M’impiego ma non mi spezzo. La figura dell’impiegato nella letteratura dell’Otto e del Novecento/1
Pubblichiamo a partire da oggi e nei prossimi mercoledì una serie di interventi sul tema dell’impiegato nella letteratura del XIX e del XX secolo. Questi interventi hanno la loro origine nel corso di Letterature comparate dell’Università di Perugia, e sono stati scritti sia da docenti, che da studenti che a quel corso hanno preso parte attivamente.
1.
Il 28 piovoso dell’anno VIII (insomma il 17 febbraio 1800) Napoleone firma la legge che istituisce i prefetti. In quel momento nasce la macchina statale, con il suo esercito di funzionari, di burocrati, di amministrativi; cioè di impiegati. E il posto di impiegato – nemmeno un lavoro; piuttosto un posto di lavoro – è subito accompagnato da una mitologia che ne caratterizza la percezione esterna, e forse anche l’autopercezione, e che è alla base di una tradizione narrativa che si imporrà già negli anni Trenta dell’Ottocento con (Les employés e Il sosia ad esempio) e che continua fino ai giorni nostri (tra gli altri Bajani con Mi spezzo e non m’impiego e Cordiali saluti): la tradizione del romanzo impiegatizio.
La letteratura ovviamente fa suoi i mille pregiudizi che accompagnano questi piccoli e goffi eroi romanzeschi. Con queste parole, il protagonista di Messieurs les Ronds-de-cuir di Courteleine (Quelli delle mezze maniche, 1893), un impiegato statale ovviamente, descrive il lavoro alla sua bella compagna, clandestinamente introdotta in ufficio per trascorrere una mattinata d’amore:
Sta a sentire, è una cosa curiosissima. Ci sono alcuni (e precisamente i corrispondenti) che scrivono delle lettere che non significano niente: e altri (e precisamente gli applicati) che le ricopiano. A questo punto arrivano i commessi, i quali timbrano di blu i vari documenti, registrano le copie e inviano ogni cosa ad altre persone che non ne leggono neppure una parola. Ecco qua. Il personale degli uffici costa parecchie centinaia di milioni allo Stato.
E insieme all’inutilità del lavoro impiegatizio, nel campionario macchiettistico del genere troviamo anche l’incapacità del lavoratore (“non potrebbero fare altro”, sostiene più o meno Balzac), la farraginosità del meccanismo, e la perenna e ansiosa speranza della promozione (ovviamente ingiustificata). Tutto è vero; eppure tutto ciò non riesce a spiegare perché scrittori come Balzac, Dostoevskij, Svevo (Una vita), Joyce (Rivalsa in Dubliners), Kafka (basti citare La metamorfosi) e via dicendo sentano l’esigenza di ricorrere a questa figura, facendone non un tema tra gli altri (per quanto privilegiato), ma il centro assoluto e insostituibile dell’intreccio narrativo, e del conseguente messaggio ideologico; insomma qualcosa che travalica enormemente gli stretti confini della facile parodia.
In realtà, a ben vedere, più che il registro comico, ad imporsi in questi testi sono soprattutto le note tragiche, che diventano particolarmente marcate se si analizzano ad esempio i finali: Gregor Samsa finisce nella pattumiera, Alfonso Nitti si suicida, il balzachiano Rabourdin viene espulso dall’alta società parigina, il «nostro eroe» de Il sosia impazzisce, il protagonista de La tregua di Benedetti abdica a qualsiasi forma di vita, ecc. Detto in maniera molto semplice, questi personaggi anonimi e spesso banali, simili a tanti altri come se fossero dei cloni della società a cui appartengono, finiscono per essere schiacciati da un meccanismo più grande. Non si fatica a comprendere, allora, come la scelta del tema impiegatizio sia funzionale a descrivere proprio l’uomo comune, in cui tutti, loro malgrado, possono riconoscersi.
