolo in classe, nessuno dei miei studenti è stato in grado di emendare quel “della Liguria” in “dell’Anpi” e nessuno è stato perciò in grado di spiegarmi che si parlava di una divisione interna all’Anpi della Liguria. Per chi non li legge da anni e abitualmente, i giornali sono fisiologicamente difficili da comprendere, per molti motivi. Se scrivono così, alla fisiologia si aggiunge la patologia).
I giornalisti, evidentemente, lavorano dentro un sistema divorante che ha impresso una velocità incontrollabile alla produzione intellettuale, ancor prima che alla nostra fruizione: «La società moderna non è regolata e coordinata da regole normative esplicite, ma dalla silenziosa forza normativa delle leggi temporali, che si manifestano nella forma di scadenze di consegna, scansioni e confini temporali. […] Le forze dell’accelerazione, sebbene inarticolate e completamente depoliticizzate, tanto da sembrare date dalla natura stessa, esercitano una pressione uniforme sui soggetti moderni che sfocia in qualcosa di simile a un totalitarismo dell’accelerazione» (Hartmut Rosa, Accelerazione e alienazione. Per una critica del tempo nella tarda modernità, Einaudi, 2015, p. 44, corsivi originali).
Fotografia: G. Biscardi, Palermo 2017, nero
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