Al tempo stesso questo piccolo e anonimo eroe non si arrende immediatamente all’omologazione imposta dalla società, ma in qualche modo, sia pure in forma solo ribellistica e per lo più velleitaria, cerca forme di opposizione, tentando, fosse anche solo per un momento, di inceppare quell’ingranaggio sociale che è avvertito come alienante e mortifero (capace di privare dell’identità): così Bartleby si sottrae al lavoro rispondendo cortesemente, ma in maniera ossessiva, «I would prefer not to» (anticipando in questo le funamboliche aggressioni di Chinaski al Post office dove è impiegato); Gregor Samsa manda in frantumi l’economia familiare, mentre Alfonso Nitti possiede sessualmente la figlia del capo (salvo poi sparire quando si tratta di lottare per sposarla); l’«eroe» del Sosia invece non esita a mettere in imbarazzo i suoi superiori alla festa che apre il romanzo; quello di De Andrè, infine, fa «esplodere un chiosco di giornali». Sono atti di ribellioni che dimostrano che l’impiegato, cioè il prodotto tipico delle società occidentali, s’impiega appunto, ma non si spezza. O meglio non si spezza subito; viene infatti soppiantato dalla società nel momento in cui la sua ribellione diventa troppo fastidiosa: di qui il suicidio, il manicomio, la pattumiera, la pazzia tollerata, e altre forme di reclusione.
2.
Quelle sin qui descritte sono alcune rapide riflessioni che sono nate all’interno del corso di Letterature comparate da me insegnato, finendo poi per diventare guida e sintesi dell’intero arco delle lezioni. Va da sé che tutta la paternità di queste idee non può essere attribuita al sottoscritto, ma va ricondotta a quel piccolo laboratorio che si è costruito in aula. Infatti, ai consueti interventi estemporanei, si sono affiancate relazioni che docenti invitati dall’esterno e studenti del corso hanno tenuto di settimana in settimana, riuscendo ad arricchire e correggere il discorso di partenza, e al tempo stesso a irrobustire quelle idee che apparivano più condivise: secondo quel normale conflitto delle interpretazioni che regola ogni comunità ermeneutica.
Sosteneva Emanuele Zinato, in un recente convegno su Letteratura e crisi, che chi cerca sinceramente e onestamente la «discussione ermeneutica con gli studenti corre di certo il rischio di dover gestire interventi diseguali: divagazioni, accostamenti confusi, sproloqui narcisisti. Ma può, al contempo, (leggendo e commentando in modo comunitario un testo) contribuire a promuovere l’incremento della passione comune e della vitalità dell’esperienza letteraria»; ma soprattutto, continuava ancora Zinato, «per interagire con gli studenti che, a dispetto di tutto, ancora domandano di formarsi attraverso la letteratura e la critica, forse occorre […] saper rinunciare definitivamente a ogni ruolo sacerdotale, tipico della tradizione nostrana».
Quello che qui si presenta è proprio un esperimento in questa direzione; che proprio perché volto a rimuovere funzioni sacerdotali (e non è detto che ci riesca) non pretende di offrire nessun modello. Semmai l’obiettivo è proprio quello di allargare il dialogo, nelle forme e nei contenuti, e più in generale nelle possibili articolazioni. Infatti se si è scelto di pubblicare questi interventi (di coloro che volontariamente hanno deciso di mettere per iscritto quanto sostenuto a lezione) non è solo per non disperdere un nucleo di suggestioni e di interpretazioni che possono essere utili anche ad altri. Ciò che si voleva creare era anche un ponte, spesso invocato ma troppo poco messo in pratica, tra aule universitarie – da cui appunto nascono questi scritti – e aule scolastiche – dove lavorano molti dei lettori di questo blog –. E il fatto che il dialogo si strutturi seguendo gerarchie rovesciate e incrociate (dagli studenti ai docenti, dall’università alla scuola) vuole anche far toccare con mano come il concetto stesso di gerarchia sia una costruzione mentale che in una comunità ermeneutica non può avere ragione di esistere. Può sussistere tutt’al più in ufficio: con gli impiegati dei romanzi.
______________
NOTA
L’immagine è il dipinto di Marc Chagall, L’homme à la tête renversée, 1919
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